Rito

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1. Definizione

Il r. è un’azione simbolica che mette in relazione le realtà visibili e invisibili al fine di realizzare il benessere individuale, la vita sociale e l’ordine cosmico e difenderli dalle forze distruttive e dalla morte.
L’agire umano è condizionato dal rapporto con il mondo, i cui infiniti segnali e stimoli produrrebbero una situazione caotica e terrorizzante se non venissero semplificati e ordinati in un sistema capace di dare un ordine e un senso alla realtà. La percezione e la relazione con il mondo non sono quindi immediati, ma appresi e costruiti culturalmente. Ogni società adotta un sistema simbolico che non solo interpreta e ordina i fatti, ma suggerisce le azioni più efficaci per governare la realtà. L’artificialità del sistema simbolico non è illimitata, ma tiene conto dei risultati dell’azione umana. Uomo e natura interagiscono continuamente. Isimboli e imiti usati dagli uomini per comprendere il mondo sono quindi soggetti a evoluzioni o drastici cambiamenti e altrettanto le azioni che definiscono la prassi dell’uomo nel cosmo.
La definizione di r. non si applica solo alla sfera religiosa e alle azioni che mettono in relazione con il soprannaturale, ma si estende a qualsiasi comportamento umano standardizzato e ripetitivo, indirizzato a influenzare le vicende personali, sociali e cosmiche. Il comportamento rituale dell’uomo prende origine dalla ritualizzazione animale caratterizzata da tre aspetti fondamentali: la ripetizione ritmica di un modulo comportamentale, l’esagerazione della frequenza e dell’ampiezza dei movimenti, la semplificazione e la stereotipia delle posture. L’insieme di questi elementi produce un’azione sensomotoria ridondante di tipo teatrale, la cui funzione è principalmente comunicativa, in quanto finalizzata a togliere le ambiguità e ad aumentare la chiarezza del messaggio.
La ritualizzazione animale è finalizzata alla vita sociale, i cui due aspetti fondamentali riguardano la necessità di stabilire legami con i propri simili, in particolare il partner sessuale, i piccoli, la famiglia e il gruppo, e l’esigenza di difendersi e di lottare contro le minacce territoriali dei propri simili. Nella ritualizzazione animale dell’aggressività si deve sottolineare il fatto che i combattimenti non arrivano quasi mai a effetti letali e si riducono spesso a un’esibizione prolungata di segnali di minaccia, che costringono il più debole alla fuga o ad atti ritualizzati di sottomissione.
La ritualizzazione umana, pur includendo gli stereotipi sensomotori degli animali con funzione comunicativa e sociativa, si differenzia per la specificità dell’organizzazione cognitiva dell’uomo. La sua capacità di rappresentare mentalmente la realtà e di significarla attraverso il linguaggio lo libera dalle contigenze concrete delle situazioni faccia a faccia e gli permette formalizzazioni del comportamento di tipo non unicamente sensomotorio. Sulle forme ritualizzate non apprese, come i modi comportamentali di cura della prole o i segnali sociativi come il sorriso, hanno netta prevalenza nell’uomo i r. personali e collettivi estremamente variabili in quanto formazioni culturali, non solo appresi, ma continuamente inventati, grazie alla capacità plastica dell’uomo di creare modelli non innati di relazione con l’ambiente e con i propri simili.
Il magismo costituisce la più ambiziosa forma di ritualizzazione umana, perché non si limita alle funzioni comunicative e sociative dei comportamenti animali sensomotori, ma sviluppa funzioni di ordine mentale di tipo conoscitivo, difensivo e propiziatorio finalizzate a controllare l’angoscia provocata dall’esperienza di eventi traumatici. Grazie ai r., ai gesti e alle parole, la magia cerca di propiziarsi le forze e gli esseri divini benefici e di difendersi dagli spiriti malefici. In tal modo cerca di dominare la realtà, elaborando spiegazioni sulla causa dei fenomeni sociali e naturali. Nel pensiero magico il r. non svolge solo una funzione sociativa del gruppo, ma estende la propria influenza su tutta la realtà.
Le società laiche si distaccano dalle comunità in cui sono prevalenti il pensiero magico e il sacro proprio per la diversa valutazione dell’efficacia operativa del r. e dei rituali e per una radicale differenza di rapporto tra natura e cultura.
