Chiesa e comunicazione A. Fino al Vaticano II

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Più che riferire sull’uso dei diversi mezzi e strumenti della comunicazione umana praticato, dalla e nella Chiesa cattolica, nel variare delle condizioni culturali e ambientali dei suoi venti secoli di storia, si intende qui fare riferimento ai suoi comportamenti, normativi e dottrinali, nel progressivo introdursi di fattori tecnologici determinanti: 1) la qualità e la quantità dei messaggi ("contenuti") delle comunicazioni; 2) la crescente estensione dei recettori (Massa; Audience) raggiungibili dalle stesse; 3) il crescente prepotere opinionale e sociale, economico e politico, dei detentori (oligopoli e monopoli) delle complesse strutture tecnologiche.
Perciò – partendo dalla comunicazione orale uditiva – seguiranno in ordine cronologico:
1) la scrittura; 2) le immagini; 3) il teatro; 4) la stampa-libro; 5) la stampa-giornale; 6) il cinema; 7) la radio e la televisione; 8) dall’Inter mirifica alla Communio et progressio.

1. La scrittura

Al tempo di Gesù, in Palestina – come nelle altre contigue terre ed etnie dell’Oriente mediterraneo – nel popolo prevaleva ancora l’originaria comunicazione orale-uditiva, la scrittura-lettura essendovi praticata da pochi ‘scribi’ e ‘dottori’, perciò dominanti sulle moltitudini dei ‘piccoli’ (ptokoi, pauperes), che si comunicavano i loro fatti e messaggi soltanto consegnandoli alle proprie, individuali e comunitarie, memorizzazioni.
E, nei Vangeli, non molto diversa risulta la comunicazione praticata da Gesù (Cristo comunicatore). Infatti, egli vi comunica sempre e solo parlando. In colloqui privati (Giovanni 3,2) e in discorsi (Matteo 5,1); a dodici (Luca 9,1) ai discepoli (Luca 6,13) e alle turbe (Marco 3,7); nelle Sinagoghe e nel Tempio (Marco 4,23 e 23,43). La sua parola – non meno che i suoi miracoli – bastano a lasciare stupiti "quelli della sua patria" (Matteo 13,54), facendo dire ai suoi avversari: "Mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo" (Giovanni 7,46), e, ovviamente, portando i suoi frutti: "Alla sua parola, molti credettero" (Giovanni 8,30).
Ma, insieme, Gesù vi appare anche usuale ‘lettore’ di testi scritti. Di lui Luca riferisce che "a Nazareth, all’inizio della sua missione, egli entrò, come al solito, il sabato nella Sinagoga, e si alzò a leggere" (Luca 2,4), e ne riporta la parabola dell’amministratore cattivo, "scrittore di ricevute" (Luca16,6); mentre tutti e quattro gli evangelisti non si stancano di reiterare i suoi mnemonici: "Sta scritto..." (Matteo 2,5; Marco 7,6; Luca 2,4; Giovanni 2,7), rinvianti a testi mosaici o profetici. Una sola volta, in Giovanni, egli appare anche "scrittore"; però non "con inchiostro e penna" (3 Giovanni 13), ma solo "col dito" e "per terra" (Giovanni 8,6). Sorvolando sul quesito di Tommaso d’Aquino: Utrum Christus doctrinam suam debuerit scripto tradere (Summa theologica, III, q.42, art. 2), sta dunque il fatto che Gesù non ci ha lasciato nessun suo scritto, e che, affidando ai suoi apostoli la missione di "predicare il Vangelo del Regno" (Matteo 24,16 e 26,13), l’ha fatto esclusivamente in termini di comunicazione itinerante orale-uditiva, dicendo loro: "Strada facendo, predicate...: quello che ascoltate nell’orecchio predicatelo su i tetti" (Matteo 10, 27), e replicando: "Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura" (Marco 16,15). E, di fatto, nella Chiesa primitiva, le cose si avviarono così. Lo stesso Marco chiude il suo Vangelo con un: "Ed essi andarono e predicarono dappertutto" (Marco 6,20). Gli Atti degli Apostoli riferiscono come i primi dispersi di Gerusalemme "andavano per il paese e diffondevano la Parola di Dio" (Atti 8,4), e come il diacono Filippo, sulla strada di Gaza "annunciò la buona novella di Gesù all’Etiope di Candace, chiarendogli un passo del profeta Isaia" (Atti 8,35). Ma gli stessi Atti attestano il sollecito ricorso anche alla scrittura riportando una lettera inviata dalla Chiesa di Gerusalemme a quela di Antiochia (Atti 15,23); tra i latori della quale figura un san Paolo, che poi si firmerà "di mia propria mano in almeno altre quattro lettere (cfr. 1 Corinti 16,21; Galati 6,11; Tessalonicesi 3,7; Colossesi 4,18).
Iniziava così anche nella Chiesa quella coesistenza concorrenziale tra umana comunicazione immediata verbale e trasmissione mediata nel tempo e nello spazio, che – già paventata (cfr. Platone, Fedro 724c, Cap. 59) in una cultura greca, tutta rimessa alla parola e alla memoria – non lo è meno oggi, stante l’invasione di tecnologie comunicative, riducenti – si teme – l’umana ricchezza di comunicazione-comunione propria della ‘Parola viva’. In merito spicca il magistero di Paolo VI, che – rilevata "la somma importanza che la predicazione cristiana conserva, ed assume oggi maggiormente nel quadro dell’apostolato cattolico" – affermava: "Nessuna forma di diffusione del pensiero, anche se tecnicamente assurta [...] a straordinaria potenza, la sostituisce. Apostolato e predicazione, in certo senso, si equivalgono. La predicazione è il primo apostolato. Il nostro è, innanzi tutto, ministero della parola" (Ecclesiam suam, 9).
Di fatto, a questa ‘Parola viva’ sempre si è attenuta la Chiesa: sia nella prima evangelizzazione, per condurre i pagani alla fede; sia nella catechetica, diretta a far conoscere ai catecumeni la fede in tutte le sue attinenze dottrinali e morali; e sia nell’omiletica liturgica, volta a far vivere alla Comunità cristiana la fede, dalla stessa accettata e conosciuta. Ma coevo e parallelo vi è stato sempre il ricorso anche alla scrittura. Anche se questa, col passare dei secoli e con l’aumentare, in quantità e volume, delle pergamene e dei codici, da sussidio di corrente comunicazione parlata, è passata a duratura testimonianza e fonte di storia e di sapere, sia ecclesiale sia di umana civilizzazione. Così, già al tempo degli apostoli, "testimoni fin dal principio", e fedeli della loro cerchia, "scrivono in resoconti ordinati" (Luca 1,1) "ciò che Gesù fece e insegnò" (Atti 1,1): e oggi ne abbiamo – con alcuni apocrifi – l’autentica Sacra Scrittura neotestamentaria.
Ai primi secoli risalgono gli scritti dei Padri apostolici e, con le persecuzioni, le Passioni dei martiri. Poi in tutto il Medioevo si moltiplicano le Lettere dei Papi e gli Atti dei vari Concili (cfr. per questi i volumi della Sacrorum Conciliorum Collectio curata da J. D. Mansi: Venezia-Firenze, 1759-1788), e soprattutto abbondano gli scritti di esegeti, di apologisti e controversisti, di commentatori dottrinari e di mistici (cfr. i ben 221 e 116 volumi delle Patrologie, greca e latina, curate da D. Migne: Parigi, 1844-1855).
Due esiti particolari qualificano questi quasi 1500 anni di rapporti tra Chiesa e scrittura. Il primo sta nell’efficace influsso socioculturale esercitato dalla stessa in tutta l’area mediterranea e, da questa, in tutto il mondo allora noto, con la diffusione e la conservazione delle varie lingue e relative grafie: dal samaritano all’ebraico, dalla greca koinè al latino, dal gotico di Ulfila (+381) al glagolitico-cirillico dei santi Cirillo e Metodio (+885), poi salvate e trasmesse in tutto il Medioevo, oltre che epigrafi tombali e celebrative, dalle trascrizioni degli amanuensi negli Scriptoria cenobitici. L’altro sta negli interventi limitativi seguiti nella Chiesa, riguardo alla diffusione e alla lettura di testi, di dubbia ortodossia o della stessa Sacra Scrittura. Si contano, tra i primi, gli scritti di sette e di correnti (catari, manichei, montanisti, priscilliani, patarini...) o di autori (come Ario, Origene, Porfirio, Nestorio, Eutiche, Fozio, Abelardo e Wycliffe) dottrinalmente più o meno aberranti; quindi oggetto di ‘Canoni’ e di ‘Indici’, nonché di pene non solo spirituali, per i loro lettori o detentori; come pure di bruciamento, anche solenne, degli stessi scritti o libri incriminati (prassi, del resto, già seguita da Paolo a Efeso, cfr. Atti 19,19). Tutto secondo il criterio poi esposto, nel Quattrocento, da Teofilo, vescovo di Alessandria, a proposito delle opere di Origene: "È meglio proibire del tutto le letture atte più a far danno alle persone incolte, che a giovare ai dotti" (Doc. 18. I documenti citati in questa forma si riferiscono alla raccolta curata dall’A.: Comunicazione, Comunione e Chiesa, Studio romano della comunicazione sociale, Roma 1973).
A proposito, invece, dell’accesso diretto alla Sacre Scritture, vige in tutti questi anni quanto nel 1199 Innocenzo III preciserà al vescovo di Metz: "Gli arcani della fede non sono da esporre a tutti indistintamente, dato che non tutti possono egualmente comprenderli ma soltanto a quelli che possono intenderli con intelligenza fedele" (Doc. 59). Di qui un notevole generale ritardo. Ancora nel 1229 il Concilio di Tolone (Francia) vieta ai laici di avere libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, salvo il Salterio "in ogni caso severamente proibendone la versione in volgare" (Doc. 64); nel 1234 e nel 1317 due Convegni di Tarragona insistono, il primo a condannare al fuoco "tutti i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento in volgare" (Doc. 67), il secondo nell’ordinare "che nessun Beghino o Beghina possegga, abbia e legga libri di teologia in volgare, fatta eccezione per i libri esclusivamente di preghiera" (Doc. 80). Nel 1408 un concilio di Oxford (Londra) stabiliva e ordinava "che, d’ora in poi, nessuno di propria autorità traduca in inglese o in altre lingue qualche testo della Sacra Scrittura, divulgandolo in libri, opuscoli o trattati" (Doc. 85). Non basta. Come si vedrà, ancora nel 1533, quasi un secolo dopo l’invenzione della stampa, il Papa Clemente VII si meraviglierà che a Venezia nelle chiese si leggessero e commentassero, parola per parola e in lingua volgare, le lettere di san Paolo e altri testi della Sacra Scrittura, e ordinerà d’impedirlo "con tutti i mezzi che suggeriscono la gloria di Dio, la difesa della fede cattolica e la salute delle anime" (Doc. 99).

