Comunicazione (etimologia)
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Autore: Remo Bracchi
Il termine c. è penetrato nella lingua italiana per via dotta. Il senso specifico di ‘partecipazione di una notizia’ è, nella nostra lingua, di attestazione moderna. Nel francese è testimoniato invece già a partire dal secolo XIV. Le accezioni del tempo antico sembrano riferite a oggetti più concreti. La voce c. (con la variante arcaica communicazione, più vicina all’originale latino) si usò inizialmente per indicare la ‘trasmissione di una qualità, un’energia, un movimento’, il ‘mettere in comune’ da parte di un soggetto di una sua proprietà, carica, privilegio, attribuzione, perché diventasse dote anche di altri. Da questo valore si è sviluppato, in seguito, quello più specifico di ‘trasmissione, diffusione di un pensiero, del risultato di una ricerca, di una notizia’ (GDLI 3, 446-447).
La parola latina che sta alla base è costruita sul verbo communicare, per mezzo della terminazione -atio, che forma nomi astratti di azione (nomina actionis). Il significato originario si riduce dunque a quello di actio communicandi, partecipatio e, solo metonimicamente, cioè per allargamento all’effetto di ciò che appartiene alla causa, id quod communicatur, quindi ‘l’oggetto stesso che viene condiviso’. Meno comunemente il termine giunse anche a designare una communio o societas (riproducendo la trafila semantica del termine greco koinonía, che rimase nella coscienza dei dotti come punto costante di riferimento culturale).
Anche in latino il valore più antico è concreto, di ‘partecipazione di una cosa o di una qualità’. Non mancano tuttavia anticipazioni di communicatio nel senso di ‘trasmissione di un pensiero o di un sentimento’ attraverso parole scritte o pronunciate. Cicerone così si confida: "Sermonis communicatio mihi suavissima tecum solet esse" (Epistulae ad Atticum 1, 17,6).
Una larga diffusione assunse la voce nel linguaggio cristiano, a partire da una citazione di san Paolo, secondo il dettato dell’antica traduzione latina Itala: nulla...communicatio Christi cum Belial (greco symphónesis, Vulgata societas; in 2 Corinti 6,15, ricavata da S. Ambrogio, De Cain et Abel 2,4,16). In un’altra pericope della versione della Vulgata sempre della stessa lettera paolina ai Corinti leggiamo: "Communicatio (greco koinonía) sancti Spiritus sit cum omnibus vobis" (2 Corinti 13,13).
Nel primo caso potremmo tradurre la voce latina con ‘compromesso, connivenza’ quindi ‘partecipazione’ ma in accezione negativa, ‘condivisione’ che si deve evitare. Il secondo esempio è invece fortemente pregnante e indica insieme l’Amore personale di Dio comunicato ai fedeli e l’amore diffuso tra di essi come vincolo e glutine di intesa profonda (TLL 3,1968 ss.).
L’aggettivo latino communis, che sta alla base del verbo commun-ic-are (attraverso un derivato anch’esso aggettivale in -icus, come publ-icus, domin-icus, attestato solo nell’osco muin-ikul), è composto dalla preposizione com- (cum) e dall’aggettivo semplice munis, che vale già al suo comparire ‘svolgente un compito, un incarico’. Afferma infatti Paolo Festo: "munem significare certum est ‘officiosum’; unde e contrario im-munis dicitur qui nullo fungitur officio" (127,7).
Ma, da parte sua, im-munis può ricoprire una duplice accezione, quella cioè di ‘esente da impegno (pubblico)’ e quella di ‘in-grato’, a motivo del duplice valore del sostantivo munus ‘carica, ufficio’, e ‘dono’, dal quale, come ancora si aveva coscienza, è stato tratto.
