Fotomontaggio

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Un fotomontaggio di John Heartfield (1891-1968): Adolf il superuomo: ingoia oro e dice idiozie
Per f. s’intende
– la produzione di un’immagine utilizzando la tecnica fotografica (esposizione e stampa), ma non a partire dalla ripresa diretta di un oggetto concreto o di una scena con la macchina fotografica, quanto invece dalla manipolazione di altre fotografie (nella forma di negativo o di stampa) precedentemente eseguite in proprio o scelte nella produzione di altri fotografi;
– la produzione di un’immagine incollando (di qui il termine collage) su un foglio di carta i ritagli di altre fotografie tratte anche da quotidiani e riviste.
Parlando di f. conviene fare immediatamente una distinzione che non riguarda il procedimento utilizzato, quanto invece lo scopo che guida l’autore: il f. come tecnica comunicativa; il f. come tecnica di falsificazione.
a) Il f. come esplorazione delle possibilità che la tecnica fotografica offre all’artista.
Da questo punto di vista i primi esperimenti cominciarono già all’indomani della nascita della fotografia, ricorrendo, in fase di stampa, alla sovrapposizione di due o più negativi (nel 1857 O. G. Rejlander partì da ben trenta negativi diversi per ottenere la composizione a cui diede il titolo Two ways of Life - Le due strade della vita), oppure ritagliando particolari da fotografie precedenti per assemblarli in immagini più complesse, le quali poi, opportunamente ritoccate, erano ri-fotografate e stampate (classica l’immagine di H. P. Robinson The fading away-La vita che si dilegua 1858). L’opera compiuta doveva assomigliare a un dipinto classico o a una normale fotografia.
Nel valutare questi lavori non si deve dimenticare come fossero i gravi limiti dello strumento tecnico a spingere i fotografi a queste soluzioni. Avevano a disposizione obiettivi poco luminosi e a focale lunga, le lastre erano ancora poco sensibili, nessuna sorgente luminosa di una certa potenza che non fosse il sole: tutto questo riduceva a valori assai piccoli la profondità di campo e quindi era impossibile la messa a fuoco di soggetti posti a distanze diverse dall’apparecchio fotografico. Per necessità si dovevano dunque fotografare per fasi le varie parti della scena, ricomponendole poi insieme a formare l’immagine finale.
Ciò che per un periodo fu necessità, nei decenni successivi divenne un gioco e insieme un rito. È soprattutto nelle cartoline postali e nelle fotografie popolari di fine Ottocento e inizio Novecento che si trova un uso frequente del f. I fotografi infatti non si limitavano a riprendere il bambino o la ragazza, il giovane soldato, la coppia di sposi o l’intera famiglia nel loro ambiente, ma li inserivano sempre in ambientazioni solenni, di gusto teatrale. Altrettanto capitava con i soggetti più vari ripresi nelle cartoline.
Negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale il procedimento venne adottato e fatto conoscere dal movimento artistico Dada, che nel f. trovò il linguaggio per esprimere il proprio gusto per il gioco, la denuncia violenta del capitalismo e del nazismo, la dissacrazione dei valori tradizionali. Si operava sia con l’effetto della luce sul foglio di carta sensibile (Fotogramma), sia con il collage di pezzi di fotografie completamente diverse tra loro per soggetto, per tonalità di grigi e contrasto, per prospettiva, per ingrandimento. Il risultato finale era un nuovo tipo di immagine, in piena rottura con l’impostazione classica, ma di grande effetto non solo provocatorio.
Quanto all’origine di questo stile espressivo è interessante ricordare ciò che narra l’artista tedesco che meglio di altri seppe usare questa tecnica, John Heartfield (1891-1968: il suo vero nome era Hellmut Herzfelde; lo anglicizzò per protesta contro il nazionalismo tedesco). I soldati in guerra, per inviare ai familiari e agli amici delle informazioni, dovevano servirsi delle cartoline illustrate messe a loro disposizione; queste però erano delle fotografie o dei fotomontaggi che nascondevano spudoratamente l’assurdità della guerra. Poiché ogni testo scritto passava sotto lo stretto controllo della censura militare, non rimaneva che rielaborare con aggiunte di vario tipo l’immagine stessa, per comunicare quanto – detto in altro modo – sarebbe stato censurato e sanzionato come tradimento. In questa luce il f. appare come linguaggio di ribellione e di critica nei confronti del potere; in effetti divenne una delle forme comunicative più frequentemente praticata dai movimenti socialista e marxista.
Di J. Heartfield sono celebri alcuni f. contro Hitler, Goebbels, Göring. Assai conosciuto, perché ripreso e imitato in varie forme, il f. dal titolo Il significato di Ginevra (1932), una violenta satira della Società delle Nazioni; vi appare la colomba della pace brutalmente infilzata in una baionetta, con il sottotitolo "Dove vive il capitale, non può vivere la pace".