2. Le immagini

Fu merito della Chiesa primitiva l’aver rotto con la tradizione veterotestamentaria (cfr. Deuteronomio 4, 8-28; 27,15), ancora seguita, invece, dall’Islam ostile a ogni figurazione, soprattutto se umana o attinente al culto. Vi dovette influire il mistero dell’Incarnazione del Verbo, del quale "noi vedemmo la gloria come di unigenito del Padre" (Giovanni 1,14), che riduceva la deviazione idolatrica di semplici immagini. Ma v’influì anche la cultura ellenistica-romana, nella quale le prime cristianità respirarono, ridondante di figurazioni scultoree, pittoriche e musive, che rinviavano alle concrete realtà rappresentate e non più identificate con le stesse, come era stato per i graffiti dei cavernicoli dell’età della pietra. Questo ricorso alle espressioni figurative avvenne non in esecuzione di espliciti programmi e di norme comunicative da parte del Magistero, ma per iniziativa di semplici artigiani, che decorarono i primi luoghi di culto rappresentando personaggi, fatti e simboli dell’Antico e del Nuovo Testamento a essi familiari; e, più tardi, con intenti comunicativi più consapevoli, anche con l’apporto di grandi artisti; i quali, nelle sculture di capitelli e di portali, nei mosaici, nelle vetrate e negli affreschi delle pareti e dei catini, svilupparono dette rappresentazioni anche in cicli scritturali – le cosiddette Biblia Pauperum – poi popolarizzate in serie di xilografie (incisionin legno), accompagnate da brevi testi scritturistici latini (e poi tedeschi), a uso di chierici e di fedeli poco domestici con le lettere, apparse nei secoli XII e XIII, e poi, per mezzo della stampa, diffusesi in Europa nei due secoli seguenti.
Il Magistero romano, invece, è più volte intervenuto quando – nei secoli IV-VI tra i ‘barbari’ della Spagna e della Gallia e nei secoli VII-IX in Oriente – si verificarono reazioni iconoclaste. Un caso a sé resta quello del Concilio di Elvira (Spagna), che nel 303 stabiliva che "nella chiesa non ci devono essere pitture; dunque non si dipinga nelle pareti ciò che è oggetto di culto e di adorazione" (Doc. 3). Toccava al Papa Gregorio Magno, nel 600, rapportare le immagini a "linguaggio per gli incolti". Al vescovo di Marsiglia Sereno che, preoccupato del pericolo d’idolatria, aveva fatto distruggere e gettare via dalle chiese le immagini, egli scriveva: "Lodiamo lo zelo che hai dimostrato perché non vengano adorati manufatti: ma non dovevi distruggere quelle immagini. Infatti nelle chiese si mettono le pitture affinché gli analfabeti, almeno guardando le pareti, leggano quello che non sanno leggere nei codici (...). Altro è, infatti, adorare le immagini e altro è attraverso la rappresentazione di una storia imparare che cosa si debba adorare. Infatti, quello che è la scrittura per chi sa leggere, lo sono le immagini per gli analfabeti che le vedono (...). Specialmente per i barbari la pittura vale come una lettura" (Doc. 33). (Sulle immagini nelle chiese sono tornati: nel 1563 il Concilio di Trento [H. J. Denzinger - A. Schönmetzer, Enchiridion symbolorum, 1976, nn. 1823 ss.] e il Codice di diritto canonico del 1917, n. 1279; quello più recente, del 1983, non ne tratta).

3. Il teatro

In argomento occorrono due premesse. La prima per rilevare che generalmente, e con ragione, il teatro non viene annoverato tra i mass media; dato che, se limitato a solo testo scritto, non esce dall’ambito librario letterario; mentre, se rappresentato sulle scene, intanto può fare a meno di qualsiasi ‘tecnicità’, e può anche, come tanti altri ‘spettacoli’, restare esperienza di pura evasione, del tutto carente di contenuti ‘messaggi’. Per questa ragione il Vaticano II, sollecitato discutibilmente a includere anche il teatro nel decreto Inter mirifica, lo ha fatto solo all’ultimo momento e sotto questi termini di compromesso: "Infine si faccia in modo che la nobile ed antica arte del teatro, che oggi questi strumenti vanno largamente diffondendo, contribuisca alla formazione culturale e morale degli spettatori" (n. 14). E in termini non meno opinabili, otto anni dopo, l’istruzione pastorale Communio et progressio (n. 158-161), applicava lo stesso Decreto (n. 23), "per opera di periti – sì – di diverse nazioni" (ib.), ma più in giornalismo (e pastorale) che in massmediologia. L’altra premessa riguarda il rapporto mantenuto, nel tempo, dalla Chiesa rispetto al teatro. Secondo la raccolta Documenti pontifici sul teatro (Città del Vaticano, 1966), "fin dal principio essa ha cercato di usare il teatro per il suo messaggio e per la restaurazione interiore dell’uomo"; mentre più spesso, da altri, la stessa è stata accusata di non aver dimostrato verso il teatro aperture pastorali e, anzi, di averlo a lungo ostacolato e condannato. Ma elogio e denuncia vanno ridimensionati.
Intanto resta vero che il Magistero non ha mai formulato una dottrina contraria al teatro come tale, neanche durante la querelle giansenista dei secoli XVII-XVIII, quando, tra gli altri, G. B. Bossuet teorizzò contro il teatro "con argomenti di fede e di ragione". Restano, è vero, le numerose e veementi tirate contro i teatri e i teatranti da parte di scrittori e di oratori ecclesiali, quali Tertulliano, san Cipriano, san Basilio, san Giovanni Crisostomo, sant’Agostino, Lattanzio (poi equilibrate dalla misurate concessioni di sant’Alberto Magno, san Bonaventura, sant’Antonino e san Tommaso d’Aquino); ma si spiegano col fatto che, nei primi secoli cristiani, il teatro, perduta ogni dignità artistica, era scaduto tutto a spettacolo di lussuria e di sangue; per di più, ancora per parecchi secoli costituì un veicolo di propaganda popolare di quella idolatria che, condannata dagli editti imperiali, perdurava nelle credenze e nei costumi profondi delle masse.
Di qui i frequenti interventi avversi a teatri, a teatranti e a chierici che li frequentassero, così da parte di imperatori (cfr. Doc. 7, 8, 9 e 11), come da parte della Chiesa: cfr. Concilio di Arles, del 314 (Doc. 4), di Cartagine, del 393 (Doc. 12) e Trullano, del 692 (Doc. 38); nonché i Canones apostolici, del 400 (Doc. 16).
In tale situazione non era agevole distinguere tra un teatro da approvare, quale in astratto poteva e doveva essere, e quello da condannare in toto, quale quello che in realtà era. Soltanto Benedetto XIV se la sentì di farlo (in privato!), nel 1753, encomiando il teatro del suo amico Scipione Maffei (Doc. 153); mentre per avere un giudizio tutto positivo occorre attendere un discorso di Pio XII, del 1950 (Doc. 482), seguito da altri due di Paolo VI, pronunciati nel luglio e nel dicembre 1965 (Docc. 675, 699).
Tuttavia, non mancarono nella Chiesa iniziative didattico-pastorali del teatro: prime tra esse quelle liturgiche, alle origini del teatro moderno. Infatti, dagli ‘uffici drammatici’ – in Oriente nel secolo VI (ma senza seguito), e in Occidente nei secoli VIII e IX – la liturgia, da letta e cantata che era, si movimentò in azione, per svilupparsi, nel secolo XII e seguenti, in autonome laudi, devozioni, sacre rappresentazioni (in Italia), in mystères, soralités e passions (in Francia), che dal latino passarono ai volgari (i cosiddetti ‘drammi misti’), si staccarono dall’altare e avanzarono verso il portico per uscire sul sagrato delle chiese, fatti insieme spettacolo e catechesi-predicazione.
Analoghe utilizzazioni pastorali sono stati gli autos fioriti in Spagna e nelle colonie spagnole nei secoli XVI e XVII: composizioni drammatiche di argomenti religiosi, anch’esse di origine liturgica collegate con le funzioni dei cicli natalizio e pasquale (autos sacramentales quelle collegate con l’Eucaristia). Con legittima soddisfazione Pio XII potrà rilevare come, "mentre in pieno secolo classico, con Poliuto, Ester, Atalia, l’arte drammatica francese toccava il suo apogeo (...), già alla fine del secolo XVI i drammi di Lope de Vega e soprattutto di Calderón de la Barca sollevavano l’entusiasmo di tutta la Spagna, e ne provavano l’alto grado di cultura religiosa e della vita spirituale" (Doc. 482).
Né mancarono utilizzazioni estranee alla liturgia. Per i secoli X e XI vanno ricordati: per l’Occidente i noti drammi terenziani della benedettina Rosvita, e per l’Oriente il Christos Pascons, più che altro destinati alle scuole abbaziali, ‘giuochi di alunni’, da recitare in pubblico. Altro esempio, meno remoto, può considerarsi il Teatro gesuitico, che per due secoli, fino alla soppressione della Compagnia (1773), funzionò nei suoi collegi, in tutte, si può dire, le grandi città europee, e anche nelle missioni, prima a scopo prevalentemente didattico-umanistico e poi anche a scopi edificante-pastorali, quale valida alternativa al teatro profano. Nel Vaticano II, un ulteriore interessamento del Magistero al teatro è quello dellagià ricordata Communio et progressio: secondo la quale oggi "la Chiesa segue con simpatia ed attenzione l’arte teatrale" mentre si augura che "se ne ricavino tutte le utilità che può dare".