Il composto com-munis (in tempo arcaico co-moin-em, acc.), dovette valere, alla sua origine, ‘che condivide una carica’, o ‘che subentra insieme in un’autorità’, sensi che tuttavia non ci sono attestati. Dalla sua apparizione scritta, com-munis vale ‘comune’, ‘condiviso’, in opposizione a proprius, e fu sentito come parallelo, per il dispiegarsi del suo spettro semantico, al greco koinós ‘comune’, di altra provenienza etimologica, benché vagamente allitterante. In Terenzio troviamo la scultorea affermazione: "communia esse amicorum inter se omnia" (Ad. 804). Potremmo tradurre "tutte le cose sono condivise, compartecipate, scambiate reciprocamente, senza che nessuno degli amici possa rivendicare alcunché come sua gelosa proprietà". L’aggettivo ebbe un largo impiego nell’uso grammaticale, giungendo gradatamente al senso di ‘partecipe di due proprietà contemporaneamente’, in modo da non poter essere collocato con esattezza in nessuna categoria definita e quindi di ‘neutro’: genus commune ‘genere neutro’, cioè ‘né maschile né femminile’, syllaba communis ‘ancipite, né lunga né breve’, verbum commune ‘che condivide la diatesi attiva e quella passiva’. Nella retorica si usò locus communis nello stesso senso che è stato trasmesso a noi di ‘tropo’, mentre nel linguaggio quotidiano la medesima locuzione fu piegata a indicare il ‘postribolo’ dove tutti vengono livellati sul gradino più basso o ‘l’altro mondo’ come destinazione alla quale tutti inderogabilmente sono incamminati.
Dal valore più generale di ‘comune’, ‘che viene condiviso, partecipato a tutti’, si è sviluppata un’accezione positiva di ‘benevolo’, come troviamo per esempio in Cornelio Nepote ("communis infirmis, par principibus"; Att 3,1) e parallelamente una negativa di ‘mediocre, volgare’, proprio perché ‘alla portata di tutti’ e, nel linguaggio ecclesiastico, quella di ‘impuro, contaminato’ (anche in questa evoluzione quale calco semantico del greco koinós).
Una formazione affine per etimologia e per sviluppo di contenuto è rappresentata dal gotico ga-main-s ‘comune’ (Feist, 190-191), ted. ge-mein ‘comune’ (Kluge-Mizka, 246).
Il verbo com-mun-icare, in senso assoluto e transitivo, fu adottato dalla Chiesa nell’accezione di ‘offrire il pasto (sacro) della sera’ preso in comune, poi in quella rituale di ‘distribuire la Comunione’. Il composto con la preposizione separativa ex-communicare significò, da questo momento, ‘l’escludere dalla partecipazione all’Eucaristia’.
Per cogliere più in profondità il senso sorgivo della parola, bisogna ora ritornare al sostantivo neutro munus, -neris nella sua duplice accezione di ‘incarico (pubblico)’ e di ‘dono’. Un arcaico plurale moenera (Lucrezio) ci assicura che la -u- lunga rappresenta una riduzione fonetica di un più antico dittongo (oe, prima ancora oi), osservazione che risulterà importante per la comparazione linguistica. Così abbiamo in latino Poenus, Poen-icus e Pun-icus, moenio e munio, moe-nia e mu-rus, antico oinos divenuto unus.
Secondo Paolo Festo, molto attento alle risultanze linguistiche, "munus significat (officium) cum dicitur quis munere fungi. Item ‘donum’ quod officii causa datur" (125,18). Il senso di ‘dono che si offre’ (e non di ‘dono che si riceve’) è secondario, ma frequente nelle testimonianze.
Poiché una delle incombenze principali del magistrato era quella di provvedere agli spettacoli, munus ha spesso coagulato intorno al suo nucleo originario il valore traslato di ‘rappresentazione, gioco offerto al pubblico, combattimento di gladiatori’. In epoca imperiale munerarius valse perciò, con specializzazione restrittiva, ‘relativo agli spettacoli gladiatori’ e munerator fu ‘colui che li donava’ (DELL 422). Si tratta del più antico abbinamento di questa famiglia etimologica col mondo dello spettacolo. Fortunatamente non esiste continuità in linea diretta tra quel senso specifico e quello delle nostre ‘comunicazioni sociali’.
