Discorso
- Testo
- Bibliografia5
- Voci correlate
Autore: Piero Trupia
È un testo elaborato da un soggetto-locutore, o emittente, per un soggetto-locutario, o ricevente, singolo o collettivo. Rispetto al generico testo, il d. è caratterizzato dalla presenza marcata del soggetto sia come emittente che come ricevente (Ricezione).
È propria del d., infatti, l’allocuzione, quella forma testuale caratterizzata dall’attenzione verso il destinatario del messaggio. Le principali forme allocutive sono l’interrogazione e la deissi. Con la deissi si indica al locutore qualcosa o si richiama la sua attenzione su un oggetto, un fatto o uno stato di cose al di fuori del testo. Es. : "Vedi?"; "Hai notato?". Oppure, nella forma indiretta : "Tutti hanno potuto constatare come in questi giorni, nel nostro paese...".
Due precisazioni sono necessarie :
il d. è un testo, ma non ogni testo è un d. Un repertorio, un inventario, ma anche la dimostrazione di un teorema sono testi, in quanto seguito di frasi interconnesse, ma non sono d.; per avere un d., occorre una caratterizzazione pragmatica;
d. è linguaggio in azione comunicativa, rivolto a un soggetto determinato, singolo o gruppo (locutario), che l’autore del testo, o colui che lo utilizza (locutore), vuole coinvolgere (informandolo, commuovendolo, provocandolo ecc...), in quanto utente del suo atto di linguaggio.
Il d. rientra pertanto nella pragmatica linguistica (Pragmatica), studio della lingua dal punto di vista del suo uso nelle relazioni sociali: quello che si può/si deve/è opportuno dire e quello che non si può/non si deve/non è opportuno dire in determinate circostanze; ciò che, con il dire, s’intende conseguire. In tale ambito si distingue d. da resoconto.
Il d. è, come detto, caratterizzato dalla presenza, nel testo, del soggetto locutore (Es. : "Vi posso assicurare che..."). Il resoconto è una descrizione oggettiva e spersonalizzata di fatti, come avviene nel linguaggio scientifico (es.: "Al livello del mare, l’acqua distillata bolle a 100°").
Dal concetto di d. e dal carattere eminentemente pragmatico del testo prodotto e utilizzato nel relativo atto di comunicazione, si ricava che l’unità-base della lingua in azione non è la parola, ma la frase. Ciò ha importanti conseguenze sull’apprendimento delle lingue straniere, ove conviene porre a oggetto dello studio frasi all’interno di testi-d. e non repertori di singoli termini all’interno di testi-resoconto o frasi di repertorio decontestualizzate. Va infine rilevata l’esistenza di un ‘di più discorsivo’ che si ritrova nel senso generale del d., ‘di più’ che non è la semplice somma del senso delle frasi componenti.
Tra gli stili possibili del d. sono qui da ricordare quelli che ne mettono maggiormente in evidenza il carattere pragmatico, cioè, ricordiamo, di utilizzo sociale della lingua. Si tratta di cogliere essenzialmente il rapporto tra il locutore e il suo dire. La natura di questo rapporto è un indice dell’uso che il locutore intende fare del suo discorrere. Abbiamo così:
lo stile emotivo, indice di una prevalenza, nel d., del rapporto del locutore con se stesso, come evidenziato da frasi quali: "Non sapete quanto mi pesa dirvi..."; "È per me un onore poter prendere la parola qui, oggi...";
lo stile valutativo, indice di una prevalenza, nel d., del rapporto tra il locutore e il suo dire con il mondo esterno, come evidenziato da espressioni in forma di giudizio quali: "Si tratta di una situazione di indubbia gravità"; "Il progetto che siamo chiamati a esaminare appare, a prima vista, adeguato";
lo stile modalizzante, indice della prevalenza del rapporto tra il locutore e il "valore di verità" che egli attribuisce alle tesi che enuncia, come evidenziato da espressioni quali : "Può darsi che..."; "Ritengo che..."; "Non c’è alcun dubbio sul carattere provvisorio di...", "È certo che..."; "È falso che...".
