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1. Cinema e arte popolare

Dalla Biblia Pauperum dei grandi cicli pittorici medievali alle ‘sacre rappresentazioni’ (Teatro), alle altre numerose espressioni, l’arte popolare religiosa, da sempre e a vari livelli di consapevolezza espressiva, ha raccontato o rammentato la vasta episodica biblica, ‘dando una mano’, in queste forme singolariall’evangelizzazione e alla catechesi. In tal senso anche il cinema a tema religioso, in quanto arte popolare – cioè per molti, per la gente – potrebbe rispondere alle stesse finalità. Ma c’è una differenza: mentre gli affreschi medievali, le sacre rappresentazioni, il Presepe, pur nascendo in tempi diversi, si collocano nell’alveo di una cultura fortemente impregnata di valori cristiani, di cui l’artista è portavoce consapevole, investito in vario modo e a vario titolo di un compito di vera e propria evangelizzazione, il cinema nasce in un contesto culturale variegato e frammentato, si nutre di una visione del mondo e della vita certamente non unitaria e spesso assai lontana da quelli che uno spirito religioso reputa autentici valori. Il che non può non influenzare le stesse rappresentazioni della B. che la Settima Arte tenta di dare e che talora con tali valori possono persino entrare in conflitto.
Per altro, il fatto che i film sulla B., e sulla vita di Gesù in particolare, punteggino tutta la storia del cinema nel suo arco secolare, è una riprova dell’interesse per una tematica che continua a essere al centro dell’esperienza umana, un’occasione ricorrente di richiamo a valori, temi e figure che certo non tutti gli artisti interpretano e vivono alla stesso modo, ma da cui si sentono comunque interpellati. E l’incidenza di questi film ha pur sempre una cifra positiva, provoca un impatto che non si può non chiamare religioso, nel senso di un richiamo a valori assai lontani da quelli che il nostro tempo – e l’arte che ne celebra i fasti – ha posto ai vertici della sua gerarchia: il successo, il denaro, il sesso, l’effimero, la violenza come legge del più forte nei rapporti fra gli uomini e fra le nazioni.

2. Il cinema delle origini e la sacra rappresentazione

Fra i contenuti in grado di attrarre maggiormente l’attenzione di un pubblico cinematografico ancora ‘vergine’ non potevano mancare, sin dagli inizi, quelli di carattere religioso, a cominciare dalla Passione e, in generale, dalla vita di Cristo.
Sin dai suoi primi passi il cinema ‘scopre’ l’argomento religioso e, in particolare, prova forte interesse per quel tipo di celebrazione popolare costituita dalla ‘sacra rappresentazione’, concepita per ‘quadri viventi’ che si succedono uno dopo l’altro, con il loro potere evocativo e la loro carica emozionale, e tenta di riproporla, con il suo linguaggio ancora embrionale, impiegando materiali molto prossimi a quelli in uso negli spettacoli del genere (Oberammergau, per esempio), anzi le stesse abbondanti parrucche, gli stessi sommari paludamenti romani ed ebraici nel gusto dell’epoca, fra liberty e neorinascimento, ecc. Di suo il cinema ci mette scenari più curati e attendibili, siano essi fondali dipinti o luoghi reali.
Allo stile della ‘sacra rappresentazione’ vanno dunque ascritti tutti i primi tentativi cinematografici di vite di Cristo e storie della Passione, da quella parigina del 1895, la cosiddetta Passion Léar, dal nome d’arte del suo autore, Kirchner detto Léar, realizzata con gli attori che rappresentavano il ‘mistero’ alla Fiera degli Invalidi a Parigi, alle Vues représentantes la vie e la Passion de Jésus-Christ (dall’Adorazione dei Magi alla Resurrezione) detta Passion Lumière, girata da Breteau e Georges Hatot nel villaggio di Horitz in Boemia (dove i contadini cechi interpretavano allora una Passione che rivaleggiava con quella di Oberammergau). E poi la Passione di Gesù (1900) di Luigi Topi e Ezio Cristofari e La vie et la Passion de Jésus-Chris, realizzata da Ferdinand Zecca nel 1902, detta anche Passion Pathé. Sino ad arrivare al Christus (1915) dell’italiano Giulio Antamoro e all’americano From the Manges to the Cross (1912) di Sidney Alcott.

