Comunicazione

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1. Il significato quotidiano del termine

In un’ipotetica graduatoria, che registri le parole oggi più di moda, il termine c. occuperebbe uno dei primi posti. A conferma, si può osservare il consenso di cui gode l’espressione tutto è comunicazione, con la quale si sintetizza una delle principali ‘scoperte’ della nostra epoca, definita appunto epoca della c. Slogan spesso ripetuto, non viene messo in discussione, mentre il fatto che la parola c. serva a dire ‘tutto’ dovrebbe destare dei sospetti (dire tutto è molto vicino a dire nulla). Inoltre, il suo alto indice di circolazione non può essere assunto come garanzia del suo valore e della sua precisione semantica, perché l’inflazione corrompe la parola come la moneta.
Prima dunque di affrontare uno studio specialistico del termine c., ci sembra doveroso soffermarci sull’uso quotidiano che ne facciamo, in modo da constatarne la polisemia e il rischio di ambiguità e insieme la duttilità nel registrare i cambi culturali.
Uno dei modi efficaci per sondare quale sia l’area semantica attribuita oggi al termine c. è studiare un dizionario importante come lo Zingarelli; non però consultando solo l’edizione attuale, ma facendo un confronto con le edizioni precedenti, così da cogliere, assieme alla situazione attuale, anche il lento cambiamento avvenuto a livello semantico in un periodo di novanta anni (la prima edizione è del 1922).
La prima cosa che emerge con evidenza è lo spazio crescente dedicato al lemma: nelle prime edizioni – fino al 1965 – la voce è fatta di 60 parole, mentre nelle ultime edizioni (1983, 1993, 1999 e 2000) le parole sono quadruplicate. I cambiamenti più significativi avvengono nelle edizioni del 1970 (da 57 parole a 148) e nel 1983 (da 148 a 240). Quanto ai significati registrati dal dizionario, le prime quattro edizioni privilegiano – impiegando il 50% dell’intera voce – quello di "mezzo di comunicare, aver relazione", esemplificando immediatamente in questo modo: c. "ferroviaria, stradale, telegrafica, telefonica, aerea (dal 1937), Ministero delle c., per tutti questi mezzi; detto poi dei Trasporti" (1959 e 1965). [I corsivi sono nell’originale.]
Nell’edizione del 1970 la trattazione cambia completamente e il primo significato segnalato – in termini di spazio dedicato – è: "atto del comunicare, trasmettere ad altri:c. di idee, di notizie; c. orale, scritta. Mezzi di c. di massa, il complesso della stampa e degli audiovisivi impiegati per la diffusione delle notizie e di spettacoli a tutti i livelli della società e tendenti a creare comportamenti ideali e bisogni di massa".
Nelle edizioni successive la scelta di dare importanza al lemma viene ulteriormente confermata; ci sono più dettagli (lo spazio dedicato quasi raddoppia) e maggiore è l’attenzione al contributo della tecnologia e degli studi di settore. Nel 1983 due sono le novità da evidenziare: scompare la valutazione relativa ai mezzi di c. di massa ("tendenti a creare comportamenti ideali e bisogni di massa") e viene aggiunta la definizione: "Processo mediante il quale l’informazione viene trasmessa, con appositi segnali, da un sistema all’altro". Colpisce il fatto che ci siano voluti 35 anni per recepire la proposta della teoria dell’informazione (sarà l’edizione del 1999 a registrare il significato: "Scambio di messaggi fra un emittente e un ricevente: c. verbale, non verbale; la zoosemiotica studia i sistemi di comunicazione tra animali").
Il significato, che era fondamentale nelle prime quattro edizioni ("Collegamento..., comunicazioni ferroviarie, stradali..."), nel 1970 va in fondo alla voce (con il 25% dello spazio); nelle edizioni successive resta tra i significati secondari e, quanto a spazio, si riduce ulteriormente (se non fossero registrati alcuni esempi, rimarrebbero poche righe).
Un’ultima constatazione può essere utile: i due termini comunicatore, comunicatrice nelle prime quattro edizioni sono segnalati come sostantivi derivabili dal verbo Comunicare, con la sola spiegazione "che comunica"; scompaiono invece nelle edizioni 1970 e 1983. Dal 1993 le due parole ritornano nel dizionario con questa descrizione: "1. Chi comunica | (est.) Chi sa usare i mezzi di comunicazione di massa per influenzare, persuadere, convincere chi lo ascolta. 2. Chi invia regolarmente comunicazioni ai giornali".
Dall’esame dello Zingarelli si nota dunque un progressivo superamento del legame comunicazione/mezzi e vie di trasporto e insieme una sempre più ampia accoglienza dei significati derivati dalla tecnologia e dagli studi sulla comunicazione.