V’è infine un risvolto di potere e di messa in gioco della libertà dello stesso autore del d. che sarebbe inevitabilmente connesso, secondo alcuni studiosi di scuola francese (R. Barthes; M. Foucault; J. Lacan; J. Derrida) o tedesca (J. Habermas; N. Luhmann), all’uso del d. Secondo tale impostazione nel d. si sviluppa inevitabilmente una strategia di potere che, mentre condiziona il locutario, condiziona anche lo stesso locutore, al di fuori della sua volontà e persino della sua consapevolezza. È ciò che Michel Foucault chiama "l’ordine del discorso": un d. non può che essere prodotto secondo forme e obbedendo a censure che sono imposte dalla cultura del tempo e persino dalla logica formale che impone di giudicare le affermazioni o vere o false, mentre nella realtà esistono, anzi prevalgono, i toni intermedi o ambigui. Il d. inoltre deve essere coerente, pena il rigetto da parte del locutario, come avviene, ad es., con il d. delirante o della sofferenza psichica. Una particolare coerenza è quella che, secondo Lacan, caratterizza la sintassi interna di locutore e locutario. La grammatica, infatti, secondo Lacan, è un ordine della lingua, ma prima ancora un ordine del mondo. Infine Habermas mette in luce il ruolo dell’ideologia, vale a dire il corpo delle credenze e dei valori dominanti di solito per gli appartenenti a una stessa classe sociale che consente soltanto la produzione di certi d. e non di altri.
Va in proposito osservato che, se questi sono aspetti del d., essi non ne costituiscono però l’essenza. L’innovazione linguistica e persino grammaticale, il d. profetico, il paradosso e tante altre figure discorsive non standard, tra le quali vanno annoverate le nuove forme logiche che prescindono dal giudizio vero/falso, dimostrano che il d. è anche il luogo e l’occasione dell’asserzione e della veridizione, con le quali un locutore riscrive, per così dire, il mondo. Se egli poi è convocatore (Convocazione), coinvolge nella sua riscrittura del mondo anche il locutario. (Filosofia del linguaggio; Linguistica; Potere e comunicazione)
È propria del d., infatti, l’allocuzione, quella forma testuale caratterizzata dall’attenzione verso il destinatario del messaggio. Le principali forme allocutive sono l’interrogazione e la deissi. Con la deissi si indica al locutore qualcosa o si richiama la sua attenzione su un oggetto, un fatto o uno stato di cose al di fuori del testo. Es. : "Vedi?"; "Hai notato?". Oppure, nella forma indiretta : "Tutti hanno potuto constatare come in questi giorni, nel nostro paese...".
Due precisazioni sono necessarie :
il d. è un testo, ma non ogni testo è un d. Un repertorio, un inventario, ma anche la dimostrazione di un teorema sono testi, in quanto seguito di frasi interconnesse, ma non sono d.; per avere un d., occorre una caratterizzazione pragmatica;
d. è linguaggio in azione comunicativa, rivolto a un soggetto determinato, singolo o gruppo (locutario), che l’autore del testo, o colui che lo utilizza (locutore), vuole coinvolgere (informandolo, commuovendolo, provocandolo ecc...), in quanto utente del suo atto di linguaggio.
Il d. rientra pertanto nella pragmatica linguistica (Pragmatica), studio della lingua dal punto di vista del suo uso nelle relazioni sociali: quello che si può/si deve/è opportuno dire e quello che non si può/non si deve/non è opportuno dire in determinate circostanze; ciò che, con il dire, s’intende conseguire. In tale ambito si distingue d. da resoconto.
Il d. è, come detto, caratterizzato dalla presenza, nel testo, del soggetto locutore (Es. : "Vi posso assicurare che..."). Il resoconto è una descrizione oggettiva e spersonalizzata di fatti, come avviene nel linguaggio scientifico (es.: "Al livello del mare, l’acqua distillata bolle a 100°").
Dal concetto di d. e dal carattere eminentemente pragmatico del testo prodotto e utilizzato nel relativo atto di comunicazione, si ricava che l’unità-base della lingua in azione non è la parola, ma la frase. Ciò ha importanti conseguenze sull’apprendimento delle lingue straniere, ove conviene porre a oggetto dello studio frasi all’interno di testi-d. e non repertori di singoli termini all’interno di testi-resoconto o frasi di repertorio decontestualizzate. Va infine rilevata l’esistenza di un ‘di più discorsivo’ che si ritrova nel senso generale del d., ‘di più’ che non è la semplice somma del senso delle frasi componenti.