3. Il film biblico e il kolossal

Secondo il sintomatico giudizio di un esperto hollywoodiano degli anni Trenta, nella B. sono contenuti tutti i soggetti cinematografici possibili e immaginabili. Ma il più delle volte il cinema ha utilizzato i soggetti biblici unicamente per il loro alto potenziale di spettacolarità, perché in grado di favorire l’impiego di grandi masse e grandi scenografie, per lo scontro elementare fra ‘buoni’, inviati da Dio, e ‘cattivi’, persecutori, non spingendosi di solito oltre un’illustrazione piuttosto piatta e volgare dei testi e preferendo lavorare, anziché in profondità, in estensione, per esempio dilatando lo schermo nella grande striscia orizzontale del cinemascope, in grado d’imprigionare ampi orizzonti, nutrendolo di un’orgia di colori, stipandolo di scenografie imponenti e di una folla di comparse, in una sorta di maniacale ‘horror vacui’. Il film biblico viene dunque a coincidere con il cosiddetto genere kolossal.
Cecil B. De Mille, autore dei Dieci comandamenti (1923 e poi 1956) e iniziatore ufficiale del ciclo biblico-hollywoodiano, scopre nelle storie dell’Antico Testamento, già frequentate sin dagli anni del muto, una miniera inesauribile di trovate ‘meravigliose’, come quelle Tavole della Legge scolpite da un divino raggio laser, e quelle acque del Mar Rosso che si ritirano, in maniera così prodigiosa, al comando del ‘mago’ Mosè, per consentire il passaggio del popolo di Dio e poi ripiombare sull’esercito egiziano. È comunque innegabile che film come quello citato abbiano contribuito a far conoscere pagine dell’Antico Testamento non troppo frequentate dal mondo cattolico, con un tentativo un po’ ingenuo e magniloquente, ma non insincero, di ‘commuovere’ lo spettatore e farlo riflettere in qualche modo sul lungo e affascinante dialogo fra l’uomo e il suo Creatore. Dunque un’incidenza sul sentimento e sul costume religioso non troppo dissimile dalle forme paraliturgiche e d’arte sacra dello stesso momento storico, ma forse più eloquente ed efficace.
Fra i numerosi film biblici possiamo ricordare ancora Sansone e Dalila (1949) dello stesso De Mille, David e Betsabea (1951) di Henry King, Ester e il Re (1960) di Raoul Walsh, Sodoma e Gomorra (1962) di Robert Aldrich.

4. Icona e parabola, evocazione e rappresentazione: le vite di Cristo

Più fecondi e partecipati gli interventi del cinema sul Nuovo Testamento, sul Vangelo.
Se esiste un solo, ineffabile volto di Gesù, i tentativi di delinearlo sono pressoché infiniti – centodiciotto quelli cinematografici, secondo un recente calcolo – e corrispondono alla costante tensione di tradurre in un’immagine, che è sempre una lettura univoca, l’inesauribile ricchezza e potenzialità della Parola.
In linea generale si può dire che il film ‘biblico’, evangelico in particolare, sembra ispirarsi al modello ‘icona’ – immagine come manifestazione dell’invisibile – invitando lo spettatore a risalire al Mistero mediante l’immagine filmica, oppure segue il modello analogico, creando una parabola destinata anch’essa a stimolare la riflessione sul Mistero. Non si tratta del resto d’imporre una particolare e strutturata visione del sacro quanto d’invitare lo spettatore a contemplare la sacralità biblica della quale un film non è che provvisorio e inadeguato riflesso.
In altre parole un’opera cinematografica può tenare la rappresentazione dei tempi, dei modi e dei costumi nella quale la narrazione evangelica si è realizzata o puntare, come nella liturgia, all’evocazione del Mistero attraverso il segno, sempre inadeguato.
Sono questi alcuni metri di giudizio con i quali verificare l’enorme messe di narrazioni evangeliche che il cinema ci ha offerto.
Sulla linea dell’evocazione, Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini, che, attraverso i ritrovati moduli della ‘sacra rappresentazione popolare’, colloca la ‘cifra’ Gesù in mezzo ai nostri contemporanei, camuffati da antichi, e dunque propone un sommario e stilizzato rito che sta allo spettatore interpretare e soprattutto integrare con la sua partecipazione.
Lavoro di estraneazione-evocazione non troppo lontano, nel procedimento se non negli esiti, da quello di Jesus Christ Superstar (1973) di Norman Lewison, saggia trascrizione cinematografica di un’opera rock composta da Tom Rice e Andrew Lloyd Webber, nella quale un gruppo di hippies, i figli dei fiori del mitico Sessantotto, inscena il suo Vangelo raccontando con canti suoni e balli la storia di Gesù, stella polare dell’umanità, segno di contraddizione e sublime risposta.
Sul piano di un tentativo di ricostruzione realistica, e quindi meno cariche di quella tensione emotiva che coinvolge lo spettatore e lo fa partecipe del rito, si collocano le numerose vite di Cristo hollywoodiane, da Il re dei re (1927) di Cecil B. De Mille al Re dei re di Nicholas Ray (1961) a La più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965). Sullo stesso versante il nobile Gesù di Nazareth (1977) di Franco Zeffirelli, disteso in un’ampia scansione televisiva, che trae suggerimento e ispirazione, per quanto riguarda scenari e costumi, dall’arte classica italiana, dal tardo Seicento in poi, con una particolare fedeltà a quanto l’iconografia cattolica ha elaborato a partire dalla Riforma tridentina.
Non vanno trascurate le cosiddette ‘variazioni’, in dialogo o addirittura in polemica con la versione evangelica, che rappresentano modi ancor più personali e soggettivi di racconto. Volti di Gesù che talora possono anche sconcertare o irritare. A questo proposito si possono distinguere due direzioni di massima: la lettura soggettiva, parziale, magari deviante, di alcuni momenti della vita di Cristo liberamente reinterpretata, oppure l’assunzione della vita di Cristo come metafora della ‘vittima sacrificale’, alla luce della quale leggere la storia dell’espiazione e del sacrificio umano.
Lungo la prima delle due traiettorie si può ricordare L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese (1988) dal romanzo di Kasantzakis, o La ricotta di Pasolini (1963), lungo la seconda il Cristo proibito di Malaparte (1951), il Cristo fra i muratori di Dmytrick (1949), il Jesus of Montreal di Arcand (1989) o il Cercasi Gesù di Comencini (1982), senza dimenticare la più alta di tali parabole, Ordet di Dreyer (1955).