4. La stampa-libro

L’invenzione della stampa a caratteri mobili, iniziata a Magonza (Germania) nel 1439 da Giovanni Gensfleisch, (detto) zum Gutenberg, non poteva ricevere dalla Chiesa un’accoglienza migliore, stante l’opera costosa e lenta degli amanuensi, impari a soddisfare la crescente urgenza di testi per l’insegnamento universitario, nella vita conventuale e nel servizio liturgico. L’attesta questo Colophon-preghiera col quale lo stesso Gutenberg, nel 1460, chiudeva uno dei primi incunaboli da lui stampati: il Catholicon del ducentista Giovanni Balbi da Genova: "Con l’aiuto dell’Altissimo per volontà del quale parlano le lingue degli infanti e che spesso rivela agli umili ciò che cela ai saggi, questo nobile libro Catholicon è stato stampato e portato a termine senza l’aiuto del calamo, dello stilo e della penna, ma per mezzo del meraviglioso concorso, proporzione ed armonia di punzoni e di matrici, nell’anno dell’Incarnazione del Signore 1460, nell’alma città di Magonza, dell’inclita nazione germanica, che la clemenza di Dio s’è degnata di preferire e di distinguere con sì alto genio e liberale dono./ Perciò, sia onore a Te, Padre Figlio e Spirito Santo/ Dio uno in tre Persone./ E tu, con questo Catholicon diffondi la gloria della Chiesa e non cessare mai di lodare la benigna Maria. - Deo gratias" (Libro).
Né la prassi smentì tanto entusiasmo iniziale. In tutta l’Europa, e poi altrove, le prime stamperie s’impiantarono appunto nelle abbazie, nelle residenze episcopali e nelle università ecclesiastiche (Roma, nel 1475, ne accoglieva già una trentina), che pubblicarono a migliaia Bibbie, autori ecclesiastici, testi liturgici, classici latini e greci e testi scolastici. Ai quali si estese subito l’interesse anche culturale umanistico della Chiesa, contro la diffidenza di non pochi che, avversi alle "riproduzioni di volgari torchi", restarono nostalgici cultori degli istoriati e alluminati manoscritti.
Due note qualificarono i tre secoli di Magistero e di condotta pastorale della Chiesa rispetto alla stampa-libro. Una fu la sua ininterrotta apprensione per i contenuti degli stampati: prima nel difendere la fede dai germi di eresia e nell’evitare scandali negli impreparati, specie nell’approccio con le Sacre Scritture; quindi anche per la difesa dai pericoli morali arrecati dalle stampe licenziose. L’altra fu quella di una sua totale disavvertenza rispetto alle mutazioni psico-ecclesiali e socioculturali indotte nei lettori, non tanto dai contenuti dottrinali e morali degli stampati, quanto dalla stessa natura del ‘mezzo-stampa’; puntuale verifica dell’oggi corrente slogan mcluhaniano: "Il mezzo è il messaggio".
Rientrano nella prima nota i primi interventi del Magistero romano sulla stampa. Essi iniziano col breve Accepimus litteras (Doc. 89), col quale Sisto IV, il 17 marzo 1479, approvava e sosteneva la prima misura censoria, praticata dall’Università di Colonia, contro i libri "infetti di eresia". Gli faceva eco, nel 1486, l’ordine Etsi mortalem (Doc. 90), col quale l’arcivescovo di Magonza Bertoldo di Henneberg, dopo avere, anch’egli, definito la stampa "una specie di arte divina", istituiva il primo stabile ufficio diocesano di censura preventiva. E l’anno seguente, il 17 novembre 1487, il Papa Innocenzo VIII ne prendeva occasione per indirizzare a tutta la Chiesa la costituzione Inter multiplices (Doc. 92), che doveva fissare, sino, si può dire, ai nostri giorni, dottrina e prassi della Chiesa sulla stampa, nei suoi tre momenti di produzione, di circolazione e di lettura: 1) rendendo obbligatorio l’esame previo ecclesiastico di tutti gli scritti destinati alla stampa; 2) concedendo il necessario permesso di stampa (Imprimatur) soltanto a quelli non contrari alla religione e alla morale cattolica; 3) comminando pene spirituali e pecuniarie a quanti stampassero, leggessero o detenessero presso di sé libri contravvenenti a dette disposizioni; 4) disponendo la distruzione, normalmente col fuoco, degli stessi.
Si stabilì così per la stampa una normativa che – allora e poi, applicata anche da ‘Principi’ secolari – rispondeva a una visione di vita tutta medievale, tanto della cattolicità quanto della singola persona umana. Gli uomini di Chiesa non avvertirono che l’invenzione di Gutenberg andava rapidamente accentuando le differenze irreversibili tra cultura-civiltà della parola parlata (dalla cattedra e dal pulpito), fondata sul rapporto autoritativo tra docente e discente, e cultura-civiltà della parola stampata (e si arriverà al libero esame), caratterizzata dal rapporto diretto e libero tra individuo e veicolo culturale. Perciò continuarono a incentrare ogni attenzione sul ‘libro’, più quale deposito di dottrina codificata che non veicolo di comunicazione; per giunta ignorando prestazioni più duttili e popolari della stampa a livello di lettori meno eruditi. Così, al Manifesto delle 95 tesi e alla predicazione di Lutero risposero con grossi volumi, in latino, destinati a dotti e alle biblioteche; mentre i colportori (credenti riformati impegnati a diffondere la Bibbia) invadevano l’Europa di almanacchi, libelli e fogli volanti (Schriftstücke, Flugblätter...), in tedesco e in altre lingue (si calcola che, Lutero vivente, ne siano stati diffusi non meno di 800.000), ornati, per i meno letterati, con incisioni (A. Dürer) e xilografie satiriche; e mentre Roma insisteva su di un insegnamento cattedratico ad alto livello, di scarso mordente sugli interessi popolari, Lutero, senza dimenticare i dotti, legava le sue dottrine alle informazioni sui fatti del giorno, così facendo presa sui sentimenti e scatenando scontri di opinioni popolari che egli stesso si vide costretto a contenere.
Un altro ritardo psicosociologico riguardo alla stampa l’apparato ecclesiale lo segnò nei secoli XVII e seguenti, contando troppo a lungo sull’efficacia dei suoi sbarramenti censori, anche quando – col diffondersi di umanesimi sempre più agnostici e atei, dell’illuminismo enciclopedico e dei vari liberalismi politici in Europa e in America – ‘libertà di stampa’ finì col significare la legittima, individuale e sociale libertà d’opinione e di espressione. I laici si schierarono per questa libertà (J. Milton, Areopagitica, 1643; J. Locke, Epistola de tolerantia, 1689), strappando ai principi i relativi diritti legali (abolito il Licensing Act in Inghilterra il 18 aprile 1699) e anche costituzionali (il Virginia’s Bill of Rights in America il 12 giugno 1776 e la Déclaration des droits des hommes in Francia il 26 agosto 1789); mentre gli uomini di Chiesa insistettero nel premurarsi esclusivamente dei danni prodotti, e dei pericoli temuti, dalla libertà fatta licenza, insistendo sulle misure proibitive e soppressive, per questo sollecitando, sino a tempi non troppo remoti – l’ultimo, del 1855, è nel concordato di Pio IX con l’Austria (Doc. 201) – l’appoggio del braccio secolare. Condotta che, più o meno consona ai tempi – già nel Cinquecento un gesuita ironizzava: Notabitur Romae, legetur ergo (Ciò che Roma mette all’indice sarà certamente letto) – finì con l’accreditare alla Chiesa la taccia di nemica della libertà e di avversa a ogni progresso. (Libertà e comunicazione).
Oggi, vero ‘segno dei tempi’, resta il silente tramonto dell’Indice dei libri proibiti, per secoli clamoroso. Ventilato e avviato nel Concilio di Trento (Docc. 113 e 115), pubblicato da Pio IV con la bolla Dominici gregis nel 1564 (Doc. 117) – in sostituzione di quello ‘scandaloso’ di Paolo IV (1559; Doc. 111) – ristrutturato e solennemente confermato nel 1753 da Benedetto XIV con la costituzione Sollicita ac provida (Doc. 154), e da Leone XIII nel 1897 con la Officiorum ac munerum (Doc. 275), operante ancora nel Codice di diritto canonico del 1917 (Can. 1396), veniva tout court soppresso nel 1966, appena chiuso il Vaticano II, con una semplice Notificazione dell’allora Congregazione per la Dottrina della fede (cfr. A.A.S. 58, 1966, p. 415).