Il legame tra i due valori riscontrati in munus è approfondito da E. Benveniste. Si chiede lo studioso: "Ma come associare l’idea di ‘carica’ espressa da munus con quella di (‘dono’, prima ancora di) ‘scambio’ indicata dalla radice? Festo ci mette sulla strada definendo munus come ‘donum quod officii causa datur’. Si designano in effetti con munus, nei doveri del magistrato, gli spettacoli e i giochi. La nozione di ‘scambio’ vi è implicita. Nominando qualcuno magistrato, gli si offrono vantaggi e onore. Questo lo obbliga a sua volta a controprestazioni, sotto forma di spese, in particolare per gli spettacoli, che giustificano così questa ‘carica ufficiale’ come ‘scambio’. Si capisce meglio allora l’accostamento gratus et munis (Plauto, Mercator 105) e il senso arcaico di im-munis come ‘ingrato’, cioè ‘chi non rende il beneficio ricevuto’. Se munus è un ‘dono che obbliga a uno scambio’, im-munis è ‘colui che non tiene fede a quest’obbligo di restituire’. Questo è confermato in celtico dall’irlandese moin (main) ‘oggetti preziosi’, dag-móini ‘i doni, i benefici’ (LEIA, M 59-60). Di conseguenza, com-munis non significa ‘chi condivide le cariche’, ma propriamente ‘chi ha in comune dei munia’. Ora, quando questo sistema di compensazione gioca all’interno di una stessa cerchia determina una comunità, un insieme di uomini uniti da questo legame di reciprocità" (Benveniste, 1,71-72).
Dal punto di vista strutturale, il sostantivo munus, ant. moenus (da *moi-nos), è formato sul grado vocalico ‘o’ della radice indoeuropea *mei- (*moi-) che denota ‘reciprocità di scambio’, ‘passaggio nelle due direzioni opposte’, e da un suffisso *-nos-, alternante con *-nes- (cfr. mu-nus da *moi-nos di fronte al genitivo muneris da *moi-nes-is), che si ritrova spesso in altre formazioni di carattere sociale, come pig-nus, faci-nus, fu-nus, fe-nus ‘interesse sul prestito, prestito a interesse’, sanscrito rek-nas ‘eredità’ (Meillet, Mémories de la Société de Linguistique, t. XVII).
"Ritornando (ora) ai termini della famiglia etimologica rappresentata in latino da mu-nus, im-munis, com-munis, noteremo in indoiranico un derivato che ha un’importanza considerevole, e una formazione singolare. Si tratta di una personificazione divina, del dio iranico Mi-tra, formato da *mei- nella forma ridotta (cioè *mi-, grado vocalico zero di *mei-/*moi-), con il suffisso -tra-, che serve generalmente per nomi neutrali di strumenti (o per nomi maschili di agenti). In vedico, mi-trá- è di due generi, maschile (Mi-trá-s) come nome di dio, neutro (mi-trá-m) nel senso di ‘amicizia, contratto’ (dunque di ‘scambio’ di diritti e doveri, o di ‘reciprocità di obblighi’). Meillet in un celebre articolo (Journal Asiatique, 1907) ha definito Mitra come una forza sociale divinizzata, come il contratto personificato. Ma ‘l’amicizia’, ‘il contratto’ possono precisarsi nel contesto in cui noi li usiamo: si tratta non dell’amicizia sentimentale, ma del ‘contratto’ in quanto riposa su uno scambio" (Benveniste, 1,72; cfr. KEWA 2,634). Il significato di ‘legame’ sembra secondario e conseguente a quello di ‘scambio che lega i contraenti con doveri di reciprocità’, unendoli quasi tra di loro in una parentela sacrale.
La radice *mei-, senza allargamenti, è presente nel verbo latino meo (da *mei-o) ‘passo da una parte all’altra’, da cui me-atus ‘passaggio (nelle due direzioni)’, com-meatus ‘azione di trasferimento da un luogo a un altro’ (it. com-miato).