Gli antropologi dell’Ottocento giudicavano le credenze magiche e religiose come dei sistemi primitivi di spiegazione e conoscenza dei fenomeni naturali e consideravano i r. delle azioni tecniche illusorie per governarli. Più che comprendere il fenomeno rituale nelle popolazioni non occidentali, l’antropologia positivista collocava la categoria del rituale nell’opposizione moderna tra razionale e irrazionale, evidenziando soprattutto il criterio scientifico che consiste nell’eliminare tutte le rappresentazioni che accompagnano la scoperta dell’efficacia di un’azione per trasmetterne in modo tecnico l’apprendimento e l’utilizzazione. La differenza tra il comportamento razionale-strumentale dell’uomo moderno e il comportamento magico-rituale può essere esemplificato dal caso dello stregone. La sua medicina può guarire o non guarire, ma il suo comportamento non può essere definito razionale se guarisce o magico se non guarisce. Mentre l’uomo occidentale cercherebbe di capire e carpire il principio attivo per cui una medicina dello stregone è efficace, tralasciando tutte le componenti mitiche, gestuali e simboliche che accompagnano la somministrazione della medicina, la comunità dello sciamano è convinta che l’efficacia della cura dipenda invece da tutto il rituale e che non è possibile isolare una componente dalle altre. Il r. e la cura sono efficaci all’interno di un complesso rapporto simbolico col mondo e tra i membri del gruppo. Il pensiero ‘selvaggio’, diversamente da quello ‘scientifico’, non elimina rappresentazioni, complicazioni e superstizioni perché il suo criterio non è quello razionale dell’utilità, ma quello relazionale dell’armonia o conformità alle leggi sacre del mondo.
Persiste tuttavia nelle società ipercivilizzate l’antica tendenza a considerare gli oggetti come esseri magici, dotati di poteri e sensibilità, ai quali ci rivolgiamo per ottenere benefici o viceversa per vendicare soprusi e scaricare le nostre frustrazioni. Il comportamento dell’uomo moderno non è dunque sempre tecnico-razionale e talvolta ricalca gli atti performativi dell’uomo religioso che identifica natura con cultura e non pone confini precisi tra ciò che dipende veramente dalla società e ciò che sfugge al suo potere. Tratto caratteristico del pensiero religioso è infatti la credenza che gli eventi naturali siano in qualche modo legati all’ordine morale. L’apparente soggezione dell’uomo religioso alle forze trascendenti poste in tutti i luoghi della natura (in cielo, in terra, negli inferi) nasconde in realtà la pretesa di assoggettare la natura alle regole del comportamento umano, per cui terre fertili e abbondanza di frutti toccano ai giusti mentre disgrazie e fulmini colpiscono i malvagi. Da questo punto di vista continua a essere valida la teoria di Durkheim secondo la quale il r. simboleggia la società e la rappresenta, in quanto il r. risulta efficace per l’esperienza della forza che la società esercita sugli individui non solo nelle relazioni umane, attraverso l’accettazione di norme, divieti e comportamenti, ma anche sulla parte della natura che dipende dal lavoro dell’uomo. In quanto conosciuta e organizzata culturalmente dalla società, l’intera natura può infatti essere considerata soggetta al suo potere. L’errore del pensiero magico consiste nell’estendere il potere conoscitivo dell’uomo al suo potere pratico. L’agire umano non è onnipotente come il pensiero, ma deve fare i conti con i limiti della realtà. La guarigione delle malattie, ad esempio, non sempre avviene ed è automatica. Ovviamente in un sistema religioso lo scacco non è mai tale e si trova sempre una giustificazione che, anzi, rinforza il sistema simbolico, attribuendo a colpe personali e collettive o a forze particolari e ineluttabili, come il destino, le ragioni dell’insuccesso.
La distinzione tra ciò che appartiene alla natura e ciò che appartiene all’uomo si è fatta strada lentamente nella storia culturale. L’uscita dal mondo magico si deve dapprima alla religione ebraica, che condannava ogni rappresentazione sensibile della divinità, e poi al cristianesimo, il cui fondatore rivelava l’esistenza di un Dio che non solo fa piovere sui giusti e sui malvagi, ma che libera gli uomini dalla connessione tra disgrazie naturali o catastrofi sociali e colpe individuali e collettive. Poiché nel cristianesimo il tempio dell’uomo da esteriore diventa interiore, la realtà viene sottratta alla volontà umana di dominare la natura attraverso la capillare presenza nel cielo, nel mare, sulla terra, di proiezioni antropomorfiche, quali spiriti, antenati, divinità, forze benefiche o malefiche. Solo nella storia occidentale, e nelle società influenzate dal pensiero ebraico-cristiano, si sviluppa quello che Max Weber chiamava il disincanto del mondo e trionfa il movimento laico, antirituale e antimagico. Non a caso nello stesso ambiente si impongono la conoscenza scientifica del cosmo, la secolarizzazione e l’umanesimo.