5. La stampa-giornale

‘Giornale’ propriamente dovrebbe valere: "Quotidiana pubblicazione a stampa, informativa sulle notizie del giorno". Perciò è improprio farne risalire le origini agli Avvisi e Gazzette di Venezia, ai Flugblätter e Zeitungsblätter tedeschi o alle Nouvelles parigine dei secoli XVI-XVII, se non addirittura ai libelli famosi dei Menanti medievali (Doc. 121) o ai romani Acta diurna. In realtà, esso nasce nei primi decenni del secolo XIX, e si espande nel secolo XX, per effetto di due campi d’innovazioni tecnologiche, che hanno mutato le ‘notizie-informazioni’ in merce di largo consumo, nonché in, ormai indispensabili, fattori di convivenza civile (Giornale; Giornalismo). Il primo campo sta nell’accelerata velocità delle comunicazioni, consentita dal telegrafo (aereo di Chappe, 1792, ed elettrico, di Morse, 1835) e dal telefono (di Meucci-Bell, 1852/1876); dalle ferrovie (1825), dalle navi a elica (1843) e dall’automobile (1880); velocità di comunicazione che favorì i servizi delle prime agenzie d’informazione: Bureau (1832) e poi Agence Havas (1835) in Francia, la Reuter (1849) in Germania e poi (1851) in Inghilterra, Stefani (1853) in Italia. L’altro campo sta nelle innovazioni tipografiche: dal torchio a mano di Gutenberg (300 fogli al giorno) a quello meccanico di Stanhope (1807: 250 l’ora); dalla macchina piana di Koenig-Bauer (1811: mille copie orarie) alla rotativa di Richard Hoe (1846: decine di migliaia orarie); infine: dalla composizione a mano alle linotype e monotype di Morghenthaler (1884) e Lanton (1892). (Stampa. A. Tecniche di stampa).
Specie durante i due pontificati di Gregorio XVI (1831-1846) e di Pio IX (1846-1878), la condotta della Chiesa rispetto ai giornali segnò due ritardi, simili a quelli segnati per la stampa di Gutenberg. Infatti si può dire che per un secolo gli interventi romani non avvertirono la novità socioculturale della ‘stampa-giornale’ (nominata per la prima volta quotidiana scripta da Gregorio XVI nel 1845: Doc. 188), ormai divenuta ‘Quarto potere’, in quanto necessario veicolo d’informazione-attualità (secondo Leone XIII: recentiorum factorum narratio: Doc. 221), espressione delle pubbliche opinioni (ancora Leone XIII, nel 1883: opinionum levitas, diversa dalla scitarum selectio: Doc. 233). Ritardo, del resto, segnato anche da ben altre élite culturali, quali gli illuministi ed enciclopedisti francesi, che, infatti – cultori del ‘libro’ quale stabile deposito di cultura e di sapere – sdegnarono di prestare la loro opera al ‘volgare’ giornalismo. "Tutti questi fogli – scrisse D. Diderot – sono il nutrimento degli ignoranti". "Un libro periodico – incalzò J. J. Rousseau – è un’opera effimera, senza merito e senza utilità, la cui lettura, trascurata e disprezzata dai letterati, non serve che a dare alle donne e agli sciocchi vanità senza istruzione".
Altro fatto che spiega la non troppo favorevole accoglienza riservata dal Magistero romano al giornale e al giornalismo fu che i suoi interventi furono quasi sempre occasionati dagli attacchi della stampa anticlericale e miscredente, o dalle intemperanze e deviazioni di quella cattolica. È il caso, per esempio, dei due primi interventi pontifici: le encicliche Mirari vos (Doc. 180) e Singulari vos (Doc. 183), con le quali Gregorio XVI nel 1832 censurava (senza nominarli) F. R. De Lamennais e il suo giornale L’Avenir, e nel 1834 il suo opuscolo Paroles d’un croyant. Di qui la corrente visione pessimista di un Magistero rispetto a un giornalismo visto soltanto quale fonte unica, o quasi, di tutti i guasti pubblici, religiosi e morali, del secolo; anche perché disattento rispetto alle iniziative coraggiose e pionieristiche che pur andarono moltiplicandosi in quegli anni nel campo cattolico.
Le cose volsero alquanto in meglio nei tre pontificati successivi. Leone XIII – che san Pio X qualificherà "primo Papa della stampa" (Doc. 297) – non mancò di denunciare "la sfrenata libertà di stampa con cui uomini amanti di novità si diedero a spargere una moltitudine quasi infinita di giornali, col compito d’impugnare e di mettere in dubbio le eterne norme del vero e del giusto, di calunniare e di rendere invisa la Chiesa" (Doc. 221); ma non si lasciò sfuggire occasione di raccomandare di opporre stampa a stampa in aperto duello tra il bene e il male" (enciclica Etsi nos, del 1882: Doc. 229), d’incoraggiare e fare incoraggiare dagli episcopati il reclutamento e l’opera di giornalisti cattolici – sua è la prima udienza pontificia alla stampa (Doc. 221) – e di promuovere le associazioni, sia locali sia di categoria, suggerendone un pressocché completo codice deontologico.
Sfuggì, però, al Pontefice la nuova reale portata sociale della stampa-informazione, di fatto diventata universale (cum modo, qui ex more universaliter invaluit edendarum, ephemeridum, sit veluti inducta necessitas). Sostanzialmente per lui la buona stampa s’identificò con la stampa religioso-cattolica, predicatoria-apologetica, in difesa della Santa Sede, anche in relazione alla, allora calda, questione romana (cfr. Regolamento de L’Osservatore Romano, del 26 giugno 1861: Doc. 202). Di qui i suoi frequenti richiami a giornali e a giornalisti cattolici per un’intera dipendenza dai vescovi e, in particolare, dal Magistero della Santa Sede; nonché i provvedimenti disciplinari, presi o minacciati, contro giornali cattolici che non vi si attenessero (cfr. Docc. 222, 224, 232).
Nella stessa linea insiste san Pio X. Molti suoi interventi continuano a denunciare la stampa antireligiosa, anticlericale e soprattutto quella infetta di modernismo (cfr. Docc. 300, 301, 306); per opporre a essa la buona stampa, ancora intesa come cattolica, predicatorio-apologetica (Doc. 305), di cui perciò bisognava curare la diffusione (Doc. 308). A modello di questa viene citata La Civiltà Cattolica – che "rivista" era, e non "giornale" (Doc. 314) – e a modello del giornalista cattolico veniva proposto il polemico Louis Veuillot (Doc. 315).
Anche nei numerosi interventi di Pio XI sulla stampa, prevalentemente giornalistica, le denunce dei guasti morali si alternano alle sollecitudini per una buona stampa, quasi sempre: voce del Papa", "arma dell’Azione Cattolica", "Azione Cattolica essa stessa" (Docc. 364, 370, 404...). Tra le sue iniziative: quella della designazione, negli anni 1923-1925, di san Francesco di Sales a patrono dei giornalisti cattolici (Docc. 335, 345), e quella dell’Esposizione Mondiale della stampa cattolica, svoltasi in Vaticano nel 1936 (Doc. 408). Ma si direbbe che nell’antico bibliotecario, cliente della cultura del libro e dei codici, stentino a svanire le prevenzioni umanistiche contro la (pseudo?) cultura dell’informazione, la stampa per lui restando più che altro ‘parola’, ‘arte’ (Doc. 412). Tuttavia, forse per merito di La Croix a Parigi (Doc. 389), nel suo magistero timidamente si fa strada una visione più appropriata del giornalismo (cattolico): "Presentare ai lettori, nella luce della dottrina della Chiesa, i fatti della vita pubblica" (Docc. 396, 397, 401). Toccherà al Vaticano II, col decreto Inter mirifica, precisare che l’informazione, oggi, prima che riguardare il diritto di espressione del giornalista, fa parte del diritto personale-civile del lettore. L’aveva preceduto Pio XII nel 1957 precisando: "Il giornalista si trova a fare opera di verità e di educazione delle menti controllando, presentando e commentando gli eventi del giorno (...). Quest’opera di formazione del lettore rispetto alla molteplicità e diversità delle notizie quotidiane è insostituibile e decisiva, dato che caratteristica del giornale è l’essere legato all’attualità e partire dagli eventi che interessano il pubblico" (Doc. 546).
Questo non è che un particolare del, si può dire completo, Magistero romano sulla stampa durante il pontificato di Pio XII (1939-1958), in decine e decine di udienze, congressi e convegni, di editori, librai, critici e soprattutto giornalisti, particolarmente numerosi in Roma nell’immediato dopoguerra. Alcuni congressi dell’UIPC – Roma-1950, sull’opinione pubblica (Doc. 473), Parigi-1954 e Vienna-1957, sulla missione e l’avvenire della stampa cattolica nel mondo (Docc. 509 e 549) – furono occasioni di vere e proprie trattazioni da parte della Segreteria di Stato. Anche alcune ricorrenze vi ebbero risonanza; ad esempio quelle di La Civiltà Cattolica del 1939 e nel 1950 (Docc. 425 e 475), di La Croix nel 1945 (Doc. 452), della Cronique Sociale de France nel 1953 (Doc. 498), di san Giovanni Bosco (1950) patrono dell’Unione Editori Cattolici Italiani (UECI: Doc. 479), di don Alberione, 1957 (Doc. 479).
Il tema più ricorrente è quello della verità e della carità nell’informazione, suggerito specialmente dai danni che una propaganda di falsità e di odio aveva causato, portando alla seconda guerra mondiale; e da quelli che andava minacciando e producendo con l’incrementare invidie e rancori tra popoli. Altro tema ricorrente è quello dell’opinione pubblica; prima, ovviamente, riferita soltanto alla stampa, e poi anche alla radio e alla televisione. E vi abbondano anche riferimenti alla stampa propriamente ‘cattolica’, della quale si rilevano le caratteristiche di buon livello tecnico e soprattutto di fedeltà al Magistero, più che a ‘teologi franchi tiratori’ e di unione nella pluralità. Inoltre per ricostruire la vita cattolica sulle rovine prodotte dalle ideologie atee.
Sul piano internazionale – frutto del Convegno di Roma del 1950 – le tre federazioni delle agenzie, dei giornali e dei giornalisti cattolici costituivano l’UIPC (=Union Internationale de la Presse Catholique). Nel 1957 la Santa Sede ne approvava lo statuto. Nel 1966 cambierà la sua ragione sociale UIPC in UCIP (Union Catholique Internationale de la Presse). Il suo IX Convegno mondiale – Lussemburgo - 1971 – tratterà dell’Opinione pubblica nella Chiesa in termini che solleciteranno una messa a punto da parte della Segreteria di Stato (Doc. 807). (Giornalismo cattolico)