Più spesso appare allargata da vari determinativi radicali, con relative specializzazioni semantiche, come è avvenuto nel verbo migro (formato presumibilmente su un aggettivo scomparso con grado radicale zero *mi-g-ro-) e in muto (da *moi-t-o, con determinativo in dentale -t(h)- di larga attestazione). L’idea di reciprocità riaffiora con evidenza nell’aggettivo mutuus e nel composto, strutturalmente affine a quello in esame, com-mutare. I riscontri in altre lingue indoeuropee sono numerosi e semanticamente puntuali: greco moîtos ‘ringraziamento, ricompensa’ (GEW 2, 249); sanscrito mit-ah (avverbio) ‘in alternanza’ con; antico slavo mit-ê (avverbio) ‘in alternanza’; ittita mut-ai- ‘cambiare, trasformarsi’; gotico maid-jan (da *moit-) ‘cambiare’, poi ‘falsificare’, in-maidjan ‘scambiare, barattare’ (Feist 340; Lehmann 240-241); lettone miet-uôt ‘scambiare’, mit-êt ‘cambiare’; gotico maith-ms ‘dono’; antico islandese meid-mar ‘gioiello’; antico slavo misti ‘compensazione’, anche come ‘vendetta’. Il sanscrito mithu- è giunto al valore di ‘falso, menzognero’, procedendo lungo la traiettoria di ‘cambio’, ‘mutazione’, ‘alterazione’ (IEW 1,710). Così l’antico alto tedesco mein vale ‘falso, ingannevole’ e da qui viene estratto il tedesco Mein-eid ‘giuramento falso’. Si ritiene appartenente alla stessa base etimologica anche il verbo greco ameí-b-o ‘cambio’, ‘cambio di luogo’, con a- cosiddetta prostetica e determinativo radicale in -b- da precedente -gw-. Da esso il sostantivo amoibé ‘dono di ritorno’, ‘ricambio come ricompensa’, negativamente ‘punizione’, e, nel linguaggio della rappresentazione drammatica, ‘responsione’ tra due cori. È questo ultimo valore che sta alla base dei canti amebei (DELG 73-74).
Sembra che anche la voce latina se-mita ‘sentiero’, nell’accezione originaria più generica di ‘passaggio’, possa interpretarsi come composta da se-, preposizione separativa, e dalla medesima radice *mei- a grado vocalico zero e con allargamento in dentale *mi-t- (DELL 613). Ugualmente, ma con maggiori perplessità sarà da inserire nel gruppo tra-mes ‘sentiero, strada’ (cfr. il gen. tra-mit-is), e prima ‘cammino di traverso’, con prefisso trans semplificato nel nesso consonantico formatosi in seguito alla composizione (DELL 699).
Il valore fondamentale che sembra aver accompagnato la voce communis già dalla sua formazione e poi costantemente lungo tutta la sua corsa attraverso la storia pare quello di ‘reciprocità’, dunque quello di ‘diffusione incrociata’, di ‘partecipazione in accoglienza e di ritorno’. Il tradimento semantico inizia al momento in cui a comunicare viene attribuito in modo innaturale e forzato il senso di ‘partecipazione secondo una traiettoria unidirezionale’, quasi di ‘imposizione’. All’approfondimento risultano evidenti le incrostazioni determinate dalle sovrastrutture sociologiche e dalle convenienze politiche. Spetta alla riflessione linguistica salvaguardare la propria eredità in una purezza il più possibile trasparente.
Se si vuole riscoprire il senso genuino del comunicare è dunque necessario ritornare all’osmosi bidirezionale. Comunica soltanto chi riceve e partecipa, chi è capace di scambiare il dono (munus) accolto con senso di sacra gratitudine.
Proprio per la corradicalità di com-municatio con munus, l’oggetto della ‘reciprocità’ dovrebbe consistere in qualcosa di accetto a entrambe le parti, di partecipato mutuamente nella consapevolezza del gradimento e nella libertà dell’accettazione. La c. di un pensiero non dovrebbe avvenire se non scaturendo da un ascolto diuturno, maturato a mano a mano nel dialogo, sotto pena di trasformarsi in imposizione o indottrinamento.
E da una recezione rispettosa della realtà dovrebbe sgorgare la c. di una notizia, per non essere inquinata da falsificazione. La verità nasce dall’ascolto e una c. degna di tale nome non dovrebbe veicolare se non la verità umilmente assunta, la realtà divenuta parola e dono di se stessa. Trasmetterla senza averla prima accolta in docile attesa significherebbe alienarla. Anche il senso di ‘falsità’ si è affacciato all’interno della storia linguistica della famiglia di communicatio, ma soltanto quando si intese lo ‘scambiare’ come un semplice ‘cambiare’, cioè un ‘sostituire’, perdendo il valore pregnante del prefisso com-.