Un secondo percorso utile per migliorare la comprensione del campo semantico del termine è analizzare le metafore usate quando si parla di c. (Krippendorff, 1993).
Merita un chiarimento l’interesse per quest’ultimo aspetto. La metafora non è soltanto un espediente poetico; è per eccellenza il meccanismo che ci consente di capire la novità a partire dall’esperienza pregressa. Per suo mezzo, di fronte al nuovo e a ciò che non abbiamo ancora definito, stabiliamo un confronto con quanto già conosciamo (sì, tutto questo è simile a...), affermando però – nello stesso tempo – la differenza (... è solo simile, non uguale). Ad esempio, quando si è affermato che la luce è un insieme di onde elettromagnetiche, la scienza ha fatto un passo avanti grazie alle nozioni già possedute sui fenomeni di quel tipo; cogliere però ed esprimere, nello stesso tempo, l’esistenza di differenze ha garantito la possibilità di andare oltre quella prima approssimazione (vedi la concezione quantistica della luce). Scoprire che nel linguaggio comune relativo alla c. si usano spesso delle metafore, non significa evidenziarne soltanto ‘l’imprecisione’, ma documentare che anch’esso è luogo di sviluppo linguistico.
L’utilizzazione delle metafore è registrata anche nei dizionari, pur senza esplicitarne il funzionamento e l’importanza. Come si è appena visto con lo studio diacronico del lemma nello Zingarelli, la lingua italiana negli ultimi decenni del Novecento ha messo da parte le metafore del ‘viaggio’ e del ‘trasporto’ (presenti nei riferimenti alle ferrovie, alle strade e, in genere, nella connessione comunicazione/trasporto), accogliendo così uno dei cambi fondamentali provocato dalla tecnologia moderna: perché un messaggio giunga a destinazione, non c’è più bisogno né che il suo supporto (un pane di argilla, un rotolo di papiro, una pergamena, una lettera, ecc.) venga materialmente trasportato da un luogo all’altro né che si muova un messaggero (Elettricità).
Continuano comunque a essere utilizzate altre due metafore direttamente collegate a quella del ‘trasporto’: quella del ‘contenitore’ e quella del ‘canale’. Nel primo caso ci si riferisce alle numerose espressioni in cui affermiamo che l’emittente invia il ‘messaggio’ dentro un determinato ‘contenitore’, dal quale il ricevente ha solo il compito di estrarlo. Il modello implicitamente costruito su questa metafora è stato chiamato modello postale della c. (Cimatti, 1999): la c. distribuisce messaggi come fa la posta con le buste e i pacchi. Si possono ricordare alcune espressioni: Cosa c’è nella lettera? Qual è il contenuto del libro, del telegiornale, della legge? Ho lasciato un messaggio nella segreteria telefonica. Condurre la ricerca secondo il metodo dell’analisi di contenuto;... oppure Il suo è un discorso vuoto, ... poche idee sepolte sotto una valanga di parole. Come si vede, la metafora non fa alcun riferimento a problemi di decodifica o di condizioni previe, azioni necessarie per riuscire a comprendere quanto viene detto: il messaggio è materialmente disponibile nella lettera, nel fax, nel libro o nell’articolo. Se poi le cose non sono così facili, la difficoltà dipende dal ricevente che ‘non ha la chiave giusta’ (quella che apre lo scrigno) oppure dal fatto che l’emittente ha complicato le operazioni, criptando il messaggio. Per la metafora, però, esso è concretamente depositato dentro il contenitore e lì rimane disponibile.
L’altra metafora è quella del ‘canale’, nata con la diffusione del telegrafo e del telefono. Essa si appoggia su due dati concreti: tra emittente e ricevente era necessario un collegamento concreto com’è un cavo; l’elettricità, la cui natura era misteriosa, trovava un’espressione comprensibile nell’immagine di qualcosa che scorre nel filo, una corrente. Il telegrafo e il telefono, con le loro reti di distribuzione e con i vari operatori, apparivano analoghi a sistemi idraulici. Questo potremmo chiamarlo modello idraulico della c.: il filo è il ‘canale’ in cui fluisce l’elettricità e dunque può essere interrotto, intasato, inquinato; come nella distribuzione dell’acqua, si parla di filtri, di centrali di distribuzione e di controllo (il Gatekeeper è colui che regola il flusso), ma anche di limpidezza e di trasparenza; e poi di capacità di canale; canale verbale, non-verbale; molteplicità di canali.
Altri due tipi di metafore vanno ricordati, ambedue legati all’esplorazione del processo comunicativo come luogo dove è in gioco la relazione tra gli interlocutori: la comunicazione presentata come scontro, come lotta, e la comunicazione vista come condivisione, come comunione (fino a diventare utopia).
Appartengono al primo caso espressioni come: la sua tesi era indifendibile; le sue bordate mi hanno messo al tappeto, mi ha stracciato con le sue osservazioni; argomenti cogenti, capaci di inchiodare / abbattere / distruggere l’avversario; chiudere ogni via di uscita; il suo punto debole; restare senza difese; un intervento molto efficace; il messaggio ha funzionato (nel senso che si ottiene quello che si voleva); la fa da padrone, mi considera peggio di uno stuoino...
Altrettanto frequenti sono le espressioni che mettono in evidenza come la c. sia chiamata a essere appagante, tanto da equiparare la piena accoglienza (l’amore reciproco) alla massima comunicazione tra due persone: mi ha accolto come fossimo amici da sempre; mi sentivo trattato alla pari; è caduta ogni aggressività; ci si capiva al volo; un cuor solo e un’anima sola. Queste espressioni sono in piena continuità con l’etimologia del termine (Comunicazione, etimologia) e quindi con le parole appartenenti alla stessa famiglia, in particolare con comunione (il massimo di accoglienza reciproca tra persone).
La nostalgia e la ricerca di questo tipo di relazione è presente anche in affermazioni, che, a prima vista, sembrano soltanto tecniche: l’abbondanza delle c. trasformerebbe il mondo in un villaggio globale; si parla di autostrade dell’informazione (nessuna idea di aggressione o di controllo nel termine); il mondo dei media è una mensa cui tutti i popoli si possono accostare.
Conviene mantenersi vigili anche di fronte a questo genere di metafore. Il rischio del linguaggio metaforico infatti è di identificare l’intuizione del nuovo con l’immagine assunta per interpretarlo, senza tenere contemporaneamente viva la consapevolezza della differenza (dicevamo sopra che la metafora, per essere strumento conoscitivo efficace, deve equivalere a ‘sì, ma non del tutto’). Se questa riserva non viene mantenuta, la metafora si trasforma in un inganno.
A questo proposito J. Carey (1988) segnala tutto un gruppo di futurologi, che – sulla scia di T. de Chardin, M. McLuhan e A. Toffler – "identificano elettricità ed energia elettrica, elettronica e cibernetica, computer e informazione con la rinascita della comunità, con la decentralizzazione, l’equilibrio ecologico e l’armonia sociale... La propensione di McLuhan per le metafore di tipo religioso lo portano a qualificare l’elettricità come forza divina: Il computer... grazie alla tecnologia prepara una condizione pentecostale di comprensione e di unità universali". Sullo stesso tema E. Neveu (1994), a proposito delle attese riposte da molti scienziati nello sviluppo della tecnologia dell’informazione nel periodo degli anni Trenta-Sessanta, afferma: "La comunicazione appariva allora come la categoria inevitabile per pensare sia un mondo migliore sia il migliore dei mondi". Questo atteggiamento si traduce in una fiducia acritica in quanto le nuove tecnologie promettono: è una fede che contrasta aspramente con molti aspetti dello sviluppo che l’elettricità e l’elettronica stanno realizzando in questi decenni (ad esempio, l’ambiguità della globalizzazione) e dunque diventa una forma pericolosa di legittimazione dell’esistente.
Nell’uso quotidiano, dunque, il termine c. guadagna di importanza; nello stesso tempo subisce forti modifiche sia con la progressiva perdita del riferimento al movimento spaziale e al trasporto, sia con l’emergere a consapevolezza della complessità del processo, bene evidenziata – come si è visto – dall’uso delle varie metafore.

2. C., una realtà ‘nuova’ e un ‘nuovo’ ambito di studi

Nel 1963 W. Schramm, nel volume The science of human communication, affermava che gli studi sulla c. non potevano essere considerati una scienza a tutti gli effetti, come lo erano la psicologia o la matematica; la c. gli pareva piuttosto "un incrocio accademico che molti hanno attraversato, ma dove pochi si sono fermati" (Berger-Chaffe, 1987). Rileggendo questa frase a distanza di quarant’anni, non si può non trovare felice l’immagine dell’incrocio, perché realmente la c. è rimasto un punto di convergenza di molte tradizioni di studio e oggi assai numerose sono le scienze a essa interessate; invece la seconda parte dell’affermazione risulta oggi palesemente datata. Constatiamo infatti che, in quest’ultimo mezzo secolo, di gente se n’è fermata tantissima (della più varia provenienza: tecnici, ricercatori, politici, artisti), cosicché là dove si vedeva un semplice incrocio, è nata un’intera metropoli.
Per rendere conto del perché la c. è diventata uno dei centri focali della cultura attuale, vediamo quali sono state le forze che hanno determinato il cambiamento. In pratica – per continuare con la metafora di Schramm – verifichiamo chi, arrivato all’incrocio, ha scoperto l’originalità e la fecondità del nuovo punto di vista determinato dalla c. e ha deciso di stabilire lì una stazione di esplorazione (diventata poi, per qualche settore scientifico, il nuovo quartier generale).
2.1. L’esplosione della tecnologia della c. e il suo impatto sulla cultura.
La ricerca tecnologica applicata alla trasmissione dei messaggi ha provocato una continua espansione del mondo della c. A partire dai primi decenni dell’Ottocento, lo sviluppo ha avuto un crescendo incalzante: nuovo impulso hanno avuto la stampa e il giornalismo; con l’utilizzazione dell’elettricità i messaggi non hanno più avuto bisogno di essere trascritti su un supporto ‘concreto’ da trasportare fisicamente a destinazione: si ‘spostano’ da soli, a 300.000 km/s (Telegrafo; Telefono); la fotografia inaugura per le immagini un nuovo tipo di ‘scrittura’; processi analoghi verranno messi a punto per l’immagine in movimento e per il suono (Cinema; Giradischi; Registratore audio; Videoregistratore); le onde elettromagnetiche hanno consentito di fare a meno di qualsiasi cavo, riducendo ulteriormente i costi di collegamento tra un punto e l’altro della terra: nascono la radio e la televisione; il computer, la fotocopiatrice (Fotocopia), il laser, i satelliti. E poi il cambio più drammatico determinato dalla convergenza al digitale, la fusione cioè – grazie al comune linguaggio digitale – di queste tecnologie in singoli strumenti, sempre più potenti e duttili, come, ad esempio, Internet e la telefonia cellulare (Computer Mediated Communication).
L’elenco potrebbe essere molto più dettagliato; già così, però, documenta come la tecnologia applicata alla c., nell’arco di due secoli, abbia invaso ogni momento della vita pubblica e privata e sia diventata un settore di primaria importanza per le scienze fisiche e per l’ingegneria, per l’economia, per l’industria e per la politica (in guerra e in pace).

2.2. La riflessione sui mutamenti culturali indotti dai nuovi media.
Questo grande flusso di idee e di innovazioni tecnico-scientifiche non confluisce al nostro incrocio da solo. Le rivoluzioni avvenute nell’ambito della tecnologia applicata alla c. hanno sollecitato l’attenzione di alcuni studiosi i quali hanno intuito prima, ed esplorato poi, il rapporto di profonda interdipendenza che esiste tra gli strumenti di c. e la cultura. Il canadese H.A. Innis è considerato il fondatore di questo settore di studio; M. McLuhan l’ha reso oggetto di interesse per una larghissima cerchia di persone; altri poi gli hanno dato solidità e prospettiva. Si tratta di studi che evidenziano quanto interdipendenti siano in una società i vari ambiti, anche quelli da sempre considerati reciprocamente ininfluenti. Il cambio di velocità (per ricordare un caso particolare), imposto dal telegrafo ai messaggi trasmessi, non ha solo ridotto le distanze tra due punti; ha anche modificato il rapporto tra potere centrale e periferia in un impero come quello britannico; ha modificato i mercati nazionali e internazionali, l’organizzazione della borsa, il ruolo dei centri commerciali; anche le notizie trattate dai giornali sono cambiate, persino nello stile, vista l’essenzialità imposta dal nuovo strumento di c.
Pertanto la realtà in cui l’uomo vive non può essere considerata soltanto come un dato, che esiste per l’uomo indipendentemente dal suo modo di comunicare, come se i segni, le parole, la cultura fossero pallide rifrazioni di quanto esiste. La realtà è portata all’esistenza, è prodotta dalla comunicazione (Carey, 1988).
Ad allargare la concezione della comunicazione contribuisce anche la corrente di studi che va sotto il nome di cultural studies: l’interesse non si limita all’influsso dei media, ma include un più ampio spettro di espressioni culturali e le forme rituali presenti nella vita quotidiana: dall’educazione, alla religione, alle conversazioni, allo sport (White, 1983).