6. Il cinema

Convenzionalmente nato il 28 dicembre 1895, con la proiezione a Parigi del film L’arrivée du train à la gare dei Fratelli Lumière, il cinema venne accolto, tanto dagli scienziati quanto dalle folle, quale stupefacente, mai prima raggiunta, meccanica riproduzione della realtà in movimento. Presto passò anche a linguaggio per immagini di fantasia, ma per spettacoli per lo più volgari, attrazione per fiere paesane e da baracconeperciò ignorati, se non anche spregiati, dalle persone perbene e di cultura, e tali che gli stessi loro autori e attori ne evitavano la vergogna celando i propri nomi. Questo ne spiega il nessun interesse anche da parte della Chiesa. Quale auspicio della sua futura favorevole attenzione, di quel periodo delle origini, in Vaticano resta soltanto il gesto benedicente del vecchio Leone XIII, fissato da una delle due prime macchine da ripresa.
Il primo intervento – si direbbe negativo – del Vaticano sul cinema si ebbe sotto il pontificato di san Pio X. Fra tanta produzione scadente e volgare, se n’era avuta anche di edificante e religiosa, non meno capace di attirare le folle. Tali, ad esempio, le due Passioni di Oberammergau (Lumière: 1896, e americana: 1897), una Processione di Lourdes, dello stesso anno; i due Le Christ marchant sur les eaux (1899) e Jeanne d’Arc (1900), di G. Méliès, un Quo vadis? di Pathé (1902) e una Vita di Gesù (1904) di Zecca; e vari sacerdoti ingenuamente passarono a proiettarli nelle chiese "per favorire la formazione religiosa dei fedeli". Ma il 10 dicembre 1912, un Decreto della Sacra Congregazione concistoriale, confermato dal Papa, vietò "nelle chiese ogni sorta di spettacoli mediante proiezioni o cinematografici".
Durante i pontificati di Pio X e di Benedetto XV, specialmente con l’introduzione del sonoro-parlato (1927), il cinema dall’adolescenza passò all’età adulta, sia come struttura linguistica, sia come organizzazione economico-industriale e successo di pubblico, prima in Francia e in Italia, poi, dopo la prima guerra mondiale, definitivamente negli Stati Uniti (Hollywood), dove così si crearono le condizioni per il più radicale intervento di Pio XI sul cinema.
Le difficoltà di mercato avevano indotto i produttori di Hollywood a toccare il fondo (per allora!) della volgarità e dell’immoralità, a onta del Codice di autocontrollo (Codice Hays) dagli stessi firmato il 17 febbraio 1930 per sfuggire al rischio di una legale censura federale. Riscontrata l’inefficacia di ogni denuncia e opposizione, personale e di gruppi, nel 1934 – con la partecipazione di quattro vescovi e l’incitamento del gesuita padre Daniel Lord – cinque milioni tra cattolici, protestanti ed ebrei (poi saliti a sette e a nove milioni), dettero vita a una Legione dell’onestà (Legion of decency), impegnandosi, con pubblica promessa (Pledge), a boicottare e a far boicottare i film immorali e i cinema che li programmassero.
Toccati pesantemente nei loro interessi, i produttori di Hollywood si affrettarono a reimpegnarsi, avanti ai vescovi, all’osservanza di un nuovo Codice di autocontrollo. Il bel successo fece notizia anche in Roma. Appena due anni dopo, il 29 giugno 1936, Pio XI – che del cinema, en passant, aveva già trattato nelle due encicliche Divini illius Magistri (del 1929) e Casti connubi (del 1930) – dedicò allo stesso tutta un’enciclica: la Vigilanti cura, che – nella prima parte, dottrinaria – iniziava descrivendo appunto ed encomiando la bella impresa dei cattolici americani; passava a rilevare il grande potere, individuale e sociale, nel bene e nel male, del cinema e chiudeva sollecitando tutti, vescovi e fedeli, alla necessaria vigilanza; quindi – nella seconda parte, dispositiva – evidenziata la stretta interdipendenza tra qualità-contenuti dei film, frequenze di spettatori e profitti della produzione – esortava i vescovi: 1) a farsi emulatori della Legion of decency promuovendone la Promessa cinematografica, a questo scopo fornendo tempestive Classifiche morali redatte da appositi Uffici di revisione; 2) a promuovere la produzione di film onesti anche allestendo Sale di cinema cattoliche.
Questa normativa, nel quarantennio seguente ha segnato conferme, sviluppi e riduzioni. I più notevoli sviluppi dottrinali li ha apportati Pio XII con i suoi due Discorsi sul film ideale (21 giugno e 28 ottobre 1955) e con l’enciclica Miranda prorsus (8 settembre 1957). Nei primi precisando le caratteristiche socioculturali del film ideale, in relazione: 1) allo spettatore (persona umana, fruitore di arte, di cultura e di onesta evasione); 2) ai contenuti, rispetto alla verità (nei film d’insegnamento e d’informazione), e alla bontà (nei film d’azione, con particolari cautele in quelli di argomento religioso o trattanti del male morale), e 3) alla Comunità, nei suoi tre momenti di Famiglia, Stato e Chiesa; e nell’enciclica – nella sezione dedicata al cinema nell’ambito più comprensivo dei mezzi ‘audiovisivi’ – rilevandone sviluppo e possibilità morali; cui risponde l’azione pastorale della Chiesa, che agevola la condotta corretta dei fedeli con le qualifiche morali dei film, e richiamando alle proprie responsabilità sia i professionisti (critici, esercenti, distributori, attori, produttori e registi), sia lo stesso Stato e l’opinione pubblica.
Essenziale e preciso – quale conveniva al Magistero solenne di un Concilio, su realtà già allora (e più oggi) in continua evoluzione – è questo paragrafo che il decreto Inter mirifica (1963) dedica al cinema: "Si promuova e si assicuri con tutti i mezzi più efficaci la produzione e la programmazione di film di sano divertimento, di utilità culturale ed artisticamente pregevoli, specialmente quelli adatti alla gioventù. A questo scopo gioverà soprattutto sostenere e coordinare iniziative di produttori e distributori onesti; favorire, con l’appoggio della critica e il conferimento di premi, i film più pregevoli; promuovere e consociare le sale cinematografiche dei gestori cattolici ed onesti" (n. 14). La Communio et progressio riprende e sviluppa, attenta alle innovazioni tecnologiche.
