Libertà e comunicazione
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Autore: Piero Pratesi
Nulla osta rilasciato per una trasmissione radiofonica nel 1938 dal Ministeo della Cultura Popolare del regime fascista
Il rapporto fra l.ec. si afferma dapprima come autonomia, si sviluppa come esigenza di partecipazione e finalmente come diritto-credito dei cittadini e delle comunità: senza che sia possibile una distinzione netta, né in senso storico, né in senso teorico, fra i tre momenti e i tre obiettivi cui tende la libera comunicazione. Nell’ambito più strettamente giuridico si afferma costantemente l’esigenza delle garanzie che rappresentano lo statuto effettivo della libertà. Alle garanzie appartengono, da un lato, le condizioni sociali, culturali, economiche della società nel momento dato e, dall’altro, le leggi che supportano le libertà e ne consentono la difesa giudiziale, nonché le regole di autodisciplina rappresentate dai codici di comportamento, dai difensori civici, da organismi di garanti come l’ombudsman che in alcuni giornali dà voce ai lettori.
1. La conquista delle Costituzioni moderne
La comunicazione non aveva libera cittadinanza nei regimi assoluti e, insieme alla crescita della coscienza pubblica, è stato lo sviluppo dei mezzi di comunicazione a porre ai governi il problema di stabilire delle regole. (Censura)Possiamo dire che la Chiesa gerarchica è stata in questo ‘maestra’ e non sempre ‘madre’, pur con tutte le concessioni dovute allo spirito dei tempi (Chiesa e comunicazione). Repressione, censura e licenza (imprimatur) sono stati gli strumenti per regolare la comunicazione. L’Inquisizione, istituita dal Papa Lucio III nel 1184 ha esercitato un rigido controllo repressivo sulla comunicazione ogni qualvolta questa intaccava o sembrava intaccasse l’ortodossia. In particolare, l’Inquisizione spagnola creata da Sisto IV su istanza dei Re cattolici nel 1478, aveva fra le sue competenze, quella di "impedire la stampa di libri condannabili, perseguire le opere sospette, spurgarle e stabilire un catalogo delle stesse, per mettere in guardia i fedeli contro la loro lettura". Su questa scia, Paolo IV nel 1557 istituì il primo Indice ufficiale dei libri proibiti (giudicato eccessivamente ‘severo’, venne rivisto e promulgato da Pio IV nel 1564); nel 1571 Pio V diede vita alla Sacra Congregazione dell’Indice.
Ciò non impedì che nello stesso ambito cattolico si levassero voci che riconoscevano il valore stimolante della libertà di comunicare fatti, pensieri, opinioni: basti per tutti ricordare la figura di Erasmo da Rotterdam (1466-1536). Ma è soprattutto la cultura laica, con lo sviluppo dell’Illuminismo nella seconda metà del sec. XVIII, a porre con forza, nei confronti così della Chiesa come dello Stato assoluto (in questo allora strettamente alleati), l’esigenza della libertà di comunicazione. Fino a che le rivoluzioni moderne per eccellenza, quella americana e quella francese, formularono nelle rispettive Costituzioni il diritto alla comunicazione libera (allora circoscritto per ovvie ragioni alla parola e alla stampa), come pilastri della convivenza pubblica. La Dichiarazione dei diritti del popolo della Virginia, del 1776, proclamava "la libertà di stampa uno dei grandi baluardi della libertà" e il Primo emendamento alla Costituzione federale degli Stati Uniti stabilisce che "Il Congresso non delibererà alcuna legge... per la quale... si limiti la libertà di parola o di stampa". Analogamente la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino premessa alla Costituzione repubblicana della Francia rivoluzionaria nel 1789, affermava che "la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo".
Sotto questo aspetto, la storia dei due secoli che ci separano dagli avvenimenti rivoluzionari è caratterizzata dalle controversie e dalle battaglie fra le concezioni liberali e le riserve dei regimi assoluti sopravvissuti dopo la restaurazione post-napoleonica. La scintilla che condannò definitivamente la monarchia borbonica nel luglio del 1830, furono le ‘ordinanze’ di Carlo X contro la libertà di stampa. E questa libertà fu uno dei cardini delle rivendicazioni delle rivoluzioni che infiammarono l’Europa nel 1848. Via via, la libertà si veniva affermando ammettendo solamente i limiti riferiti all’ordine pubblico e alla morale, limiti di cui i governi usavano o abusavano, a seconda delle condizioni di forza nel momento dato, interpretandoli più o meno estensivamente. In Italia, lo Statuto Albertino recitava: "La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi". E ancora sanciva che i libri di pertinenza ecclesiastica (Bibbie, catechismi, libri liturgici e di devozione) dovevano recare il permesso del Vescovo. Il regime fascista non ha formalmente abolito lo Statuto, ma ne ha di fatto radicalmente alterato la sostanza, abusando della repressione e della censura, istituendo forme di intervento diretto con le ‘veline’ del Ministero della Cultura popolare, cui i giornali dovevano attenersi nella cronaca politica. La libertà è stata ripristinata solo con la Costituzione repubblicana del 1946.