Sviluppi più recenti del termine sono ripresi nelle pagine che seguono (Comunicazione).
Sigle dei dizionari citati nella voce | |
---|---|
DELG | CHANTRAINE P., Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Klincksieck, Paris 1968-1980 |
DELL | ERNOUT A. - MEILLET A., Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, Klincksieck, Paris 1967 |
GDLI | BATTAGLIA S. (ed.), Grande dizionario della lingua italiana, UTET, Torino 1961 |
HIDE | MORRIS W., The Heritage illustrated dictionary of the English language, American Heritage Publishing Co., New York 1973 |
IEW | POKORNY J., Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, Francke, Bern-München 1959-1969 |
KEWA | MAYRHOFER M., Kurzgefasstes etymologisches Wörterbuch des Altindischen, C. Winter, Heidelberg 1956-1980 |
LEIA | VENDRYES J., Lexique étymologique de l’irlandais ancien, Dublin Institute for Advanced Studies, Dublin-Paris 1981 |
LEW | WALDE A. - HOFMANN J. B., Lateinisches etymologisches Wörterbuch, C. Winter, Heidelberg 1965 |
TTL | Thesaurus linguae Latinae, B.G. Teubneri, Lipsiae 190 |
Anche in latino il valore più antico è concreto, di ‘partecipazione di una cosa o di una qualità’. Non mancano tuttavia anticipazioni di communicatio nel senso di ‘trasmissione di un pensiero o di un sentimento’ attraverso parole scritte o pronunciate. Cicerone così si confida: "Sermonis communicatio mihi suavissima tecum solet esse" (Epistulae ad Atticum 1, 17,6).
Una larga diffusione assunse la voce nel linguaggio cristiano, a partire da una citazione di san Paolo, secondo il dettato dell’antica traduzione latina Itala: nulla...communicatio Christi cum Belial (greco symphónesis, Vulgata societas; in 2 Corinti 6,15, ricavata da S. Ambrogio, De Cain et Abel 2,4,16). In un’altra pericope della versione della Vulgata sempre della stessa lettera paolina ai Corinti leggiamo: "Communicatio (greco koinonía) sancti Spiritus sit cum omnibus vobis" (2 Corinti 13,13).
Nel primo caso potremmo tradurre la voce latina con ‘compromesso, connivenza’ quindi ‘partecipazione’ ma in accezione negativa, ‘condivisione’ che si deve evitare. Il secondo esempio è invece fortemente pregnante e indica insieme l’Amore personale di Dio comunicato ai fedeli e l’amore diffuso tra di essi come vincolo e glutine di intesa profonda (TLL 3,1968 ss.).
L’aggettivo latino communis, che sta alla base del verbo commun-ic-are (attraverso un derivato anch’esso aggettivale in -icus, come publ-icus, domin-icus, attestato solo nell’osco muin-ikul), è composto dalla preposizione com- (cum) e dall’aggettivo semplice munis, che vale già al suo comparire ‘svolgente un compito, un incarico’. Afferma infatti Paolo Festo: "munem significare certum est ‘officiosum’; unde e contrario im-munis dicitur qui nullo fungitur officio" (127,7).
Ma, da parte sua, im-munis può ricoprire una duplice accezione, quella cioè di ‘esente da impegno (pubblico)’ e quella di ‘in-grato’, a motivo del duplice valore del sostantivo munus ‘carica, ufficio’, e ‘dono’, dal quale, come ancora si aveva coscienza, è stato tratto.