Altri autori utilizzarono la tecnica del f. con risultati di grande interesse: Hannah Höch, R. Hausmann, P. Citroen, Lázló Moholy-Nagy, Man Ray. In Italia si ricordano soprattutto Bruno Munari e Luigi Veronesi.
L’elemento comunicativo che caratterizza il f. è il tono provocatorio con cui si invita l’osservatore ad andare al di là dei fatti – richiamati con le immagini di partenza – per cogliere il significato profondo degli avvenimenti. Tenendo conto di questo aspetto, come anche dei costi contenuti della tecnica, si capisce perché il f. sia stato e sia ancora usato da tutti i movimenti che praticano controinformazione.
Con valenza profondamente diversa la tecnica del f. è utilizzata anche dalla pubblicità, che ne sfrutta in modo particolare l’efficacia fàtica (cattura dell’attenzione dell’osservatore).
b) Il f. come tecnica di falsificazione di un documento fotografico. Tutte le tecniche di f. che gli artisti hanno inventato o la tecnologia ha reso disponibili sono state in passato e sono oggi utilizzate – da singole persone malintenzionate come anche dai vari regimi – per produrre prove false e falsa documentazione, approfittando della ‘presunzione di verità’ di cui gode da sempre la fotografia. Un caso diventato classico è la fotografia di Lenin che parla in un comizio; in realtà il 5 maggio 1920 sul palco, proprio accanto a Lenin, c’era anche Trotsky: questi, divenuto personaggio scomodo, venne doppiamente ‘eliminato’, nella realtà e nell’immagine. Un esempio più recente è quello legato alla persona di Alexander Dubcek, leader della Primavera di Praga (1968-69): la sua eliminazione dalla scena politica – per vivere, dovette fare il guardaboschi – venne ‘retrodatata’ con la cancellazione dalle fotografie ufficiali del partito comunista cecoslovacco scattate negli anni precedenti.
La facilità e la perfezione con cui oggi si possono ri-elaborare le fotografie (utilizzando scanner, computer, programmi di ritocco, processi di stampa) sono tali che, per smascherare una falsa prova fotografica, può non bastare l’occhio di un esperto in tecniche di elaborazione digitale e diventa necessario ricostruire la storia di quell’immagine (per sapere chi l’ha scattata, dove e quando) oppure si deve poter interpellare chi conosce, per diretta esperienza o per testimonianze affidabili, come sono andate veramente le cose.
c) Rielaborazione fotografica e conseguenze sul piano comunicativo. Questi procedimenti sono oggi ampiamente utilizzati dall’arte grafica in genere, dalla pubblicità (come anche dal cinema e dalla televisione), a volte persino dal giornalismo, per costruire f. che appaiono come fotografie assolutamente veritiere e spettacolari. Lo scopo molte volte non è di tipo fraudolento, quanto invece economico, dal momento che – ad esempio – in uno studio virtuale si possono simulare set che sarebbero costosissimi se ripresi direttamente in natura. Il procedimento digitale, poi, offre all’operatore una totale libertà sull’immagine, perché ciascuno dei pixel è oggetto di libera elaborazione e può assumere uno qualsiasi dei milioni di colori disponibili.
Il pubblico sta diventando sempre più consapevole di questi modi di produrre immagini, anche perché molte persone usano ormai macchine fotografiche digitali e programmi di ritocco. Di conseguenza la stessa fotografia perde – lentamente ma inesorabilmente – l’aura di ‘autopresentazione della realtà’ e sarà sempre più problematico definire con Roland Barthes la fotografia "l’Incontro, il Reale, nella sua espressione infaticabile" (1976). La fotografia verrà così riconosciuta per quello che è, la trascrizione tecnica di uno sguardo, di un giudizio o di una fantasia.

Bibliografia

  • BARTHES Roland, La camera chiara. Note sulla fotografia, Einaudi, Torino 1976.
  • FREUND Gisele, Fotografia e società. Riflessione critica ed esperienza pratica di un'allieva di Adorno, Einaudi, Torino 1976.
  • LISTER Martin, The photographic image in digital culture, Routledge, London 1995.
  • MITCHELL William J., The reconfigured eye. Visual truth in the post-photographic era, MIT Press, Cambridge (MA) 1994.
  • NEWHALL Beaumont, Storia della fotografia, Einaudi, Torino 1984.
  • PATTI Giuliano - SACCONI Licinio - ZILIANI Giovanni, Fotomontaggio. Storia, tecnica ed estetica, Mazzotta, Milano 1979.
  • TEITELBAUM Matthew (ed.), Montage and modern life: 1919-1942, MIT Press, Cambridge (MA) 1992.

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Come citare questa voce
Fotomontaggio, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (05/11/2024).
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