2.3. L’apporto della tradizione degli studi linguistici.
Lo studio del linguaggio umano – in senso ampio, dalla grammatica alla retorica – è l’ambito in cui da sempre è viva l’attenzione a quanto oggi chiamiamo ‘c.’. È un settore di studio nato e cresciuto insieme alla cultura greco-romana, per molti secoli identificato con la parte più importante di ogni formazione culturale (il trivium e il quadrivium). È particolarmente interessante – per la profondità e attualità del pensiero – rileggere le pagine di grandi autori di un passato che sentiamo remoto, nelle quali viene analizzato il modo in cui funziona il linguaggio: per fare qualche esempio ci si può riferire ai Sofisti, a Platone (particolarmente interessante, nel Fedro, è il dibattito sulle conseguenze per la cultura e la società dell’introduzione della scrittura; così come, nel Cratilo, la discussione se il significato delle parole dipenda o meno da una convenzione), ad Aristotele (di grande importanza il De interpretatione, opera totalmente dedicata a problemi linguistici), agli Stoici (le loro riflessioni sul linguaggio, in particolare l’elaborazione del concetto di segno), ad Agostino (in molte opere ritorna il tema del linguaggio e dei segni, ma per chi si occupa di c. è sorprendente la modernità di impostazione del piccolo manuale De catechizandis rudibus).
Anche questa tradizione culturale, con la ricchezza del suo pensiero, è confluita in modo naturale verso lo studio della c. Oggetto di studio non è più soltanto la lingua classica, ma potenzialmente tutti i sistemi di segni usati dall’uomo: non solo il testo scritto, ma la lingua parlata; non solo la grammatica e la sintassi, ma anche la capacità di generare e trasformare frasi.
Due studiosi legati a questa tradizione di studi, C. S. Peirce (1839-1914) e F. de Saussure (1857-1913), propongono e fondano la semiotica, la scienza a cui assegnano il compito di analizzare i meccanismi che consentono alla c. umana di funzionare. La loro non è soltanto una proposta teorica; essi offrono anche dei precisi orientamenti di studio; non un quadro teorico sistematico, dal momento che ambedue muoiono senza dare alle stampe un risultato maturo dei loro studi: per de Saussure sono i suoi discepoli che raccolgono il pensiero del maestro, lavorando su appunti; dei manoscritti di Peirce inizia la pubblicazione soltanto negli anni Trenta.
Altri autori hanno ulteriormente allargato il campo, lavorando su sistemi di segni diversi dal linguaggio, dando così vita a semiotiche speciali: la cinesica, lo studio del non verbale (Comunicazione non verbale), la prossemica, la semiotica del cinema, del teatro, dell’architettura, ecc.

2.4. La massa di ‘testi’ prodotta dai media e gli studi indotti.
Probabilmente il mutamento più visibile nel campo della c. è l’enorme assemblea umana che i media (quotidiani, settimanali, radio, cinema, televisione) hanno via via convocato. Il loro sviluppo – in termini di strutture e di pubblico – se è stato impressionante, non è mai stato autonomo. L’industria, soprattutto dopo la grave crisi del 1929, ne ha avuto un assoluto bisogno. Da qui un doppio canale di investimenti, quelli relativi alla pubblicità e quelli destinati a ricercatori e università per gli studi sull’efficacia dei media (Effetti dei media). Significativa al riguardo l’affermazione dell’economista J. K. Galbraith: "Le ricerche sui comportamenti sociali si sono moltiplicate quando si constatò che le macchine era più facile farle che venderle." (Neveu, 1994).
Il grande sviluppo dei media, insieme alla loro più diversa utilizzazione (dall’uso cinico che ne hanno fatto le dittature, alle battaglie economiche e politiche nelle democrazie; dallo sfruttamento di temi come la violenza e il sesso, alle campagne pubblicitarie) hanno determinato una tale massa di studi, che al settore è stato dato – per antonomasia – il nome di ricerca sulla comunicazione. ( Communication research)
Il problema degli effetti dei media comunque ha interessato ed interessa ampi strati della popolazione, dalle famiglie agli educatori, dalle Chiese ai politici, governanti e legislatori. Su questi temi sono intervenuti sociologi e psicologi, pedagogisti, filosofi, anche artisti.
Nel periodo della seconda guerra mondiale questi studi hanno assunto persino il valore di strumento strategico per sostenere le proprie truppe e demotivare quelle del nemico.

2.5. Con la scoperta dell’informazione, la vita è c.
La corrente di pensiero più ‘rivoluzionaria’, che ha ampliato a dismisura il territorio della c., prestando il suo linguaggio e le sue categorie a un ampio spettro di scienze, è quella che ha elaborato la teoria dell’informazione e ha avanzato la proposta di una nuova scienza, la cibernetica, il cui oggetto di studio doveva essere la c. intesa come passaggio di informazione con funzione di controllo. La proposta nasce da un gruppo di matematici – R. V. Hartley, H. Nyquist, C. Shannon, N. Wiener – a cui durante la seconda guerra mondiale erano stati affidati compiti come la decriptazione dei messaggi nemici, l’ottimizzazione delle teletrasmissioni e l’automazione (e la precisione) dei sistemi di puntamento delle batterie contraeree (Radar). Per dare risposte efficaci a questi problemi essi hanno analizzato in termini matematici il tipo di c. che si realizza nelle macchine e nei sistemi a regolazione automatica ( Feedback), proponendo un modello e una serie di idee fortemente innovative. Da questa matrice si sviluppano l’informatica, la tecnologia dei computer, l’intelligenza artificiale, la microbiologia e l’ingegneria genetica. È vero che oggi consideriamo un’utopia il progetto di Norbert Wiener di una scienza non solo onnicomprensiva, ma capace di produrre macchine in grado di prendere decisioni assolutamente razionali e dunque di mettere fine agli orrori determinati dalle decisioni degli uomini. È però altrettanto vero che la scoperta del concetto di ‘informazione’ ha rinnovato la comprensione di tutta la realtà, in modo particolare di ciò che chiamiamo vita.
Non è esagerato affermare che a partire dagli anni Quaranta il mondo scientifico entra in una nuova era. Se a un primo livello la realtà era percepita come composta di elementi primari semplici (dalla proposta proto-scientifica dei quattro elementi – acqua, aria, terra e fuoco – alla tavola degli elementi) e tutte le mutazioni erano interpretate sulla base di una loro variata composizione, in quella che potremmo chiamare la seconda epoca, l’attenzione ha incluso la presenza determinante di varie forme di energia (gravitazionale, cinetica, termica, elettrica, magnetica, atomica...): l’interpretazione della realtà è stata riorganizzata e le varie forme di energia sono state utilizzate dall’uomo. Dopo Shannon e Wiener ha acquistato importanza un ulteriore punto di vista: non è vero che tutto è riducibile a materia ed energia; interviene in modo determinante – in particolare in tutte le forme di vita – un altro tipo di dinamismo, la c., la trasmissione di segnali con funzione di controllo. Su questa strada l’uomo oggi non solo riorganizza ogni processo tecnologico, ma sta decifrando la struttura della stessa vita: si pensi alla frontiera della clonazione e alle ricerche sul genoma umano.