Merita chiudere questa sezione sul cinema accennando alle associazioni e istituzioni ecclesiali relative allo stesso, sul modello e a seguito delle quali si sono istituite quelle degli altri mass media, adottando le proprie prestazioni culturali-pastorali all’evolversi tecnologico degli stessi. a) Sul piano nazionale. Va ricordato, intanto, che in alcuni Paesi, senza interventi di autorità ecclesiali, s’istituirono e operarono centri e servizi cinematografici cattolici. Nel 1936 la Vigilanti cura affidava l’istituzione degli Uffici nazionali ai vescovi, compito prevalente dei quali restava la redazione e diffusione delle classifiche morali dei film. Ma presto compiti e campi si ampliarono. I primi si estesero a tutte le opere e iniziative pastorali concernenti il mondo del cinema. Lo avvertì lo stesso episcopato americano che, l’8 dicembre 1965, alla chiusura del Vaticano II, mutava la trentennale azione sociale della sua Catholic Legion of Decency in quella di Catholic Office for Motion Pictures. E nel 1957, quando gli Uffici nazionali operavano in almeno cinquanta Paesi, la Miranda prorsus poteva rilevare che i vescovi "li avevano istituiti non solo per il cinema, ma anche per la radio e televisione", augurandosi che anche altrove, "gli stessi venissero istituiti senza alcun ritardo (...), facendo capo ad un solo ente, o almeno collaborando a vicenda". E il Vaticano II (Inter mirifica, n. 21) così ne confermava campi (estesi alla stampa) e prestazioni: "Dappertutto vengano istituiti (...) gli Uffici nazionali della stampa, cinema e radio-televisione. Principali compiti dei quali saranno: provvedere che i fedeli si formino una retta coscienza circa l’uso di questi strumenti, ed anche incrementare e coordinare tutte le iniziative dei cattolici in questo settore (...). In ciascuna nazione questi Uffici siano affidati ad una speciale Commissione episcopale". La Communio et progressio (1971), applicativa del Decreto conciliare, non poteva che ricalcarne le disposizioni. Stante, però, la sua – come si vedrà – incerta terminologia, sembra estendere ambiti e interessi degli Uffici a tutta, in genere, la comunicazione umana. Tratta, infatti, di "settore della comunicazione" (nn. 168 e 170), di "arti della comunicazione" n. 171), di "tutti gli strumenti della comunicazione sociale" (n. 169) e, tout court, di "comunicazioni sociali" (n. 165).
b) Sul piano internazionale. Opportunamente l’Inter mirifica, al numero 22, notava e disponeva: "L’azione di questi strumenti si estende oltre i confini delle singole nazioni. Perciò le iniziative nazionali in questo settore si coordinino anche su piano internazionale". Concordava la Communio et progressio trattando delle Associazioni Internazionali Cattoliche (n. 178), e stabilendone compiti e sostegno (nn. 179 e 160). E anche in questa iniziativa il cinema precorreva gli altri mass media. Infatti, negli anni 1926-1928 iniziava all’Aja (Olanda) l’Office, poi, dal 1958, Organisation Catholique Internationale du Cinéma (OCIC); grande merito della quale è stato l’aver occasionato, da parte della Santa Sede – in cinquant’anni di assemblee, convegni, giornate di studio e premi – numerosi interventi sulla pastorale del cinema, di cui ha largamente fruito la pastorale anche degli altri mass media. All’OCIC, come si vedrà, seguiranno, nel 1928: per la stampa l’UCIP e per la radio-televisione l’UNDA.
c) Nella Curia romana. La prima struttura presso la Curia romana concernente i (futuri) mass media risale al 1948, quando, nell’intento di tradurre in realtà la lettera e lo spirito della Vigilanti cura, Pio XII istituiva una speciale Commissione pontificia per la cinematografia didattica e religiosa per la consulenza e la revisione dei film a soggetto religioso e morale. Ma dato l’abuso che si cominciò a fare di film raccomandatiapprovati o condannati ‘dal Vaticano’, di fatto la Commissione si astenne da qualsiasi giudizio morale; e nello Statuto del 1° gennaio 1952 si mutava in Pontificia Commissione per la cinematografia; "organo della Santa Sede per lo studio dei problemi cinematografici che hanno attinenza con la fede e la morale"; e nello Statuto del 16 dicembre 1954 si sviluppava in Pontificia Commissione per il cinema, la radio e la televisione. Prezioso servizio, dalla stessa portato a termine, fu l’elaborazione dell’enciclica Miranda prorsus (1957). Giovanni XXIII, col motu proprio Boni pastoris (22 febbraio 1959) dispose che la Commissione avesse "carattere permanente, quale Ufficio della Sede Apostolica, per l’esame, l’incremento e l’indirizzo delle varie attività del cinema e della radio-televisione (...). Ufficio aggregato alla Segreteria di Stato". I Padri del Vaticano II, dopo aver affermato che "nell’esercizio della suprema cura pastorale in materia di strumenti della comunicazione sociale il Sommo Pontefice disponeva di uno speciale Ufficio della Santa Sede (...), volentieri accogliendone il voto chiesero allo stesso di volerne estendere le funzioni e competenze a tutti gli strumenti della comunicazione sociale, compresa la stampa". Nel 1964, Paolo VI accoglieva questo voto. Col motu proprio In fructibus multis (Doc. 6464) ne mutava il titolo in Pontificia Commissione per (gli strumenti del) la comunicazione sociale, affidandole, "per quanto concerne gli interessi della religione cattolica, i problemi relativi al cinema, alla radio e alla televisione, nonché alla stampa quotidiana e periodica"; affidandole, oltre ai compiti già fissati dalla Boni pastoris (1959), l’esecuzione delle direttive e delle norme del Vaticano II, "tra le quali quella di attuare la pubblicazione dell’Istruzione pastorale Communio et progressio (1971).
La riforma della Curia romana attuata dallo stesso Paolo VI nel 1967 con la costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae (Doc. 733) confermava la speciale competenza della Segreteria di Stato, d’intesa col Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, sulla "Pontificia Commissione per (gli strumenti del) la comunicazione sociale"; Commissione che Giovanni Paolo II, con la costituzione apostolica Pastor bonus, del 20 novembre 1982, ha qualificato Pontificio Consiglio; compito del quale resta "occuparsi delle questioni che riguardano gli strumenti della comunicazione sociale, affinché anche per mezzo di essi il messaggio della salvezza e l’umano progresso possano servire all’incremento della civiltà e del costume", con particolare attenzione "alla celebrazione della giornata delle comunicazioni sociali" (Artt. 168, 170).