Il composto com-munis (in tempo arcaico co-moin-em, acc.), dovette valere, alla sua origine, ‘che condivide una carica’, o ‘che subentra insieme in un’autorità’, sensi che tuttavia non ci sono attestati. Dalla sua apparizione scritta, com-munis vale ‘comune’, ‘condiviso’, in opposizione a proprius, e fu sentito come parallelo, per il dispiegarsi del suo spettro semantico, al greco koinós ‘comune’, di altra provenienza etimologica, benché vagamente allitterante. In Terenzio troviamo la scultorea affermazione: "communia esse amicorum inter se omnia" (Ad. 804). Potremmo tradurre "tutte le cose sono condivise, compartecipate, scambiate reciprocamente, senza che nessuno degli amici possa rivendicare alcunché come sua gelosa proprietà". L’aggettivo ebbe un largo impiego nell’uso grammaticale, giungendo gradatamente al senso di ‘partecipe di due proprietà contemporaneamente’, in modo da non poter essere collocato con esattezza in nessuna categoria definita e quindi di ‘neutro’: genus commune ‘genere neutro’, cioè ‘né maschile né femminile’, syllaba communis ‘ancipite, né lunga né breve’, verbum commune ‘che condivide la diatesi attiva e quella passiva’. Nella retorica si usò locus communis nello stesso senso che è stato trasmesso a noi di ‘tropo’, mentre nel linguaggio quotidiano la medesima locuzione fu piegata a indicare il ‘postribolo’ dove tutti vengono livellati sul gradino più basso o ‘l’altro mondo’ come destinazione alla quale tutti inderogabilmente sono incamminati.
Dal valore più generale di ‘comune’, ‘che viene condiviso, partecipato a tutti’, si è sviluppata un’accezione positiva di ‘benevolo’, come troviamo per esempio in Cornelio Nepote ("communis infirmis, par principibus"; Att 3,1) e parallelamente una negativa di ‘mediocre, volgare’, proprio perché ‘alla portata di tutti’ e, nel linguaggio ecclesiastico, quella di ‘impuro, contaminato’ (anche in questa evoluzione quale calco semantico del greco koinós).
Una formazione affine per etimologia e per sviluppo di contenuto è rappresentata dal gotico ga-main-s ‘comune’ (Feist, 190-191), ted. ge-mein ‘comune’ (Kluge-Mizka, 246).
Il verbo com-mun-icare, in senso assoluto e transitivo, fu adottato dalla Chiesa nell’accezione di ‘offrire il pasto (sacro) della sera’ preso in comune, poi in quella rituale di ‘distribuire la Comunione’. Il composto con la preposizione separativa ex-communicare significò, da questo momento, ‘l’escludere dalla partecipazione all’Eucaristia’.
Per cogliere più in profondità il senso sorgivo della parola, bisogna ora ritornare al sostantivo neutro munus, -neris nella sua duplice accezione di ‘incarico (pubblico)’ e di ‘dono’. Un arcaico plurale moenera (Lucrezio) ci assicura che la -u- lunga rappresenta una riduzione fonetica di un più antico dittongo (oe, prima ancora oi), osservazione che risulterà importante per la comparazione linguistica. Così abbiamo in latino Poenus, Poen-icus e Pun-icus, moenio e munio, moe-nia e mu-rus, antico oinos divenuto unus.
Secondo Paolo Festo, molto attento alle risultanze linguistiche, "munus significat (officium) cum dicitur quis munere fungi. Item ‘donum’ quod officii causa datur" (125,18). Il senso di ‘dono che si offre’ (e non di ‘dono che si riceve’) è secondario, ma frequente nelle testimonianze.
Poiché una delle incombenze principali del magistrato era quella di provvedere agli spettacoli, munus ha spesso coagulato intorno al suo nucleo originario il valore traslato di ‘rappresentazione, gioco offerto al pubblico, combattimento di gladiatori’. In epoca imperiale munerarius valse perciò, con specializzazione restrittiva, ‘relativo agli spettacoli gladiatori’ e munerator fu ‘colui che li donava’ (DELL 422). Si tratta del più antico abbinamento di questa famiglia etimologica col mondo dello spettacolo. Fortunatamente non esiste continuità in linea diretta tra quel senso specifico e quello delle nostre ‘comunicazioni sociali’.