5. La divulgazione televisiva

Alla messe di produzioni cinematografiche si è aggiunto, a partire dai primi anni Cinquanta, l’ampio capitolo della divulgazione televisiva, che da un lato ha imprevedibilmente riproposto film di un passato più o meno recente, dall’altro ha prodotto una serie di opere nuove e originali, con intenti più dichiaratamente divulgativi.
Si è già ricordato il Gesù di Zeffirelli, ma occorre citare anche Jesus (1999) di Roger Young, con quel Gesù giovane fra i giovani, fragilmente e pateticamente ‘scoperto’ di fronte al male, all’ingratitudine, alla violenza. Un nutrito serial è quello di narrazioni bibliche promosso e prodotto dalla Lux Vide, un nuovo tentativo – dopo quello, di durata ridotta ma tutt’altro che disprezzabile, compiuto da Dino De Laurentis nel 1966 – di raccontare la B., il Vecchio Testamento in particolare: ammirevole rigore nella riproposta e nell’interpretazione dei testi, sobrietà nell’affabulazione, grande impatto popolare sono i meriti precipui del ciclo al quale si può rimproverare talora una certa patina oleografica e un’impostazione ‘riduttiva’ nella ricostruzione. Ma va ricordata anche la B. a cartoni animati prodotta dalla Rai (In principio. Storie dalla Bibbia), che ha fatto conoscere a un pubblico infantile, usando mezzi a esso omogenei, la ricchezza del testo biblico.

6. Cinema e catechesi

Se la catechesi è un cammino di fede da percorrere insieme e la proposta di un progetto di vita incentrato sul messaggio di Gesù, è evidente che anche il cinema può essere utilizzato lungo questo itinerario. Non si tratta certo di sostituire a un incontro catechetico la visione ‘nuda e cruda’ di una pellicola a tema religioso, quanto di utilizzare spezzoni di film e singole sequenze facendole rientrare in un preciso percorso. Un brano particolare di un film biblico – anche quello di De Mille, così inserito nel contesto hollywoodiano degli anni Cinquanta – può forse costituire un primo approccio con una pagina della B., aiutarci a ritrovarne il senso per noi, richiamarci al confronto, spingerci alla lettura diretta, informarci sul contesto storico e geografico, facendoci riflettere nel contempo sul fatto che ogni ‘traduzione in immagini’ della parola è in certo modo una scelta che ne evidenzia un significato lasciandone inesplorati molti altri.
Il film a tema religioso o biblico – espressione di quel linguaggio popolare che è il cinema – talvolta è puro e semplice tentativo d’illustrazione, più o meno sincero o profondo, talora è ricerca vissuta e sofferta, talora proposta o provocazione polemica. E dunque può istruirci, stimolarci, provocarci, scandalizzarci forse. Ma ogni provocazione che rompa la scorza inerte dell’indifferenza ha una valenza religiosa, o potrebbe averla.

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