7. La radio e la televisione

Dallo stadio sperimentale dei primi del secolo XX, negli anni Venti la radio passava a servizio durevole di comunicazione massiva. Pio XI nominò la ‘radiofonia’ la prima volta nel 1928 (Doc. 366); e nella Divini illius Magistri, del 1929 (Doc. 366), trattò delle "radiophonicae auditiones" quali "mezzi di divulgazione, occasioni di naufragi religiosi e morali" e, insieme, "di grandi possibilità nell’istruzione e dell’educazione". Schema-confronto tra rischi e vantaggi ricorrente in altri suoi interventi sulla radio.
In argomento, due vicende particolari ricordano il suo pontificato. La prima riguarda la trasmissione via-radio delle funzioni liturgiche, vietata nel 1927-28 dal Sant’Uffizio (Docc. 356 e 362) e nel 1936 dalla Sacra Congregazione dei Riti (Doc. 420). L’altra riguarda la Radio Vaticana, inaugurata, presente Guglielmo Marconi, il 12 febbraio 1931; dalla quale Pio XI poté trasmettere il messaggio Audite Coeli realmente Urbi et orbi...: usque ad ultimum terrae.
Da notare, però, che egli vide la Radio Vaticana più che altro quale microfono e cattedra sua personale; e vide la radio in genere quale sussidio di predicazione e campo di Azione Cattolica, e non strumento, in pieno senso, di comunicazione umana. A riprova: quando, nel 1934, il Bureau Catholique International de la radio (poi UNDA), organizzando programmi radio-religiosi per le missioni, si rivolse alla Radio Vaticana, il direttore padre Filippo Soccorsi s.j. poteva rispondere che quella non era una stazione radio nel senso corrente, ma esclusivamente La voce del Papa; e lo stesso Pio XI, l’ultima volta che trattò della radio (Doc. 419) la qualificò "un campo classico, magnifico per l’Azione Cattolica [...]. In omnem terram exivit sonus eorum è il primo annuncio vero e proprio che si riferisca all’apostolato da diffondersi e da spargersi in tutto il mondo, e perciò all’apostolato proprio della radio".
Intanto, seguendo i primi esperimenti pubblici degli anni 1928-32, anche la televisione diveniva pubblico servizio regolare, statale in Inghilterra nel 1936, e commerciale negli Stati Uniti nel 1942, per maturare in successi tecno-socio-culturali dopo la seconda guerra mondiale, passando, tra l’altro, alle immagini a colori e alla registrazione su nastro (Videoregistratore; Ampex) nel 1952-53, all’eurovisione e alla mondovisione nel 1954-62. Anche Pio XII ne fu personalmente coinvolto. Nel marzo-aprile 1949 compare – ripreso, e non in diretta – sugli schermi degli Stati Uniti (Doc. 469) e poi francesi (Doc. 470). Presto la trasmissione della Messa, ormai già permessa e promossa per radio (cfr. Docc. 477 e 507), lo divenne anche per televisione (Doc. 547), dopo le pionieristiche Messe di mezzanotte del Natale 1948: a Parigi e – a distanza di sei fusi orari – a New York (Doc. 470). Nella Pentecoste (6 giugno) del 1954 seguiva la prima Messa papale in diretta in Eurovisione (Doc. 512): 25 milioni di persone, contando i ‘presenti’, ne seguirono l’omelia in cinque lingue. Dello stesso Pio XII vanno ricordate anche due iniziative: quella di aver esteso, dal 1954, le competenze della Pontificia Commissione dalla Cinematografia anche alla Radio e alla Televisione, e quella di aver designato, nel 1958, santa Chiara d’Assisi a Patrona della televisione (Doc. 553).
Nota caratteristica del Magistero di Pio XII – perciò facendo apporto al Vaticano II – è stata la sua apertura ai più vasti campi e argomenti, e la sua sistematica completezza nel trattarli. Questo anche rispetto alla radio e alla televisione. Non è quindi possibile presentare la massa dei suoi interventi. Basti notarne i due motivi più ricorrenti, secondo il consueto schema ‘rischi-speranze’: da una parte gli immensi vantaggi culturali-umani dei nuovi strumenti e i loro innegabili pericoli e danni; dall’altra le loro altrettanto immense possibilità specificamente cattoliche e pastorali. E vi spicca anche il loro primo insistere piuttosto sull’autocontrollo dei recettori (Doc. 437) – quindi da formare tempestivamente (Doc. 506) – a preferenza di azioni di arginamento esterne, quali quelle tentate dalla Curia romana con le tre Circolari-istruzioni per fedeli, seminaristi e religiosi dal 1957 (Docc. 543, 544 e 545).
Di particolare rilievo restano ancora tre suoi interventi. Tale è l’esortazione I rapidi progressi da lui rivolta all’episcopato italiano il 1° gennaio 1954 (Doc. 506), quando "anche in Italia la televisione stava per iniziare le sue regolari trasmissioni". Dopo cinquant’anni di esiti allora imprevedibili non sorprende riscontrarvi eccessi: di benefici auspicati (il televisore ricostituente del focolare domestico?), di rischi temuti (prevalenti quelli dei film ritrasmessi in Tv?) e di (ancora praticabili?) segnalazioni morali (prescrittive od orientative?) dei programmi da parte degli Uffici Nazionali. Vi perdura, invece, sempre attuale la necessaria formazione specifica dei telespettatori. E anche più rilevante resta la Lettera della Segreteria di Stato alla 42ma Semaine Sociale de France (Nancy-1955) su Les techniques de diffusion dans la civilisation contemporaine (Doc. 525), che, "senz’avventurarsi nella discussione dei problemi particolari della stampa, del cinema, della radio o della televisione (...), tratta tutti gli aspetti essenziali comuni a tali diverse tecniche (...), così costituendo uno dei primi studi d’assieme condotti su questo argomento dei cattolici francesi" e, tout court, nella Chiesa; quindi prezioso avvio – come si vedrà – alla terminologia e alla visione d’assieme dell’Inter mirifica.
E soprattutto resta notevole l’enciclica Miranda prorsus, dell’8 settembre 1957 (Doc. 547), vera summa del preconciliare Magistero sui mass media quali strumenti di comunicazione, ignorando però la stampa. Avendone qui già presentato la parte riguardante il cinema, restano da presentare la parte prima, generale, e le due particolari, che riguardano la radio e la televisione. Dopo un’ampia introduzione sullo sviluppo del Magistero, parallelo a quello tecnico-sociale degli strumenti di comunicazione, la parte generale propone le grandi linee della dottrina cristiana sulla comunicazione, rispetto: al suo soggetto, ai principi e gli errori che ne riguardano la libertà, i compiti dei pubblici poteri e dei ceti professionali. Quindi passa alla comunicazione con i mezzi audiovisivi, notandone le caratteristiche e le funzioni (d’informazione, d’insegnamento e d’intrattenimento), le qualità e l’opera culturale, religiosa e morale della Chiesa. Nella parte specifica, prima, per la radio tratta di: sviluppi e possibilità umane, doveri dei recettori, programmi religiosi e radio cattoliche e compiti degli operatori; quindi, in parallelo, per la televisione: delle caratteristiche e doveri, dei programmi religiosi, della tutela della famiglia e della gioventù, con relative responsabilità, difficoltà da superare e compiti degli educatori.