2. Dalla non-ingerenza dello Stato alla tutela del pluralismo
Sino a un certo momento, la libertà di comunicazione si è configurata prevalentemente come una pretesa del cittadino o di gruppi di cittadini nei confronti del potere politico, al quale si domandava soprattutto un’astensione, una non-ingerenza. Ma il procedere delle idee e del sentire democratico, con l’avvento dello Stato sociale interventista, ha determinato un significativo mutamento di atteggiamenti. L’opinione pubblica, come espressione del corpo sociale distinto dai poteri istituiti, è venuta acquisendo una importanza sempre maggiore nella definizione e nell’assetto della democrazia. Si conviene che alla formazione dell’opinione pubblica contribuiscano una serie molto complessa di fattori: dalla scuola alle manifestazioni dell’arte, dall’editoria allo spettacolo, dalla religione alle culture regionali; non solamente dunque essa è modellata dagli strumenti di comunicazione, che tuttavia ne rappresentano in certo senso il veicolo e il collante. La progressiva consapevolezza del ruolo di tutte queste forme di comunicazione e il peso crescente dei nuovi strumenti ha modificato come si diceva il rapporto fra libertà di comunicazione e potere pubblico. Nel senso che allo Stato non si domanda più solamente di astenersi dall’interferire sulle libertà di chi vuole comunicare, ma si chiede un intervento attivo per rendere effettiva ed efficace tale libertà. Dunque interventi volti soprattutto a garantire il pluralismo, ad agevolare le manifestazioni artistiche e di pensiero, a impedire che il peso crescente dell’economia determini concentrazioni di potere, a preservare le espressioni culturali deboli, e così via. Lo Stato non è più il possibile ostacolo alla libertà di comunicazione dal quale guardarsi e al quale domandare al più il libero accesso alle fonti; ma gli si chiede di essere il tutore e l’equilibratore delle diverse libertà che confluiscono nella libertà di comunicare. Fino a concepire un diritto alla comunicazione, fino a favorire una comunicazione interattiva e la circolazione pluridirezionale dei messaggi che contribuiscono alla formazione di una effettiva opinione pubblica (Diritto e comunicazione). È ovvio che in questo nuovo atteggiarsi della libertà comunicativa (una fase che stiamo vivendo non senza contraddizioni e resistenze) insorgono problemi delicati nella definizione dei confini tra pubblico e privato, tra esigenze economiche ed esigenze culturali in senso lato: basti pensare al crescente peso della pubblicità nella comunicazione o alle controversie inesauste che suscita la ricerca di uno statuto ottimale per le strutture pubbliche della comunicazione, come in Italia il servizio pubblico radiotelevisivo della Rai.Lo sviluppo rapidissimo dei mezzi di comunicazione, il fatto che essi siano diventati oggetto di imprese economiche e, soprattutto nei regimi totalitari, strumento di poteri politici, ha messo in luce, in tempi recenti, un aspetto relativamente imprevisto della relazione che intercorre fra comunicazione e libertà. Dopo l’affermazione della libertà di comunicazione con tutte le sue implicazioni, si profila con una certa insistenza un problema in certo senso rovesciato: la domanda di una ‘libertà dalla comunicazione’. L’affermazione suona paradossale. E tuttavia, sempre più spesso, soprattutto con riferimento agli strumenti elettronici e telematici, si vengono imputando a questi mezzi inconvenienti e malanni che derivano non solo dai contenuti trasmessi, ma anche dalla loro pervasività, se non dalla loro stessa esistenza. Si imputa loro l’inaridirsi della comunicazione interpersonale; la passività che inducono nei ricettori rispetto ai contenuti; l’eccesso di informazioni che sovrasta il discernimento di un supposto ricettore di media formazione; la diffusione di comportamenti moralmente discutibili; la riduzione della politica a spettacolo... e l’elenco potrebbe continuare.