Il legame tra i due valori riscontrati in munus è approfondito da E. Benveniste. Si chiede lo studioso: "Ma come associare l’idea di ‘carica’ espressa da munus con quella di (‘dono’, prima ancora di) ‘scambio’ indicata dalla radice? Festo ci mette sulla strada definendo munus come ‘donum quod officii causa datur’. Si designano in effetti con munus, nei doveri del magistrato, gli spettacoli e i giochi. La nozione di ‘scambio’ vi è implicita. Nominando qualcuno magistrato, gli si offrono vantaggi e onore. Questo lo obbliga a sua volta a controprestazioni, sotto forma di spese, in particolare per gli spettacoli, che giustificano così questa ‘carica ufficiale’ come ‘scambio’. Si capisce meglio allora l’accostamento gratus et munis (Plauto, Mercator 105) e il senso arcaico di im-munis come ‘ingrato’, cioè ‘chi non rende il beneficio ricevuto’. Se munus è un ‘dono che obbliga a uno scambio’, im-munis è ‘colui che non tiene fede a quest’obbligo di restituire’. Questo è confermato in celtico dall’irlandese moin (main) ‘oggetti preziosi’, dag-móini ‘i doni, i benefici’ (LEIA, M 59-60). Di conseguenza, com-munis non significa ‘chi condivide le cariche’, ma propriamente ‘chi ha in comune dei munia’. Ora, quando questo sistema di compensazione gioca all’interno di una stessa cerchia determina una comunità, un insieme di uomini uniti da questo legame di reciprocità" (Benveniste, 1,71-72).
Dal punto di vista strutturale, il sostantivo munus, ant. moenus (da *moi-nos), è formato sul grado vocalico ‘o’ della radice indoeuropea *mei- (*moi-) che denota ‘reciprocità di scambio’, ‘passaggio nelle due direzioni opposte’, e da un suffisso *-nos-, alternante con *-nes- (cfr. mu-nus da *moi-nos di fronte al genitivo muneris da *moi-nes-is), che si ritrova spesso in altre formazioni di carattere sociale, come pig-nus, faci-nus, fu-nus, fe-nus ‘interesse sul prestito, prestito a interesse’, sanscrito rek-nas ‘eredità’ (Meillet, Mémories de la Société de Linguistique, t. XVII).
"Ritornando (ora) ai termini della famiglia etimologica rappresentata in latino da mu-nus, im-munis, com-munis, noteremo in indoiranico un derivato che ha un’importanza considerevole, e una formazione singolare. Si tratta di una personificazione divina, del dio iranico Mi-tra, formato da *mei- nella forma ridotta (cioè *mi-, grado vocalico zero di *mei-/*moi-), con il suffisso -tra-, che serve generalmente per nomi neutrali di strumenti (o per nomi maschili di agenti). In vedico, mi-trá- è di due generi, maschile (Mi-trá-s) come nome di dio, neutro (mi-trá-m) nel senso di ‘amicizia, contratto’ (dunque di ‘scambio’ di diritti e doveri, o di ‘reciprocità di obblighi’). Meillet in un celebre articolo (Journal Asiatique, 1907) ha definito Mitra come una forza sociale divinizzata, come il contratto personificato. Ma ‘l’amicizia’, ‘il contratto’ possono precisarsi nel contesto in cui noi li usiamo: si tratta non dell’amicizia sentimentale, ma del ‘contratto’ in quanto riposa su uno scambio" (Benveniste, 1,72; cfr. KEWA 2,634). Il significato di ‘legame’ sembra secondario e conseguente a quello di ‘scambio che lega i contraenti con doveri di reciprocità’, unendoli quasi tra di loro in una parentela sacrale.
La radice *mei-, senza allargamenti, è presente nel verbo latino meo (da *mei-o) ‘passo da una parte all’altra’, da cui me-atus ‘passaggio (nelle due direzioni)’, com-meatus ‘azione di trasferimento da un luogo a un altro’ (it. com-miato).