2.6. Nuove tecnologie e processi formativi.
Ritornando alla metafora di Schramm (cfr. n. 2), possiamo notare come presso l’incrocio accademico della c. stia sorgendo un vero e proprio quartiere generale, quello della nuova didattica, dell’insegnamento – cioè – che sa rinnovare metodologie e processi per sfruttare la potenzialità dei nuovi media. L’E-learning costituisce probabilmente, oggi, uno dei settori in maggiore espansione nel mercato della formazione. Negli Stati Uniti, nel 2000, il giro di affari che l’online education ha generato nel solo ambito della formazione aziendale ammonta a 2,2 miliardi di dollari. La Business School della Michigan University ha investito 1,5 milioni di dollari per sviluppare i propri corsi online. Circa 1 miliardo di dollari, invece, è l’ammontare degli investimenti che nei soli Stati Uniti sono stati impiegati per il cosiddetto K-12 market, il mercato dell’istruzione primaria (dai 6 ai 12 anni).
Ciò che rende così interessante dal punto di vista economico questo settore (nel quale l’Italia ha avuto il maggior tasso di crescita al mondo) è la possibilità che le tecnologie di c. basate sulla rete telematica consentono di emancipare il processo di insegnamento/apprendimento dai vincoli di condivisione dello spazio e del tempo.
La c. formativa tradizionale trova nell’aula il suo luogo deputato e nell’oralità il suo veicolo naturale. Il modello didattico che su questo tipo di situazione si costruisce dovrebbe avere indiscutibili vantaggi, come la relazione che in esso si può stabilire tra docente e allievo e la possibilità del feedback immediato: se gli studenti non capiscono possono fermare l’insegnante per avere ulteriori spiegazioni. Oltre a ciò, il docente (e quindi il sistema formativo, la società adulta) ha la possibilità di esercitare un controllo forte sul processo formativo, decidendone le tappe e i ritmi, e soprattutto detenendo il possesso dell’informazione che proprio attraverso l’insegnamento viene trasmessa.
Il limite di questo tipo di situazione didattica è costituito dal fatto che per apprendere è necessario trovarsi nello stesso luogo in cui il docente si trova, esattamente nel momento in cui sta parlando. Il risultato è una limitazione di accesso all’informazione, quindi alla possibilità di apprendere. È per correggere questo limite che, dal libro stampato fino al supporto audiovisivo, sono stati introdotti sistemi di c. in grado di produrre uno sganciamento dallo spazio e dal tempo: un corso di formazione per corrispondenza (dal modello pionieristico della Scuola Radio Elettra di Torino, fino a quello raffinato dell’UNED di Madrid) consente all’allievo di accedere alle informazioni senza spostarsi da casa e, soprattutto, nei tempi più confacenti alle sue esigenze. Uno studente-lavoratore, che non può permettersi di frequentare un’università tradizionale, grazie alla formazione a distanza può comunque compiere un iter formativo. In questo caso, tuttavia, la relazione con il docente e la possibilità del feedback verrebbero meno, l’apprendimento si configurerebbe sostanzialmente in termini di autoistruzione.
Le tecnologie didattiche web-based, però, consentono di superare l’impasse rendendo possibile la presenza nella distanza, o meglio, annullando i concetti stessi di presenza e distanza. Basta pensare ai sistemi di didattica live che si servono della videoconferenza, o all’uso didattico dei forum e delle chat: si tratta di tecniche di comunicazione che favoriscono la relazione tra docente e studente pur senza richiedere la condivisione dello stesso spazio (chat e videoconferenza) e dello stesso tempo (i forum e tutti gli altri sistemi di comunicazione asincrona). Il risultato è una vera e propria trasformazione del modo di insegnare e di apprendere: nel primo caso, si tende ad abbandonare il modello della trasmissione di informazioni a vantaggio del tutoring (docente come accompagnatore) e dello scaffolding (docente come fornitore di strumenti e concetti di base); nel secondo caso, invece, si va verso forme di apprendimento sempre più basate sulla scoperta, la costruzione attiva delle conoscenza, la collaborazione.
Di tutto questo processo la c. costituisce l’orizzonte e l’ambiente: la didattica, dunque, si propone a tutti gli effetti come una (nuova) scienza della c.

2.7. Altre scienze hanno costruito casa nella metropoli della c. L’elenco completo sarebbe piuttosto lungo. Ricordiamo ancora tre ambiti.
La psicologia, negli ultimi cinquant’anni, ha prestato sempre più attenzione al soggetto umano in quanto prodotto e produttore di relazioni. La c. è considerata categoria fondamentale nello studio del comportamento umano; ed è proprio sulla constatazione che il comportamento è c. che si fonda l’assioma "non si può non comunicare". A questo riguardo vanno ricordati G. Bateson, P. Watzlawick e il centro – da loro diretto – di Palo Alto negli USA.
La sociologia, in dialogo con l’antropologia, ha affrontato territori praticamente inesplorati e di grande importanza. Decisivi sono gli studi avviati da V.Turner a proposito delle forme di c. rituale (non solo religiosa), per mezzo delle quali una comunità conserva, promuove e ricostruisce i valori della convivenza. Da questo punto di vista la c. non è soltanto il modo per mantenere la situazione attuale inalterata, ma è un processo dialettico alla ricerca di un modello più adeguato di significati condivisi (White, 1983).
Altrettanto innovativo il lavoro di E. Goffman sulle interazioni tipiche della vita ‘normale’, il quale ha svelato il sottile gioco drammatico, fatto di rituali e di cerimonie, in cui l’individuo è obbligato a costruire e difendere la propria identità: "il sé... non è qualcosa di organico che abbia una sua collocazione specifica, il cui principale destino sia quello di nascere, maturare e morire; è piuttosto un effetto drammaturgico che emerge da una scena che viene rappresentata" (Goffmann, 1983). In particolare la c. è una interazione che segue degli schemi preorganizzati, finalizzati alla sua regolazione, la violazione sistematica dei quali può portare l’individuo alla pazzia: "La pena ultima per chi viola le regole è dura. Come riempiamo le prigioni con quelli che trasgrediscono l’ordine legale, così riempiamo in parte i nostri manicomi con coloro che agiscono in modo inappropriato: il primo tipo di istituzione è usato per proteggere la nostra vita e la nostra proprietà, il secondo per proteggere le nostre interazioni..." (Goffman, 1963).
– Per la filosofia non si può dire che la c. sia un tema nuovo: con altri termini, come risposta ad altri interrogativi, il problema è stato sempre presente, con esiti di notevole ricchezza ancora poco esplorati. Agostino di Ippona, ad esempio, descrive così il processo a cui ci stiamo interessando: "Vediamo in proposito qual è il procedimento che si verifica nella sfera della comunicazione del pensiero. Quando penso ciò che devo dire, nel cuore fiorisce la parola. Volendo parlare a te, cerco in qual modo posso fare entrare in te quella parola, che si trova dentro di me. Le do suono e così, mediante la voce, parlo a te. Il suono della voce ti reca il contenuto intellettuale della parola e, dopo averti rivelato il suo significato, svanisce. Ma la parola recata a te dal suono è ormai nel tuo cuore, senza peraltro essersi allontanata dal mio... Il suono stesso è stato latore della parola... Il suono della voce si è fatto sentire a servizio dell’intelligenza e poi se n’è andato" (Disc. 293,3 PL 1328-1329). Come si vede, è un testo dove sono già presenti le categorie di segno, significante, significato.
La filosofia contemporanea, in dialogo con le altre scienze, ha comunque aperto nuovi ambiti (Filosofia della comunicazione; Ermeneutica; Etica della comunicazione; Postmoderno).

3. È possibile una definizione?

Uno dei modi più tradizionali per esplorare il contenuto semantico di un termine è studiare la sua genesi linguistica e la storia della sua utilizzazione. Questo è stato fatto in una voce specifica di questo dizionario (Comunicazione, etimologia). La conclusione a cui essa giunge è certamente interessante: "il valore fondamentale che sembra aver accompagnato la voce communis già dalla sua formazione e poi costantemente lungo tutta la sua corsa attraverso la storia pare quello della reciprocità, dunque quello di diffusione incrociata, di partecipazione in accoglienza e di ritorno".
Inevitabile, comunque, è ora la domanda se ci si possa accontentare di questo studio, disponendoci quindi a evidenziare incrostazioni e infedeltà presenti nella prassi linguistica odierna in modo da salvaguardare la purezza di quanto abbiamo ereditato, o se, piuttosto, non dobbiamo procedere, inoltrandoci nel presente, per studiare l’uso che di questo termine fanno la nostra società e la nostra cultura. Forse mai, come in questo caso, appare evidente che la storia etimologica di una parola non fornisce la chiave del problema. Perché la parola c. fa oggi riferimento a una ‘realtà sociale’ troppo cambiata rispetto al passato per non imporre consistenti elementi di novità, a tal punto che si ha la sensazione non di avere a che fare con una singola parola, ma piuttosto con un termine polisemico, sotto il cui ombrello abitano concetti che condividono soltanto alcuni elementi di un preteso valore semantico unitario. La parola c. è infatti "sospesa tra il campo del tempo libero e la quotidianità, tra la visione culturalista e quella tecnicista, sballottata tra un’accezione ristretta all’area di competenza dei media e una definizione totalizzante che la erige a principio base dell’organizzazione della società moderna" (Mattelart, 1994).
C’è stata una stagione in cui gli studiosi hanno considerato possibile arrivare alla formulazione di una definizione di c., indicare cioè – in modo rigoroso – quali sono le componenti essenziali che costituiscono la nozione, tracciando insieme le differenze rispetto a nozioni simili. In particolare durante il ventennio 1950-1970 si è ritenuto possibile definire un quadro concettuale unitario e tracciare un modello esaustivo. Il tentativo – come documenteremo – si è dimostrato simile a quello di un sarto che voglia fare un vestito su misura a un bambino: quando l’ha finito, al bambino – già cresciuto – non va più. Il fenomeno c. – e la riflessione scientifica che lo ha accompagnato – si sono sviluppati in misura così rapida da rendere soltanto ‘approssimato’ ogni tentativo di chiuderli in una definizione.