2. Antichi e nuovi r.

Nell’orizzonte onnicomprensivo della cultura magico-religiosa il r. più importante è la festa di Capodanno o di inizio di un nuovo ciclo del tempo. La degenerazione del tempo causata dalla frammentazione della vita quotidiana richiede periodicamente una rinascita che consiste nel recupero o ripetizione delle azioni primordiali illustrate nei miti di fondazione di una determinata collettività. Il ritorno alle condizioni iniziali viene considerato come il ritorno al massimo di energia vitale e di potenza sacra, a ciò che ha creato l’ordine cosmico, la forma perfetta dell’organismo comunitario, lo stato di grazia di tutti gli esseri visibili e invisibili. Il complesso rituale coinvolge quindi tutti gli aspetti non solo della vita individuale e sociale, ma anche del mondo. La partecipazione di tutti gli esseri all’azione rituale, secondo i livelli prescritti, rinforza i legami del gruppo e inserisce la vicenda umana nella più ampia vicenda cosmica. Abbondano i r. propiziatori che puntano a convogliare sull’individuo o sul gruppo le forze benefiche delle divinità, ognuna titolare di una sfera specifica di influenza. I r. apotropaici (di allontanamento del male) esorcizzano invece le entità malefiche. I r. di purificazione e di espiazione mirano a purgare i singoli e la società dalle colpe commesse più o meno volontariamente.
I r. sacrificali riassumono buona parte delle tipologie rituali perché sono particolarmente frequenti nelle feste calendariali o di fondazione. L’eliminazione di vittime umane o di animali non ha solo lo scopo di offrire alle divinità le primizie della terra, i doni più grandi, degni degli dei, e ottenerne il benevolo favore. Nel meccanismo sacrificale, secondo R. Girard (1983), si nasconde l’assassinio rituale di uno o più esseri viventi ritenuti responsabili e causa di ogni male sociale e naturale. Il disordine, la trasgressione delle norme sociali e la violenza rituale che spesso precedono o introducono al tempo della rigenerazione cosmica vengono attribuiti al capro espiatorio, la cui vita è fonte di maledizione per l’orrore, la morte e la distruzione che suscita nel suo passaggio e la cui eliminazione è invece benefica, al punto da essere venerato come una divinità, perché riporta la pace sociale e con essa l’ordine, la prosperità e l’abbondanza.
Oltre alla festa di Capodanno e alle altre feste di inizio di stagione, come gli equinozi e i solstizi, o di mese, come le calende, fanno parte dei r. di passaggio, descritti da A. Van Gennep (1909), i r. appartenenti al ciclo della vita umana, in particolare la nascita, il matrimonio e la morte. Anche questi eventi, nel contesto fortemente solidale delle società tradizionali, non erano considerati fatti personali, ma celebrazioni comunitarie, eventi che riguardavano tutto il corpo sociale in quanto complessa interazione di alleanze, poteri, conflitti e gerarchie tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La preminenza data ai figli maschi, la scelta degli sposi da parte dei parenti, le disuguaglianze nell’eredità sono solo alcuni esempi della differenza tra i r. di passaggio odierni e quelli di un tempo, in cui il condizionamento delle famiglie e della società era preponderante.
Proprio queste componenti costrittive e la violenza sacrificale motivarono il rifiuto del paganesimo da parte dei cristiani e il progressivo distacco dai culti esterni e dalle credenze magiche. Per Girard la desacralizzazione delle società moderne discende dalla rivelazione cristiana che rigetta la violenza come unica forza possibile, e quindi sacra, per tenere assieme una società. Il cristianesimo propone una diversa fondazione della collettività, basata sulla libertà e sulla reciprocità degli aderenti. Tali valori sono difficili da conciliare con gli obblighi e le imposizioni sia degli stati teocratici e totalitari come delle comunità antiche che antepongono sempre il bene collettivo a quello individuale. Nelle culture largamente influenzate dal pensiero ebraico-cristiano si è sviluppato un aspro e lungo conflitto socio-religioso finalizzato alla riduzione del potere rituale e alla corrispettiva delegittimazione di qualsiasi potere sacro e politico, che hanno tolto il primato etico al collettivo per trasferirlo all’individuo.