8. Dall’Inter mirifica alla Communio et progressio

Oggi, in sintesi, la normativa dottrinale e pastorale della Chiesa sui (già detti) mass media si rifà soprattutto a due documenti: il Decreto Inter mirifica, approvato dal Vaticano II l’8 dicembre 1963 (Doc. 638) e l’istruzione pastorale Communio et progressio, redatta e pubblicata dalla Pontificia Commissione per le comunicazioni sociali il 24 maggio 1971 (Doc. 304). Merita esporne gli schemi e i differenti (e discussi) livelli magisteriali.
Non legato, né discorsivo, il testo dell’Inter mirifica si compone di 24 veri e propri articoli a sé stanti, e non di semplici capoversi. I quali si dispongono in uno schema simmetrico in quattro gruppi: 2 + 10 + 10 + 2. I primi due articoli dell’Introduzione fissano l’ambito e la terminologia dell’argomento (art. 1) e spiegano perché la Chiesa se ne interessi. Segue il primo gruppo di 10, che forma il Capitolo I, a carattere prevalentemente dottrinale. Affermato il compito nativo della Chiesa anche di insegnare in questo settore specifico (art. 3), il Decreto ricorda ed enuncia la norma generale della moralità (art. 4) e l’applica a tre questioni "particolarmente discusse": il diritto all’informazione (art. 5), i rapporti tra arte e morale (art. 6) e la trattazione del male morale (art. 7). Passa quindi a considerare i doveri: innanzi tutto quelli che riguardano tutti indistintamente i membri della società rispetto alle pubbliche opinioni (art. 8); quindi quelli dei recettori (art. 9), dei giovani e dei genitori (art. 10), dei promotori e, finalmente, quelli spettanti alla pubblica autorità. L’altro gruppo di dieci articoli forma il Capitolo II, a carattere prevalentemente normativo-pratico. Inizia con l’azione pastorale complessiva della Chiesa in questo settore (art. 13), segue un’esemplificazione sommaria delle iniziative dei cattolici (art. 14): e questo è l’unico articolo del Decreto che tratta dei singoli strumenti. I due seguenti, 15 e 16, trattano rispettivamente della formazione dei promotori e dei recettori, mentre gli art. 17 e 18 s’interessano delle risorse tecnico-economiche e della Giornata mondiale. Il Capitolo II termina trattando delle istituzioni ecclesiastiche a tutti i livelli: della Santa Sede (art. 19), diocesano (art. 20), nazionale (art. 21), internazionale (art. 22). I due articoli della Conclusione ordinano la pubblicazione di un’Istruzione pastorale applicativa del Decreto (art. 23) ed esortano all’impegno tutti gli uomini di buona volontà.
Ben più diffusa, la Communio et progressio si sviluppa, per 187 numeri, in tre parti. Nella prima tratta degli strumenti della comunicazione sociale nella visione cristiana: elementi dottrinali. Argomento della seconda sono gli strumenti di comunicazione e il progresso umano. Nel suo primo capitolo tratta dell’influsso degli stessi nella società umana (opinione pubblica, diritto all’informazione, insegnamento e cultura, attività artistica, pubblicità) e, nel secondo capitolo, delle condizioni ottimali per un’azione efficace (formazione, possibilità e doveri, collaborazione). Seguono i tre capitoli della parte III: sull’attività propria dei cattolici, prima in genere e nella vita della Chiesa, poi mirata ai singoli strumenti (stampa, cinema, radio-televisione e teatro); infine trattando delle strutture: uffici e associazioni, personali e organici. Conclude con una fiduciosa visuale sul promettente futuro.
Nell’opinione corrente, ecclesiale e laica, i due documenti hanno riscosso, e detengono, valutazioni diverse e opposte. Sul Decreto conciliare hanno gravato riserve, critiche e anche aperte condanne, sino a qualificarlo "un infortunio del Concilio". In particolare, in Francia si è detto carente – quasi che, in qualche parte del mondo, ne esistesse qualche sintesi – "di contenuto teologico, di approfondimento filosofico e di fondamento sociologico"; perciò meritevole dei Non placet – ben 503 e 164 – riportati nelle sue due ultime votazioni in Aula; quindi necessitante – per sua stessa ammissione (n. 23) – di una suppletiva Istruzione pastorale. La quale, una volta pubblicata, dalla stessa opinione corrente è stata nominata Magna Charta del magistero della Chiesa sulla comunicazione sociale.
A far chiarezza, valgano alcune messe a punto. Intanto va precisato che l’insieme dei (cosiddetti) mass media non si prestava affatto a un apposito, solenne e durevole, documento conciliare. Perché: 1) incerta, e anche discussa (tra apocalittici e integrati), restava la stessa accezione del sintagma; 2) non c’era concordia nel ritenere quanti e quali media rientrassero nello stesso; 3) in ogni caso, nel loro insieme, essi ancora si trovavano in fase di celere evoluzione tecno-socio-culturale; mentre 4) rispetto ai singoli media, anche nella Chiesa se, – come s’è visto – si erano raggiunti sufficienti sviluppi dottrinali e istituzionali, al tempo del Decreto ancora si era lontani da complete visioni d’insieme. Ciò spiega, tra l’altro, la diffusa incompetenza specifica: a) dei Padri conciliari: dagli stessi manifestata, sia nelle loro modeste risposte e inappropriate proposte nell’ecclesiale inchiesta preconciliare, sia nel numero e qualità dei loro interventi in Aula, sia nelle discordanti motivazioni dei loro Non placet, che più volte hanno rischiato di escludere l’argomento dalle materie conciliari; b) incompetenza anche da parte dei membri dell’apposita Commissione preconciliare e conciliare, non per nulla, prima vagamente intitolata Segretariato della stampa e dello spettacolo, quindi impropriamente aggregata alla X Commissione conciliare Dell’apostolato dei fedeli; della stampa e degli spettacoli.
A riscontro, valgano due rilievi. Il primo riguarda l’originale qui pro quo che portò i mass media tra le materie del Concilio. Consta, infatti, che su sollecitazione di monsignor Martin J. O’ Connor, allora presidente della Pontificia Commissione per il cinema, la radio e la televisione, il cardinale Alfredo Ottaviani, suo amico, propose a Giovanni XXIII d’introdurre l’argomento nel Concilio. Il Papa assentì. E nel motu proprio Superno Dei nutu, del 30 maggio 1960, dopo l’elenco delle dieci Commissioni Conciliari, al numero otto disponeva: "Inoltre, viene istituito un Segretariato per trattare i problemi attinenti ai moderni mezzi di divulgazione del pensiero: stampa, radio, televisione, cinema, ecc." (Doc. 579). Ma, come comprovano anche i termini "per trattare i problemi attinenti", la sua idea originaria era quella di un organismo incaricato di assistere, durante il Concilio, i giornalisti e, in genere, il mondo dell’informazione; Segretariato analogo a quello per i fratelli separati, incaricato di assistere i loro ‘Osservatori’ nei lavori del Concilio. Si deve alla sua solerte iniziativa se un primo testo da esso redatto poté essere incluso nel volume degli Schemi da trattare in Aula.
L’altro rilievo riguarda le competenze degli stessi redattori, tanto del Decreto quanto dell’Istruzione: quasi tutti pastoralmente o professionalmente impegnati nell’uno o nell’altro dei mass media – tali, ad esempio, gli operatori dell’UCIP, dell’OCIC, dell’UNDA o degli Uffici Nazionali; ma quasi nessun esperto, o almeno introdotto, nell’insieme degli stessi. Di qui le comprensibili "deformazioni professionali" con le quali essi hanno approntato i testi, ogni équipe convinta che al proprio medium spettasse la parte più ampia per concedere al complesso dell’umana comunicazione massmediale il minimo sufficiente di spazio per una semplice Introduzione. Con due esiti poco felici: 1) quello di aver approntato, di fatto, non uno, ma (per la loro estensione) ben tre schemi, prima della Costituzione e poi dell’Istruzione; 2) e quello di averne quindi dovuto subire – pur di evitare un definitivo rigetto – radicali amputazioni: l’Inter mirifica ridotta, da 114 numeri e dalle 998 righe dell’originaria Costituzione ai 24 numeri e alla 277 righe del restante Decreto, e la Communio et progressio che, degli attuali suoi 187 numeri, ne vede soltanto 26 riservati ai singoli ‘strumenti’.
Ciò premesso, pur indubbi restando i suoi limiti, originati dall’essere stato proposto e trattato sugli inizi, e non a Concilio inoltrato, il Decreto non risulta affatto, com’è stato tacciato, "vacuo, banale e privo d’ogni novità". Intanto si tratta pur sempre di un documento conciliare, approvato da 1960 Padri, "nel nome della santissima e individua Trinità", e dal Papa Paolo VI presentato quale "frutto di non poco valore del nostro Concilio"; e la supposizione dei suoi detrattori, che cioè lo stesso potesse e dovesse dire molto di più in argomento, essendo del tutto infondata: 1) perché, per espressa volontà del Concilio, il documento doveva limitarsi ai soli principi dottrinali essenziali e alle sole normative pastorali più generali; 2) perché, in ogni caso, lo stesso non poteva andare oltre le non molte formulazioni dottrinali e normative che, già acquisite dal Magistero preconciliare rispetto ai singoli media – ad esempio, come si è visto, rispetto al solo cinema – risultassero estensibili anche all’insieme degli stessi.
In quanto, poi, a novità, non è vero che il Decreto ne manchi. Infatti esso, come si è visto: 1) per la prima volta nel Magistero della Chiesa tratta di tutti insieme i mass media come un unicum socioculturale e pastorale, e 2) lo connota con un’innovata terminologia, che ne precisa gli appartenenti e ne caratterizza la (loro) comunicazione propriamente socializzante riportandola alla specifica tecnicità (= instrumentum); 3) nuova vi è, di conseguenza, la proposta di estendere l’ambito della Pontificia Commissione anche alla stampa (n. 19), poi subito attuata – come si è visto – da Paolo VI con l’In fructibus multis del 1964 (Doc. 646); 4) nuova, inoltre, in dottrina è l’affermazione apodittica del diritto all’informazione (artt. 5 e 12), termine e realtà sociale allora ignorata persino in solenni Dichiarazioni e Costituzioni civili, e tuttora assente nella stessa Costituzione italiana; 5) nuovi sono: l’affermazione sulla dinamica delle pubbliche opinioni (art. 8), la consegna ai vescovi di ritenere questi strumenti quali fattori "strettamente connessi col loro dovere ordinario di predicazione" (art. 13), e di farne materia d’insegnamento nelle scuole d’ogni grado, e anche nella catechesi ordinaria (art. 16); infine, 6) nuova è l’indizione di una Giornata mondiale (art. 18) fissata – non si sa quanto opportunamente, addirittura da un Concilio ecumenico; la quale, tuttavia, nelle sue trentacinque celebrazioni (anni 1967-2001) ha occasionato altrettanti messaggi pontifici, su tutti ormai, si può dire, i problemi culturali e religiosi, etici e morali, personali e sociali, connessi con lo sviluppo e uso degli ‘strumenti’.
Alcune precisazioni giovino a valutare secondo verità anche la Communio et progressio, con molta enfasi giornalistica conclamata "la Magna Charta" magisteriale sull’argomento. Lo è senz’altro se ci si riferisce alla sua estensione, superiore a quella, già copiosa, della Miranda prorsus. Come senz’altro ne va apprezzato il ricco contenuto, trattando essa – nella scia dell’Inter mirifica – dell’insieme dei mezzi e strumenti, e svolgendo con insolito impegno e volenteroso ottimismo, temi vitali di deontologia professionale, di prassi pastorale e di condotta personale, relativi agli stessi. Ne traviserebbe però natura spirito e portata chi la celebrasse quale fonte e sintesi autosufficiente di tutto il Magistero pre- e post conciliare. (Cattolici e mass media).

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Come citare questa voce
Baragli Enrico , Chiesa e comunicazione - A. Fino al Vaticano II, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (21/12/2024).
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