Più spesso appare allargata da vari determinativi radicali, con relative specializzazioni semantiche, come è avvenuto nel verbo migro (formato presumibilmente su un aggettivo scomparso con grado radicale zero *mi-g-ro-) e in muto (da *moi-t-o, con determinativo in dentale -t(h)- di larga attestazione). L’idea di reciprocità riaffiora con evidenza nell’aggettivo mutuus e nel composto, strutturalmente affine a quello in esame, com-mutare. I riscontri in altre lingue indoeuropee sono numerosi e semanticamente puntuali: greco moîtos ‘ringraziamento, ricompensa’ (GEW 2, 249); sanscrito mit-ah (avverbio) ‘in alternanza’ con; antico slavo mit-ê (avverbio) ‘in alternanza’; ittita mut-ai- ‘cambiare, trasformarsi’; gotico maid-jan (da *moit-) ‘cambiare’, poi ‘falsificare’, in-maidjan ‘scambiare, barattare’ (Feist 340; Lehmann 240-241); lettone miet-uôt ‘scambiare’, mit-êt ‘cambiare’; gotico maith-ms ‘dono’; antico islandese meid-mar ‘gioiello’; antico slavo misti ‘compensazione’, anche come ‘vendetta’. Il sanscrito mithu- è giunto al valore di ‘falso, menzognero’, procedendo lungo la traiettoria di ‘cambio’, ‘mutazione’, ‘alterazione’ (IEW 1,710). Così l’antico alto tedesco mein vale ‘falso, ingannevole’ e da qui viene estratto il tedesco Mein-eid ‘giuramento falso’. Si ritiene appartenente alla stessa base etimologica anche il verbo greco ameí-b-o ‘cambio’, ‘cambio di luogo’, con a- cosiddetta prostetica e determinativo radicale in -b- da precedente -gw-. Da esso il sostantivo amoibé ‘dono di ritorno’, ‘ricambio come ricompensa’, negativamente ‘punizione’, e, nel linguaggio della rappresentazione drammatica, ‘responsione’ tra due cori. È questo ultimo valore che sta alla base dei canti amebei (DELG 73-74).
Sembra che anche la voce latina se-mita ‘sentiero’, nell’accezione originaria più generica di ‘passaggio’, possa interpretarsi come composta da se-, preposizione separativa, e dalla medesima radice *mei- a grado vocalico zero e con allargamento in dentale *mi-t- (DELL 613). Ugualmente, ma con maggiori perplessità sarà da inserire nel gruppo tra-mes ‘sentiero, strada’ (cfr. il gen. tra-mit-is), e prima ‘cammino di traverso’, con prefisso trans semplificato nel nesso consonantico formatosi in seguito alla composizione (DELL 699).
Il valore fondamentale che sembra aver accompagnato la voce communis già dalla sua formazione e poi costantemente lungo tutta la sua corsa attraverso la storia pare quello di ‘reciprocità’, dunque quello di ‘diffusione incrociata’, di ‘partecipazione in accoglienza e di ritorno’. Il tradimento semantico inizia al momento in cui a comunicare viene attribuito in modo innaturale e forzato il senso di ‘partecipazione secondo una traiettoria unidirezionale’, quasi di ‘imposizione’. All’approfondimento risultano evidenti le incrostazioni determinate dalle sovrastrutture sociologiche e dalle convenienze politiche. Spetta alla riflessione linguistica salvaguardare la propria eredità in una purezza il più possibile trasparente.
Se si vuole riscoprire il senso genuino del comunicare è dunque necessario ritornare all’osmosi bidirezionale. Comunica soltanto chi riceve e partecipa, chi è capace di scambiare il dono (munus) accolto con senso di sacra gratitudine.
Proprio per la corradicalità di com-municatio con munus, l’oggetto della ‘reciprocità’ dovrebbe consistere in qualcosa di accetto a entrambe le parti, di partecipato mutuamente nella consapevolezza del gradimento e nella libertà dell’accettazione. La c. di un pensiero non dovrebbe avvenire se non scaturendo da un ascolto diuturno, maturato a mano a mano nel dialogo, sotto pena di trasformarsi in imposizione o indottrinamento.
E da una recezione rispettosa della realtà dovrebbe sgorgare la c. di una notizia, per non essere inquinata da falsificazione. La verità nasce dall’ascolto e una c. degna di tale nome non dovrebbe veicolare se non la verità umilmente assunta, la realtà divenuta parola e dono di se stessa. Trasmetterla senza averla prima accolta in docile attesa significherebbe alienarla. Anche il senso di ‘falsità’ si è affacciato all’interno della storia linguistica della famiglia di communicatio, ma soltanto quando si intese lo ‘scambiare’ come un semplice ‘cambiare’, cioè un ‘sostituire’, perdendo il valore pregnante del prefisso com-.
Sviluppi più recenti del termine sono ripresi nelle pagine che seguono (Comunicazione).
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Bibliografia
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Note
Come citare questa voce
Bracchi Remo , Comunicazione (etimologia), in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (21/11/2024).
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