Contrariamente a ciò che auspicavano riformatori spirituali, liberi pensatori e illuministi, non si può tuttavia eliminare il r.; esso infatti è il fondamento dell’azione umana e della comunicazione, è il linguaggio sociale, ossia l’insieme di convenzioni e gesti codificati che permettono e stabiliscono le interazioni tra uomini. Nelle società laiche il r. principale non è più il r. religioso, né quello politico, ma è piuttosto l’azione personale, espressione, nello stesso tempo, di libertà e di socialità. I fattori di coesione politico-sociale non provengono più da condizioni oggettive, ma da convinzioni soggettive. La religione in Occidente da tempo non è più un obbligo, ma una scelta.
Victor Turner ha coniato i termini liminale e liminoide per definire con il primo i comportamenti rituali delle società tradizionali, caratterizzati dal primato del collettivo, del sacro, del gioco e della tradizione, proiettati nel tempo eterno e mitico delle origini, e con il secondo i comportamenti delle società governate dall’economia e dalla politica, in cui si distinguono i valori individualistici, il laicismo, il lavoro e l’innovazione, in cui anche le attività obbligatorie presuppongono la libera scelta. Se la festa religiosa si rivela come il massimo r. delle società tradizionali, in quelle moderne il r. per eccellenza è la celebrazione di individui famosi.

3. I r. di comunicazione

La tragica fine di Diana Spencer nel 1997, l’universale cordoglio e la risonanza mondiale dei suoi funerali, considerati una specie di processo di canonizzazione, sono un significativo modello di evento capace di spiegare la funzione e il significato del r. nella società postmoderna. Innanzitutto Diana non era un essere mitico o divino, ma un personaggio storico. Come consorte di Carlo, erede al trono di Inghilterra, era assurta al rango più elevato della gerarchia umana. Come principessa rappresentava la realizzazione del fiabesco sogno, radicato nell’immaginario popolare, della donna di condizioni non eccelse che sposa il principe azzurro e vive felice e contenta nell’ambiente più ricco e sfarzoso che si possa desiderare per il resto della sua vita.I contrasti con il marito e il conseguente divorzio avevano tuttavia demolito questa immagine idilliaca, con la differenza che la sua caduta in disgrazia presso la corte reale invece di creare, come un tempo, il rigetto e una rapida dimenticanza nell’opinione pubblica, aveva suscitato un grande moto di simpatia e di affetto nei confronti di Diana. Ciò dimostra che la popolazione, oggi, non appoggia più incondizionatamente l’istituzione monarchica, né si identifica con il corpo politico e sociale, ma parteggia per l’individuo soprattutto quando, come nel caso di Diana, ha avuto il coraggio di ribellarsi e di anteporre la propria dignità ai calcoli di utilità. Il primato dell’individuo sullo Stato e sul collettivismo non si afferma tuttavia solo con la trasgressione e la rivolta, ma soprattutto attraverso la dimostrazione che il successo individuale non deriva dal sangue, dalla fortuna o da pratiche poco corrette, ma dal merito, dall’impegno e dalla bravura personale. Lady Diana, soprattutto dopo la separazione da Carlo, aveva proprio cercato di dimostrare che lei era una vera regina, non per casato o per sorte, ma per proprie capacità. Anche la bellezza, della quale comunque Diana si preoccupava molto, curando la linea e rivolgendosi ai migliori stilisti per indossare i vestiti più belli del mondo, o la ricchezza non bastavano a fare di lei una principessa vera, ossia la prima delle donne. Né bastava la complementare immagine di madre affettuosa e attenta all’educazione dei figli. Lady Diana doveva incarnare l’ideale di una principessa di un regno più ampio, quello dei media, e per questo divenne l’ambasciatrice di molte cause umanitarie di rilevanza internazionale, coniugando così l’immagine della fragile donna tormentata da vicende private con quella dell’appassionata leader del bene nel mondo.