Maestri e intellettuali sollevano problemi. Il Card. Martini, arcivescovo di Milano, che pure è stato l’uomo di Chiesa che ha esplorato con più insistenza e profondità le opportunità offerte dal mondo della comunicazione, propone che di tanto in tanto ci si astenga dal video (Martini, 1990 e 1991). Il filosofo Karl Popper (1994) ha scritto un saggio severo su Cattiva maestra televisione, preoccupato soprattutto dell’effetto sui minori; e da molte parti si solleva il problema della diffusa dipendenza dei mezzi dal mercato pubblicitario e conseguentemente dalla ‘quantità’ dell’ascolto, che comporta fatalmente un abbassamento del livello qualitativo e un diffuso appiattimento della programmazione. La pervasività della comunicazione moderna minaccerebbe la libertà, quanto meno nel senso di alterare il personale e autonomo processo formativo dei soggetti, singoli o comunità, come la famiglia già insidiata da tanti altri fattori.
3. Il potere dei media e la responsabilità dei comunicatori
Preoccupazioni di questo genere, innegabili anche se ancora non esplorate nelle loro complesse implicazioni, sollevano ovviamente obiezioni dal versante di quanti operano nel campo della comunicazione. Soprattutto la preoccupazione che si ripropongano tentazioni censorie, senza sapere oltretutto chi, quale autorità, avrebbe i titoli e sarebbe comunque in grado di porre rimedio ai mali temuti. Si deve ammettere che si tratta di un problema tuttora aperto, a proposito del quale è possibile solamente formulare qualche osservazione.È diffusa la propensione ad attribuire alle dimensioni mastodontiche della comunicazione moderna molti dei mali che lamentiamo nella società. Ma quanto più il fattore economico interviene nella comunicazione e induce a fare riferimento alla quantità degli utenti, è probabile che gli strumenti della comunicazione siano non già la causa, la radice fontale dei malanni che sentiamo genericamente incombere su una società frantumata e culturalmente dispersa, bensì il riflesso, lo specchio di culture e di modi di vita che hanno la loro radice nella crisi sociale, nelle ‘leggi’ economiche, nelle inquietudini politiche, al limite, nella preponderante visione antropologica che informa la modernità.
Con questo non si vuol negare la responsabilità di quanti, padroni, produttori, operatori dei media, vi sono immediatamente coinvolti come detentori di un vero e proprio potere Potere e comunicazione). Anche se non si deve dimenticare che essi non rappresentano una entità che manipola la società dall’esterno, bensì rappresentano essi stessi un aspetto della società che influenzano e dalla quale sono influenzati. È opportuno opporsi alla tendenza, invalsa sempre più nella coscienza pubblica, a ottundere la responsabilità personale, considerando il singolo come la rotella di un ingranaggio che lo sovrasta e che oltretutto è intercambiabile. Sicché il rifiuto o la resistenza all’ingranaggio, che può costare in termini di lavoro o di successo, viene considerata inutile, e, in qualche caso, persino dannosa all’insieme, qualora al posto di un soggetto considerato ‘per bene’ venga collocato un altro soggetto considerato indifferente o magari cinico. Lo scarico della responsabilità personale per addossarla al sistema è uno dei modi più proficui in cui i sistemi perversi si consolidano e si riproducono (Videodipendenza). Per fare un riferimento tremendo, ma purtroppo già noto, è stato questo un meccanismo non secondario del consenso alle dittature.
Quel che qui si vuol dire è che, volendo correggere i malanni di cui ci lamentiamo e che vediamo riflessi nei mezzi di comunicazione, vale sino a un certo punto prendersela con questi ultimi. Se lo specchio ci rinvia una faccia che non ci piace, rompere lo specchio non giova. Se non altro, i mezzi di comunicazione ci avvertono dello stato in cui verte la nostra convivenza e l’inappagamento che suscitano è una ragione che stimola a ripensare i cardini, i dati fondativi della modernità (Effetti dei media).