Nel 1970 sul Journal of Communication venne pubblicato l’articolo The ‘concept’ of communication, che documentava lo studio compiuto da F. E. X. Dance sulle definizioni del termine c. fino ad allora proposte dagli studiosi. Dance ne aveva raccolte 126 e le aveva sottoposte a una attenta analisi. Identificando di ciascuna i tratti fondamentali, arrivò a isolarne quindici che, in modo diverso, ricorrevano nelle varie definizioni: dimensione simbolica e linguistica; comprensione del messaggio; interazione; riduzione di incertezza; processo; trasmissione; collegamento, legame; messa in comune; canale, via, mezzo; riattualizzazione della memoria; capacità di rispondere in modo discriminante; stimolo; azione consapevole; dipendenza dal tempo e dalla situazione; potere. La differenza tra le definizioni non dipendeva però soltanto dalla diversa modulazione di questi elementi.
Dance notò che c’erano altre tre variabili legate alla decisione dell’autore di ciascuna definizione: il livello di astrattezza e di generalizzazione (c’era chi teneva presente un determinato contesto, altri proponevano formule generali); il rilievo dato all’intenzionalità dell’atto comunicativo (per alcuni l’intenzionalità era indispensabile perché si potesse parlare di c.); l’associare alla definizione un valore normativo (la definizione contiene un giudizio di qualità). L’autore, nell’impossibilità di indicare quale fosse la definizione più rigorosa, concludeva constatando che il concetto ‘c.’ veniva forzato a compiere un lavoro eccessivo; di fatto siamo di fronte non a una singola idea ma a una famiglia di concetti tra loro non riducibili a unità.
Nel 1989 è stata pubblicata dall’Annenberg School of Communications quella che senza dubbio va considerata la prima e la migliore enciclopedia nell’ambito delle scienze della c., l’International Encyclopedia of Communications. Alla luce di quanto andiamo dicendo, non può passare inosservata l’assenza della voce ‘comunicazione’ (c’è communication, philosophy of; c’è communications, studies of, c’è il rinvio a models of Communication, ma non c’è il lemma Communication da solo). Se si scorrono i nomi dei garanti dell’opera dal punto di vista scientifico (E. Barnouw, G. Gerbner, W. Schramm) e quello dei collaboratori si constata che è riunito il gotha degli studiosi che si occupano della c. Si deve dunque dedurre che la comunità scientifica già dagli anni 1980 non credeva alla possibilità di una definizione unificante e guardava alla c. come a "un campo di studi scientifici nuovo e in rapida espansione". All’intera enciclopedia, quindi, il compito di "definire, riflettere, sintetizzare e spiegare il campo – the field – in modo accessibile, esaustivo e autorevole" (Barnouw - Gerbner, 1989).
Nel 1994 esce in Italia Il libro della comunicazione di U. Volli, un volume che vuole offrire al lettore un quadro aggiornato della situazione. Nell’introduzione lo studioso, alla domanda se sia possibile offrire un quadro unitario della tematica, dà una risposta negativa. La ragione sta nel fatto che la c. è una nozione profondamente ambigua, nonostante o forse proprio per il fatto che sono tante le discipline che la studiano: ingegneria informatica e delle telecomunicazioni, intelligenza artificiale, semiotica, narratologia, teorie delle comunicazioni di massa, sociologia e psicologia sociale (Teorie psicologiche della c.; Teorie sociali nella c.), microsociologia e antropologia culturale, neurobiologia, filosofia. "Tutte queste discipline hanno rinunciato a elaborare una teoria generale della comunicazione, lasciandone il posto a qualche schema generale nelle prime pagine dei manuali e a un generico rispetto per le competenze altrui". E aggiunge: "un’analisi generale e unificata dei fenomeni comunicativi appare oggi impresa impossibile e non feconda proprio per l’ampiezza e l’eterogeneità del suo oggetto".
Se in questo Dizionario compare il lemma c., non è certo perché non siano pertinenti le osservazioni registrate fin qui. Lo giustifica lo scopo del Dizionario: tenendo conto del fatto che i destinatari privilegiati di quest’opera sono gli studenti delle facoltà di scienze della c., gli operatori sociali e i non specialisti del settore, affidiamo a questa voce alcun compiti di rilievo: – denunciare le false semplificazioni o i veri e propri preconcetti che sono in circolazione, evidenziando la complessità del problema che ridimensiona formule e schemi e la necessità di una lettura più attenta dei testi fondanti;
– proporre alcune idee guida, che – se non definiscono compiutamente la c. umana – almeno ne precisano alcuni tratti importanti (non nascondiamo che facendo questo, viene privilegiata quella che potremmo dire l’ottica umanistica);
– infine, suggerire ulteriori approfondimenti, sia interni che esterni al Dizionario.
A questi stessi obiettivi – in verità – è finalizzato l’intera opera, concepita come un inventario degli elementi in gioco, una mappa del territorio, una sorta di cassetta degli attrezzi (Volli, 1994), utili – se non indispensabili – per chi si inoltra nello spazio della c. Questa voce è come il modulo introduttivo, il primo stadio che segna la direzione ma nello stesso tempo apre a una pluralità di percorsi.

4. Alla ricerca di un modello interpretativo

Una delle strade più interessanti a nostra disposizione per studiare un fenomeno è mettere a punto un modello. Si tratta di individuare quali siano le componenti essenziali in gioco, il modo in cui queste interagiscano tra loro e che sviluppo abbiano nel tempo, rappresentando il tutto in un grafico. Il modello, comunque e sempre, è una semplificazione e, come tale, se ha il merito di fare chiarezza, può anche indurre a trascurare dati importanti.
Nell’ambito degli studi sulla c. c’è stata una stagione in cui si è creduto molto in questo strumento (dagli anni Cinquanta ai Settanta); poi lo si è messo da parte, lasciandolo ai manuali di scienze della c., come fase introduttiva alla complessità del fenomeno. Gli apporti delle varie scienze infatti sono diventati così numerosi, diversificati e importanti, che a volerli rappresentare tutti in un modello si finirebbe per costruirne uno eccessivamente complesso e dunque del tutto inutile. È questa la ragione dell’attuale rinuncia a disegnare modelli generali della c.
Il parlarne qui ha due scopi: anzitutto chiarire l’origine e lo specifico dei primi modelli; in secondo luogo avere dei punti di riferimento per capire le direttrici su cui si sono mosse le ricerche degli anni successivi.

4.1. I modelli fondanti: retorico linguistico, matematico.
Sono tre le tradizioni di studio da cui provengono i modelli fondanti: l’antica retorica e la filosofia morale; la linguistica; la matematica applicata.