Tra gli stili possibili del d. sono qui da ricordare quelli che ne mettono maggiormente in evidenza il carattere pragmatico, cioè, ricordiamo, di utilizzo sociale della lingua. Si tratta di cogliere essenzialmente il rapporto tra il locutore e il suo dire. La natura di questo rapporto è un indice dell’uso che il locutore intende fare del suo discorrere. Abbiamo così:
lo stile emotivo, indice di una prevalenza, nel d., del rapporto del locutore con se stesso, come evidenziato da frasi quali: "Non sapete quanto mi pesa dirvi..."; "È per me un onore poter prendere la parola qui, oggi...";
lo stile valutativo, indice di una prevalenza, nel d., del rapporto tra il locutore e il suo dire con il mondo esterno, come evidenziato da espressioni in forma di giudizio quali: "Si tratta di una situazione di indubbia gravità"; "Il progetto che siamo chiamati a esaminare appare, a prima vista, adeguato";
lo stile modalizzante, indice della prevalenza del rapporto tra il locutore e il "valore di verità" che egli attribuisce alle tesi che enuncia, come evidenziato da espressioni quali : "Può darsi che..."; "Ritengo che..."; "Non c’è alcun dubbio sul carattere provvisorio di...", "È certo che..."; "È falso che...".
V’è infine un risvolto di potere e di messa in gioco della libertà dello stesso autore del d. che sarebbe inevitabilmente connesso, secondo alcuni studiosi di scuola francese (R. Barthes; M. Foucault; J. Lacan; J. Derrida) o tedesca (J. Habermas; N. Luhmann), all’uso del d. Secondo tale impostazione nel d. si sviluppa inevitabilmente una strategia di potere che, mentre condiziona il locutario, condiziona anche lo stesso locutore, al di fuori della sua volontà e persino della sua consapevolezza. È ciò che Michel Foucault chiama "l’ordine del discorso": un d. non può che essere prodotto secondo forme e obbedendo a censure che sono imposte dalla cultura del tempo e persino dalla logica formale che impone di giudicare le affermazioni o vere o false, mentre nella realtà esistono, anzi prevalgono, i toni intermedi o ambigui. Il d. inoltre deve essere coerente, pena il rigetto da parte del locutario, come avviene, ad es., con il d. delirante o della sofferenza psichica. Una particolare coerenza è quella che, secondo Lacan, caratterizza la sintassi interna di locutore e locutario. La grammatica, infatti, secondo Lacan, è un ordine della lingua, ma prima ancora un ordine del mondo. Infine Habermas mette in luce il ruolo dell’ideologia, vale a dire il corpo delle credenze e dei valori dominanti di solito per gli appartenenti a una stessa classe sociale che consente soltanto la produzione di certi d. e non di altri.
Va in proposito osservato che, se questi sono aspetti del d., essi non ne costituiscono però l’essenza. L’innovazione linguistica e persino grammaticale, il d. profetico, il paradosso e tante altre figure discorsive non standard, tra le quali vanno annoverate le nuove forme logiche che prescindono dal giudizio vero/falso, dimostrano che il d. è anche il luogo e l’occasione dell’asserzione e della veridizione, con le quali un locutore riscrive, per così dire, il mondo. Se egli poi è convocatore (Convocazione), coinvolge nella sua riscrittura del mondo anche il locutario. (Filosofia del linguaggio; Linguistica; Potere e comunicazione)
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Bibliografia
- APEL Karl Otto, Discorso, verità, responsabilità. Le ragioni della fondazione. Con Habermas, contro Habermas, Guerini, Milano 1997.
- ECO Umberto, Le forme del contenuto, Bompiani, Milano 1971.
- FOUCAULT Michel, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972.
- HABERMAS Jürgen, Etica del discorso, Laterza, Bari 1989.
- TODOROV Tzvetan, Discorso in Che cos'è lo strutturalismo, Bompiani, Milano 1971.
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Note
Come citare questa voce
Trupia Piero , Discorso, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (03/12/2024).
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