Il fatto che qualsiasi membro della famiglia reale inglese abbia passato e passi gran parte del proprio tempo a fare beneficenza quanto, se non di più, di Lady Diana indica da una parte che ormai consideriamo un principe chi si impegna a fare del bene, dall’altra che per farne tanto e per creare un interesse generale al problema ha molta importanza l’apporto dei media. Il loro potere tuttavia non è illimitato, perché l’invenzione di figure e personaggi di successo funziona solo se corrisponde a ciò che il pubblico ricerca: l’emozione e il sogno, non tanto come compensazione a una vita quotidiana di impegno tecnico-razionale nel lavoro e come rimedio alla noia o, peggio, ai disagi e alle sofferenze dell’esistenza, ma come individuazione di una trascendenza, ricerca di qualcosa che supera l’orizzonte dell’utile e del dilettevole, esperienza dello straordinario e del gratuito.
Che le stelle del nostro tempo siano perciò i campioni dello sport, gli artisti e le figure carismatiche del mondo della politica, dell’economia e perfino della religione non è un fatto casuale. Non basta a giustificarlo l’impero dei media, anche se a essi si deve l’organizzazione, la promozione e l’invenzione delle grandi cerimonie e degli eventi del nostro tempo (Media event). Tutti i r. comunicano, non nel senso di passaggio meccanico di una informazione da un emittente a un ricevente, ma come flusso di azioni e interazioni che non solo insegnano le concezioni e le regole di una comunità, ma anche contribuiscono a metterle in atto. La performatività rituale è perciò differente da cultura a cultura. Quella della società postmoderna, prevalentemente di ordine etico-spettacolare, mette in atto ciò in cui noi crediamo, ossia che una cosa ci deve essere proposta e non imposta, che preferiamo la seduzione alla legge, che siamo liberi e uguali, solidali con il prossimo, che cerchiamo di migliorare la situazione storica e che il successo è frutto dell’impegno personale.
Se il credo occidentale è ciò che Luc Ferry ha definito come l’umanesimo trascendentale, ovvero la libertà personale che trova la sua massima realizzazione nel dono di sé agli altri (fino a ciò che si ha di più prezioso, ovvero la vita), i nostri r. sono principalmente r. di libertà e di solidarietà. Da una parte sviluppiamo una serie di comportamenti rituali tesi all’autorealizzazione che vanno dalla cura della persona alla scelta dei vestiti, ai divertimenti, dalla crescita professionale alle azioni di formazione e relazione, dalle attività sportive ai viaggi, alla musica, dalle cure mediche al consumo di oggetti e informazioni che estendono ai limiti del possibile la sfera del privato. Dall’altra l’ostilità verso i grandi sistemi di senso, il rifiuto delle ideologie, della partecipazione politica, il fastidio verso la modernità come imposizione di un modello unico e monolitico di arte, di conoscenza, di politica e di società, segnalano il passaggio al pluralismo delle aggregazioni, in cui è possibile scegliere qual è la propria comunità o gruppo di riferimento ed esercitare la propria libertà. L’individualismo e il narcisismo trionfanti non sono dunque ripiegamenti egoistici, ma ricerca di comunità profondamente democratiche e di socializzazione consensuale, società non create e disciplinate per legge ma inventate e sostenute dalla volontà dei singoli. A questo imperativo seduttivo dei rapporti sociali obbediscono anche le istituzioni, che cercano di rivolgersi all’individuo non più come suddito o cittadino, ossia come persona astratta dotata di diritti e doveri, ma come a un cliente o addirittura come a un amico. La prevalenza della seduzione nei r. di comunicazione, per quanto oggetto di manipolazione, ipocrisia o truffa, rivela che si sta perseguendo un’idea di società fondata sul dialogo, sulla relazione, sulla pacifica interazione e che stanno tramontando i r. di violenza e le verità incontrovertibili, ossia i sistemi sì di forte coesione sociale e politica, ma anche di persecuzione individuale e collettiva.
I valori occidentali della libertà, della democrazia e della solidarietà esprimono lo sforzo etico di migliorare il corso della storia e di salvare il mondo dai suoi errori e orrori. Che ciò avvenga realmente o tutto sia una pia illusione, non tocca la sostanza del r. occidentale come impegno intramondano e incarnazione del divino, lontanissimo dai r. e dalle feste di chi divinizza l’uomo e rifiuta la storia per proiettarsi nell’eterno, convinto che questa sia la salvezza dell’umanità.

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Come citare questa voce
Bernardi Claudio , Rito, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (28/03/2024).
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