Il modello ‘retorico’

Nell’antica retorica le parti ritenute essenziali nella preparazione di un intervento oratorio erano l’inventio (l’analisi del problema e la raccolta degli elementi probanti), la dispositio (l’organizzazione vera e propria dell’intervento) e la locutio (oggi diremmo la performance). Per l’inventio fin dai tempi più antichi sono state messe a punto ‘griglie di lettura’ dei fatti e delle azioni umane, in modo tale che i dati essenziali, ricorrenti in ogni situazione, non sfuggissero all’analisi, neppure quando il retore dovesse affrontare un caso completamente nuovo. Il tutto era riassunto in una formula mnemonica, consistente in una serie di interrogativi del tipo: chi? che cosa? perché? dove? quando? ecc. Lo studio delle azioni umane non era però àmbito esclusivo del retore, chiamato a collaborare – attraverso il dibattito tra le parti – alla formazione della sentenza in un tribunale. Anche la filosofia, nell’affrontare il problema della moralità di un comportamento, aveva come punto di partenza l’analisi dell’azione stessa. Non deve dunque sorprendere se retorica e filosofia morale – in certi ambiti – si sono mosse di pari passo e hanno per molto tempo usato categorie analoghe. Una sequenza di interrogativi simile a quella indicata sopra si trova – per citare solo due nomi significativi – nell’Etica Nicomachea di Aristotele e nella Summa Teologica di Tommaso di Aquino. La moralità di un’azione – questo il pensiero condiviso – non dipende soltanto dall’oggetto dell’azione e dal suo scopo, ma anche dalle circostanze. Queste ultime erano oggetto di attento studio e venivano classificate per categorie. Nella Summa Teologica (Prima Secundae, Quaestio 7) Tommaso discute del valore e del numero di queste circumstantiae, ricollegandosi esplicitamente non solo all’opera di Aristotele ma anche alla Rhetorica di Cicerone; l’elenco proposto rimarrà classico nella tradizione scolastica: quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando (chi, che cosa, dove, con quali mezzi, perché, come, quando).
Questo ‘schema’, messo a punto per analizzare le azioni umane da retori e filosofi morali, è applicabile anche a quel particolare tipo di azione che è la c. Chiara dunque è la dipendenza dei vari propositori di schemi analoghi (cfr. 4.2.1; Giornalismo. B. Teorie e tecniche)

Il modello ‘linguistico’

Karl Bühler, insigne studioso tedesco, impegnato in una gamma di ricerche assai ampia, dalla psicologia alla linguistica, già nel 1918, in un articolo per la rivista Indogermanisches Jahrbuch aveva proposto uno schema della c. in cui venivano individuati tre elementi fondamentali: i due soggetti umani in dialogo e la cosa di cui si parla (vale la pena notare che sono esattamente gli stessi attorno ai quali Platone elabora la riflessione di Socrate nel Cratilo: è lo stesso Bühler, che – qualche anno dopo – ricorda la primogenitura del filosofo ateniese). Questa proposta è stata ripresa e approfondita dall’autore in un lavoro assai più ampio e sistematico, reso pubblico nel volume Sprachteorie (1934).
Bühler considera la comunicazione condizione essenziale dell’uomo e dunque, nell’intento di studiare la natura del linguaggio umano, non si ferma al singolo atto linguistico, non considera quanto si può fare con esso, ma compie un’analisi generale della stessa c. (a fianco lo schema da lui disegnato). Afferma pertanto che l’atto comunicativo – costitutivamente – è come un dramma a tre personaggi: 1) il mondo, gli oggetti e i fatti di cui si parla; 2) il locutore e 3) il destinatario. È una realtà a tre dimensioni: in quanto rinvia alle cose e ai fatti, essa è sempre ‘rappresentazione’ (funzione rappresentativa); si rivolge a un destinatario ed è ‘appello’ (funzione appellativa); è opera di un locutore, ne ‘esprime’ una presa di posizione, un atteggiamento psicologico o morale (funzione espressiva).

Per quanto riguarda la zona centrale del suo schema Bühler afferma: "Il cerchio in mezzo simboleggia il concreto fenomeno acustico. Tre suoi momenti variabili sono incaricati di promuoverlo per tre volte in modo diverso al rango di segno. I lati del triangolo disegnato entro il cerchio simboleggiano questi tre momenti".

Il modello ‘matematico’

Negli anni Trenta e Quaranta in ambiente tecnico-scientifico, per quanto riguarda la c., si realizzano tre grandi ‘conquiste’: vengono attribuite a singoli studiosi, ma in realtà sono frutto di un largo convergere di ricerche.
a) Nel 1938 C. Shannon pubblica la sua tesi di laurea, dove dimostra che i procedimenti analizzati dall’algebra booleana possono essere perfettamente eseguiti da un circuito elettrico opportunamente costruito. La scoperta fa una grandissima impressione nell’ambiente scientifico perché abbatte il diaframma tra la logica matematica e la progettazione dei circuiti, aprendo così la strada alla costruzione di macchine in grado di compiere qualsiasi calcolo.

b) Con lo scoppio della seconda guerra mondiale N.Wiener, come altri scienziati americani, si mette a disposizione dell’esercito americano. Gli viene chiesto di progettare un sistema di puntamento antiaereo che funzioni nel modo più perfetto possibile. Wiener, con il suo gruppo, analizza i problemi legati ai disturbi sul segnale radar (con il quale gli alleati già controllano l’aviazione e la marina nemica) e studia i sistemi a regolazione automatica. Il risultato di questi studi porta nello stesso tempo alla messa a punto di armi più precise e alla definizione del circuito a feedback, il circuito cibernetico, dove il segnale ha la capacità di esercitare un controllo del processo in atto, in vista dell’ottimizzazione del sistema stesso. Il concetto di feedback è subito oggetto di grande interesse nell’ambiente tecnico-matematico della Bell System e lo stesso Shannon ne studia caratteristiche e applicazioni. Già nel 1942 l’interesse si allarga a ricercatori impegnati in psicologia, sociologia, politica, medicina (Breton, 1995; Picard, 1995). Wiener raccoglie le sue idee sulla c. intesa come flusso di informazione con funzione di controllo e come categoria unificante sia nel mondo animale che per le macchine nel 1948: Cybernetics or control and communication in the animal and the machine, titolo tradotto in italiano in questa forma: La cibernetica. Controllo e comunicazione nell’animale e nella macchina (1968).

c) Negli stessi anni Shannon studia – sempre con modelli matematici – il procedimento con cui si può criptare e decriptare (codificare e decodificare) un messaggio e approfondisce l’analisi dei processi che avvengono nelle trasmissioni dei segnali. Nel 1948 pubblica – sui numeri di luglio e di ottobre della rivista tecnica della Bell System – un testo dove vengono raccolti in forma ormai matura i risultati dei suoi studi. Il titolo è A Mathematical theory of communication (Una teoria matematica della comunicazione). Questi i punti rilevanti secondo l’interesse che guida la nostra trattazione (Teoria dell’informazione).

  • Lo scopo a cui il lavoro è riferito sono le ricerche per ottimizzare le teletrasmissioni di segnali.
  • L’autore non formula alcuna definizione di c., si limita a definire quello che ritiene essere il problema fondamentale: come riprodurre in un dato punto – in forma esatta o approssimata – il messaggio scelto altrove (The fundamental problem of communication is that of reproducing at one point either exactly or approximately a message selected at another point. Dall’introduzione di The mathematical theory of communication, p.3).
  • A proposito del contenuto semantico del messaggio Shannon precisa che si tratta di "un problema non pertinente dal punto di vista ingegneristico"; l’aspetto rilevante è invece che "il messaggio in gioco sia stato scelto da un insieme di possibili messaggi" (sempre a p. 3).
    Quest’ultima dichiarazione merita un chiarimento. Shannon, nella breve introduzione al suo studio, non esplicita il quadro teorico entro cui si iscrive il suo concetto di informazione. La prima decisione, dalla quale deriva tutta l’impostazione del modello, è che la sorgente viene considerata soltanto come un insieme di messaggi possibili, a ciascuno dei quali viene attribuito un numero (appunto, la misura della sua probabilità di essere trasmesso). Per Shannon la sorgente – così analizzata – è perfettamente conosciuta sia da parte di chi trasmette, sia da parte di chi riceve: ciò che non si sa è quale messaggio venga concretamente inviato. È per questo che, dal punto di vista costruttivo (ingegneristico), il contenuto semantico del messaggio non è rilevante: la difficoltà tecnica è fare arrivare al ricevente un determinato segnale numerico, mentre il recupero del suo significato è già garantito.
    Non è la prima volta che si adotta un sistema del genere; è la prima volta che viene formalizzato in forma matematica quanto mai potente e generalizzata. Si pensi al modo in cui, nel passato, due interlocutori citavano un passo della Bibbia, prima che fosse disponibile a un più vasto pubblico il testo scritto: si utilizzava un aggancio mnemonico, un personaggio o un avvenimento appartenente al contesto del passo che si voleva indicare. Se, ad esempio, si diceva: "Come Mosè, davanti al roveto ardente...", chi conosceva la Bibbia poteva far memoria locale e capiva il riferimento. Il sistema funziona e non soltanto con la Bibbia. Suppone però una buona conoscenza dell’opera e non garantisce contro errori. Per quanto riguarda il testo biblico, dopo l’adozione della numerazione di capitoli e versetti (definita nella forma attuale da Roberto Stefano nel 1551, ma frutto di un lavoro durato quasi duemila anni) il problema è stato superato. Non importa in quale lingua sia scritta la Bibbia, è indifferente quale edizione si stia usando, che dimensioni abbia, in quanti volumi sia divisa: con il nome del libro e due numeri (capitolo e versetto) chiunque raggiunge il passo citato, indipendentemente da una sua previa conoscenza del contenuto della pagina cercata. Il sistema è applicabile a qualsiasi altro testo, proprio perché è indipendente dal valore semantico del messaggio, che in realtà non è ‘trasmesso’ ma soltanto individuato con precisione. Esattamente come avviene nel sistema proposto da Shannon.
    Va aggiunta subito un’osservazione che diverrà decisiva, quando si vorrà applicare il modello di Shannon alla c. umana. Questo modo di impostare il problema risolve le difficoltà di trasmissione, ma il prezzo da pagare è la chiusura del sistema, dal momento che si definiscono in anticipo quali sono i messaggi a cui si farà riferimento. Infatti usando il numero dei capitoli e dei versetti si potrà parlare solo e sempre di quel determinato libro, non una parola in più.
  • Il concetto di informazione – intesa come misura matematica, espressa in termini logaritmici, dell’incertezza di un messaggio – deriva da questa impostazione.
  • Nell’introduzione – quattro pagine in tutto – alla sua trattazione prettamente matematica Shannon traccia lo schema, che diverrà poi famoso.
Tavola 1