Un capitolo a parte, che qui può avere uno svolgimento estremamente sommario, riguarda la Chiesa. È noto che la conciliazione dell’istituzione ecclesiastica con le libertà dei moderni è stata altamente controversa. In particolare il rapporto della Chiesa con la libertà di comunicazione si presenta come un aspetto emblematico di tale difficoltà. L’emergere dei moderni mezzi di comunicazione di massa ha incontrato inizialmente la diffidenza e l’ostilità della Chiesa, preoccupata della invadenza delle idee moderne, a essa per lo più avverse, e dalla diffusione di costumi sempre meno ispirati alla tradizione cristiana. Questo atteggiamento si è manifestato nella persistenza della censura e nello sforzo di contrapporre una ‘buona stampa’, sempre sotto severa sorveglianza ecclesiastica, alla ‘cattiva stampa’ laica. Un simile atteggiamento ha prolungato l’esistenza degli ‘storici steccati’, ritardando un confronto aperto e un inserimento efficace del pensiero cattolico nelle strutture comunicative; inoltre ha mortificato nello steso ambito cattolico il pluralismo teologico, riducendo lo sviluppo e l’efficacia della cultura cristiana. Si pensi alla dolorosa vicenda della crisi modernista. Solo con l’affermarsi della democrazia soprattutto dopo il secondo dopoguerra e, soprattutto con il Concilio Vaticano II, si può dire che l’atteggiamento è cambiato e la Chiesa ha guardato alla libertà di comunicazione con animo più aperto, più fiducioso nell’uomo e nel ruolo del laicato che soprattutto opera negli strumenti del comunicare (Cattolici e mass media; Giornalismo cattolico).
4. Verità e libertà nella comunicazione
È questo un atteggiamento mutato non solo, per così dire, per ragioni di adattamento pratico, di convenienza, di fronte allo sviluppo della comunicazione, o dovuto al mero riconoscimento che, di per sé, gli strumenti della comunicazione rappresentano uno sviluppo delle capacità naturali umane e come tali sono ‘buoni’, salvo l’uso che gli uomini ne fanno in concreto. In fondo l’ostilità iniziale nei confronti della comunicazione non nasceva, come spesso si sostiene e come solo in parte può essere vero, da una preoccupazione di potere, quanto da un non sufficientemente risolto rapporto fra verità e libertà. È in questo rapporto che nascono le difficoltà più profonde. Per la religione cattolica la verità non è solo un valore etico che si contrappone alla menzogna. È un valore teologico che si rapporta alla stessa persona di Gesù che ci rivela il Padre e il disegno del Padre per l’uomo. Sicché, in principio, la Verità diventa la dimensione teologica della comunicazione che supera le esigenze etiche e giuridiche della comunicazione stessa. Nella sfera umana e storica, quando non prevale lo scetticismo che nega la possibilità di attingere alla verità, è la libertà che processualmente consente all’uomo di raggiungere la verità, mai piena e perciò perfettibile. Nella sfera dello Spirito è la Verità che ci fa liberi. Se tuttavia questa dimensione sovrannaturale si concettualizza e tende a ridursi in norme e in divieti più o meno giuridicamente fondati e sorvegliati da una autorità gerarchica, prevale il timore del caos indistinto delle opinioni e diventa difficile l’esercizio di quella stessa libertà che scaturisce dall’intima compenetrazione del fedele con la persona di Cristo che si è definito "Via, Verità e Vita".Il Concilio Vaticano II ha effettivamente aperto una strada che innova anche sul terreno accidentato della comunicazione e della sua libertà. Anche se il documento che testimonia questa apertura non è tanto quello specificamente riferito alla comunicazione (in verità piuttosto povero e solo successivamente arricchito da documenti ulteriori, fino alla Aetatis Novae) quanto il testo fondamentale sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae. Questo testo riconosce che nello spazio sociale e civile, il principio fondativo della libertà non è la Verità come assoluto, ma la dignità della persona umana. La ricerca della verità rimane l’orizzonte nel quale l’uomo è chiamato a muoversi e a tendere: ma il cammino non può che essere un cammino libero attraverso la voce della coscienza che, proprio in quanto tende alla verità, riconosce il proprio limite e resiste all’arbitrio per cui la legittimità delle opinioni equivarrebbe alla negazione della verità. Un equilibrio difficile, certo, che tuttavia immette felicemente il cristiano nel flusso delle conquiste umane e ne accresce del pari la responsabilità.
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Bibliografia
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Links
- La dichiarazione "DIGNITATIS HUMANAE" del Concilio Vaticano II sulla libertà religiosa
- La Dichiarazione dei diritti del popolo della Virginia (1776) sul sito della Biblioteca di Virginia
- LSDI - Libertà di Stampa Diritto allInformazione
- Sito ufficiale dellassociazione internazionale Human Rights Watch
- Testo della Dichiarazione dei diritti dellUomo e del Cittadino (1789) - premessa della Costituzione repubblicana della Francia
- Testo dello Statuto Albertino (1848)
- Testo integrale della Costituzione degli Stati Uniti
- Testo integrale della Costituzione della Repubblica Italiana
Note
Come citare questa voce
Pratesi Piero , Libertà e comunicazione, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (30/12/2024).
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