Vi sono indicati i componenti del processo di trasmissione del segnale e quali sono i rapporti di interdipendenza. Per il geniale matematico queste sono semplici premesse quasi date per scontate, la sostanza della proposta sono le pagine successive.

4.2. Elaborazioni successive.
A partire da queste tre aree di studio – modificando le varie proposte, applicandole a contesti più generali, integrandole tra loro – si sono sviluppati tutti i modelli successivi. Ci limiteremo a ricordarne alcuni, cercando di evidenziare sia la dipendenza dalle proposte precedenti sia gli apporti originali.

4.2.1. La formula di Lasswell.
Nel 1948 H. D. Lasswell pubblica l’articolo The structure and function of communication in society (vedi Bibliografia). L’incipit è il seguente: lo riportiamo in inglese, conservando anche la forma grafica originale.
A convenient way to describe an act of communication is to answer the following questions:
Who
Says What
In Which Channel
To Whom
With What Effect?
The scientific study of the process of communication tends to concentrate upon one or another of these questions.

Un modo utile di descrivere un atto di comunicazione è rispondere alle seguenti domande: chi dice – che cosa – attraverso quale canale – a chi – con quale effetto? Lo studio scientifico del processo di comunicazione tende a concentrarsi sull’uno o sull’altro di questi interrogativi (Il paragrafo procede collegando concretamente i vari settori di studio con i singoli interrogativi).

McQuail afferma che questa probabilmente è la frase più famosa mai scritta nell’ambito della communication research. Venne assunta come l’equivalente di un vero e proprio modello interpretativo della c. a livello di c. di massa. Definita ‘la formula di Lasswell’ fu anche trasformata in un grafico analogo a quello di Shannon (McQuail-Windahl, 1981):
Tavola 2
In realtà, nel testo originale di Lasswell non c’è alcun grafico, né ci sono frecce che evidenziano la dinamica del processo. Sono invece molti i manuali che presentano in questo modo la proposta di Lasswell.
Le osservazioni che si possono fare sono le seguenti:
– È evidente la dipendenza della formula lasswelliana dalla tradizione che risale alla retorica e alla filosofia morale dell’antichità, una tradizione che non è stata dimenticata, se nel mondo giornalistico anglosassone da sempre viene ricordata la legge delle 5 W, come struttura di ogni suo buon reportage: Who - chi, Where - dove, When - quando, What - che cosa, Why - perché.
In pratica l’originalità di H. D. Lasswell sta nell’applicare un antico modo di analizzare le azioni umane al complesso dei media (si veda quanto si è detto sopra a proposito del Modello ‘retorico’). La variante più significativa introdotta è l’interrogativo sugli ‘effetti’: non c’è però un cambiamento di logica, viene solo recepito l’interesse più vivo che guidava allora gli studi sui mass media.
Una conferma che la formula lasswelliana ha radici classiche la si ricava anche dal modo in cui viene perfezionata da R. Braddock nel 1952 (ne dà relazione sul Journal of Communication nel 1958). Egli propone di aggiungere altri due interrogativi, uno relativo allo scopo che guida l’azione dei media e l’altro alle circostanze in cui essi operano, ma in questo modo non fa che recuperare l’intera formula di Tommaso di Aquino, in particolare il cur (perché), il quomodo e il quando (il modo e il quando).
– La formula di Lasswell si è dimostrata utile e ha avuto grande successo. La sua divulgazione nella forma di grafico l’ha di fatto trasformata da schema prevalentemente statico (che si limitava a indicare i grandi settori in cui può essere organizzato lo studio dei media) a schema dinamico, arricchendosi di concetti originariamente esclusivi della proposta di Shannon.

4.2.2. Il modello di Shannon nell’interpretazione di W. Weaver.
Lo studio di Shannon A mathematical theory of communication (1948) ottenne immediatamente la massima attenzione nella comunità scientifica, soprattutto nella cerchia degli studiosi interessati alle telecomunicazioni, alla costruzione dei computer e, in generale, alla cibernetica. La fondazione Rockefeller di New York ne patrocinò una più ampia divulgazione e propose una nuova ristampa, chiedendo però a un altro matematico (non un filosofo, come qualche volta si legge), W.Weaver, di compiere un lavoro di ‘traduzione’ dall’ostico linguaggio matematico in un linguaggio più comprensibile. L’anno successivo (1949) esce il libro, chiaramente diviso in due parti: nella prima c’è la presentazione della nuova teoria da parte di Weaver; nella seconda viene ristampato il testo di Shannon senza alcun cambiamento (nella Prefazione si afferma "... salvo la correzione di pochi insignificanti errori di battitura"). Il titolo non è più A mathematical theory of communication (Una teoria matematica della comunicazione), ma The mathematical theory (La teoria matematica...).
Questo cambio non è di poco conto. È segno della accoglienza incondizionata che i diversi ambienti scientifici hanno riservato allo studio di Shannon (non solo matematici e fisici, ma anche biologi, psicologici, sociologici e quella larga cerchia di studiosi che gravitavano attorno a N. Wiener); nello stesso tempo rivela una profonda trasformazione di prospettiva: uno studio di settore, unicamente mirato a ottimizzare la trasmissione di segnali elettromagnetici in un circuito, viene presentato come la teoria generale di ogni forma di comunicazione. W. Weaver registra questo tipo di interpretazione e nello stesso tempo ne diventa il principale propagatore. Mentre nel testo di Shannon si cerca inutilmente sia l’applicazione della sua analisi ad altri processi comunicativi sia una qualche proposta di generalizzazione, Weaver fa esattamente l’opposto. A p. 25 egli scrive: "Prima e ovvia osservazione... è che la teoria matematica ha un ambito d’applicazione straordinariamente ampio, fondamentale nelle problematiche che tratta, classica nella sua semplicità, potente per i risultati che raggiunge. Questa è una teoria così generale che non è necessario specificare quale genere di simboli si prendano in considerazione, siano essi lettere o parole, note musicali o linguaggio parlato, musica sinfonica o immagini... Da tutto questo è ovvio dedurre che la teoria è così intuitivamente potente da raggiungere il nucleo più profondo del problema comunicazione, le relazioni fondamentali che essa mantiene, indipendentemente dalla forma assunta dal caso particolare".
A proposito di tutto questo diventa significativa la prima nota a piè pagina del libro, dove si specifica di chi sia la paternità dei diversi capitoli: a riguardo delle pagine di Shannon si precisa che sono la fedele ristampa dell’articolo comparso l’anno precedente sul Bell System Technical Journal (in altre parole egli continua a ritenere la sua una teoria, non la teoria matematica della c.); le parti nuove sono attribuite in modo esclusivo a Weaver, sia per il loro contenuto che per la forma: W. W. is responsible both for the ideas and the form (p. 3, nota 1).
Le conseguenze della generalizzazione compiuta da Weawer sono varie, una però la decisiva: molti concetti, che nello studio della comunicazione sono stati recepiti come ‘teoria di Shannon’, in realtà appartengono all’interpretazione di Weaver: di conseguenza molte delle critiche di cui il modello Shannon è oggetto sono fuori bersaglio; e, viceversa, l’entusiasmo per la proposta Shannon come strumento di analisi della comunicazione umana è fuori luogo, a meno che non la si utilizzi come una metafora, piuttosto che come definizione. L’aspetto più innovativo della teoria di Shannon è il concetto di informazione, diretta conseguenza del suo modo di concepire la fonte, come sorgente casuale di un certo numero di messaggi: di qui prendono efficacia le altre sue proposte, compreso lo schema del processo.
L’applicazione entusiasta di questa teoria a proposito della c. umana ha dimenticato questa premessa teorica, che risulta essere assolutamente inapplicabile al caso specifico. Mentre per la teoria dell’informazione tutti i messaggi trattabili dal sistema sono perfettamente noti sia a livello di trasmittente (transmitter) che di destinazione (destination) e quindi ‘comunicare’ significa ‘inviare il codice di identificazione del messaggio preso in considerazione’, nel caso della comunicazione umana – per definizione – i messaggi non sono conosciuti in anticipo da emittente e ricevente. Non si parte dalla ricognizione esaustiva di tutti i messaggi ammessi dal sistema e quindi si invia un numero di identificazione. Al di fuori del lavoro di collaborazione degli interlocutori non esiste il messaggio: il suo contenuto è da ricostruire da parte del ricevente: l’emittente fornisce dati, modifica il mondo percettivo del ricevente, per dargli indicazioni di lavoro. Questi usa codici verbali e non verbali, indicazioni metalinguistiche per capire testo e contenuti, e sulla base delle esperienze precedenti elabora il significato del messaggio. Ma il sistema non dà garanzie di successo: se i due vogliono assicurarsi, devono fare essi stessi una serie di verifiche (feedback).
La metafora da usare per l’uomo non è la trasmissione di un messaggio postale, se mai la scrittura a due mani. Il messaggio non basta identificarlo, bisogna costruirlo; non si inviano dei numeri, ma delle istruzioni di lavoro.
Mentre all’inizio questa incompatibilità di principio è stata sottovalutata, con gli anni l’entusiasmo per la efficacia interpretativa della proposta "Shannon-Weawer" è andata decrescendo e nei suoi confronti sono emerse critiche pesanti: nel modello non c’è traccia di feedback; esso è strettamente lineare, inadeguato a rappresentare la circolarità della c. umana; il ricevente vi è rappresentato come soggetto passivo, semplice destinatario del messaggio; eccessivamente elementare l’idea che basti un’operazione di codifica e di decodifica, la ‘costruzione’ del messaggio è operazione molto più complessa; assente è ogni riferimento al contesto.
Si tratta di obiezioni importanti, nessuna delle quali però – a ben vedere – vale per la proposta originale di Shannon. È piuttosto facile documentare come molte delle idee contenute nelle critiche sono già presenti nel testo di Shannon: la categoria rumore indica esattamente – in termini tecnici – l’attenzione al contesto; la struttura del circuito è vista nella sua forma più semplice, dove il segnale va dal punto ‘A’ al punto ‘B’ (anche il segnale di feedback, scomposto nelle singole fasi, è lineare); Shannon non solo ha studiato e scritto a proposito di feedback, ma a pag. 68 presenta un secondo schema dove è inserito un circuito di controllo.
Tavola 3
Sono molti i modelli grafici elaborati successivamente a partire da quello tracciato da Shannon, dove vengono eliminate – a seconda dei casi – questa o quella incongruenza, magari costruendo delle forme assai complesse. Interessante per la sua semplicità e chiarezza è invece il modello presentato da W. Schramm, con il contributo di Charles E. Osgood (vedi tavola). Con perspicacia si sposta l’attenzione sui soggetti umani (riducendo – rispetto a ‘Shannon’ – l’importanza del canale) e si evidenzia come nella c. umana i due interlocutori non abbiano funzioni fisse: sono ambedue interpreti, allo stesso tempo emittenti e riceventi, impegnati a codificare e a decodificare i messaggi.
Il grafico propone con forte evidenza la ‘circolarità’ del comunicare umano. Si tratta di una metafora capace di tradurre in forma visiva un fatto preciso: l’informazione non fluisce in una sola direzione. Come sempre, però, la metafora va corretta; l’immagine del cerchio, presa alla lettera, non registra possibili cambiamenti, in quanto, finito il giro, ci si trova esattamente nella situazione iniziale. Da questo punto di vista il modello è carente: interagendo tra loro gli ‘interpreti’ cambiano, nessuno rimane com’era; quanto viene comunicato ora, condiziona e modifica ciò che si dirà domani. Se nel costruire un modello grafico va evitata l’idea della linearità, qualcosa d’altro va introdotto per esprimere la dinamicità e la novità insite nella c.
La proposta di cambiare la metafora del movimento circolare in quella del movimento elicoidale venne fatta da F. E. X. Dance – per vari anni direttore del Journal of Communication – in un lavoro pubblicato nel 1967. Si manteneva così l’idea della circolarità degli scambi, ma insieme era in forte evidenza la natura dinamica della c.

4.2.3. Il modello di R. Jakobson.
Tavola 4
A conclusione del convegno interdisciplinare sul tema Lo stile nel linguaggio, organizzato dall’Indiana University nell’aprile del 1958, venne affidato a Roland Jakobson il compito di elaborare un bilancio critico dei lavori svolti. A modo di premessa al suo intervento – Closing statemets: linguistics and poetics – egli ritenne indispensabile tracciare "una rassegna... dei fattori costitutivi di ogni processo linguistico, di ogni atto di comunicazione verbale". È questo il testo a cui tutti fanno riferimento quando ricordano il modello di Jakobson. In realtà egli l’aveva già presentato nel discorso inaugurale – Metalanguage as a linguistic problem – in occasione dell’incontro annuale della Linguistic Society of America (27 dicembre 1956). Le due presentazioni sono concettualmente identiche, salvo il fatto che quella del 1956 è più sintetica, mentre quella del 1958 compie un’analisi più diffusa. È per questa ragione che anche qui si utilizza il testo del 1958, tanto più che solo esso è disponibile in italiano (nel volume Saggi di linguistica generale, prima edizione 1966; per tutti i riferimenti bibliografici si veda Bibliografia e Link). La trattazione che ci interessa è nelle pagine 185-191: il paragrafo iniziale elenca i "fattori insopprimibili della comunicazione verbale"; segue lo schema riprodotto nella tavola n. 4 e, quindi, la riflessione dedicata alle sei funzioni che il linguaggio (la c. umana) può svolgere.
"Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto... che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune a mittente e destinatario...; infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica tra mittente e destinatario... che consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione".
Lo stesso Jakobson (p. 188) segnala la sua dipendenza dalla proposta di Bühler, rispetto al quale intende svolgere un lavoro complementare. Non si limita infatti ai tre componenti studiati dal linguista tedesco, aggiunge Contesto, Contatto e Codice, recependo così quanto di più attento era stato detto negli anni Quaranta e Cinquanta. Nel testo non c’è alcun cenno al modello di Shannon, ma il lettore, che conosce la rappresentazione grafica di Bühler, non può non trovare in alcuni dei termini usati (messaggio, contatto-canale, codice) e nella nuova disposizione dei ‘fattori’ una precisa dipendenza con lo studio di Shannon. La proposta di Jakobson (comprendente l’acuta analisi delle funzioni) ha offerto un grande servizio allo studio della c. umana: non paga alcun tributo a semplificazioni operate rispetto a proposte di derivazione fisico-matematica e porta con sé la ricchezza della tradizione degli studi linguistici. Non si parla ancora esplicitamente dell’attività del ricevente (quantunque interessante sia la nota a riguardo del contesto afferrabile e verbalizzabile da parte del destinatario) della interazione paritetica tra mittente e destinatario, e di altre componenti messe in luce da altri studiosi; c’è però qui un modello affidabile.

4.2.4. I modelli applicati alle c. di massa.
Un modello è tanto più prezioso quanti più numerosi sono gli elementi da tenere sotto controllo e quando c’è bisogno di indicare anche il tipo di relazione che vige tra le parti: a queste esigenze risponde molto bene il linguaggio grafico. Nell’ambito della sociologia dei mass media – soprattutto prima degli anni Settanta – i modelli non solo si moltiplicano, ma diventano sempre più analitici (perché devono documentare nuove scoperte) e sempre più complessi, con lo svantaggio di una diminuita leggibilità a livello intuitivo. Probabilmente anche questa ragione (oltre all’emergere di nuove frontiere di studio poco adatte a forme di rappresentazione grafica, come ad esempio gli studi su riti e rituali di E. Goffman e di V. Turner ) ha determinato un quasi abbandono dei modelli, salvo nei testi dove si documenta la storia delle scienze interessate alla c.
Tavola 5
A titolo di esemplificazione ne riportiamo due, per la loro capacità di rappresentare in modo diretto il quadro teorico messo a punto dagli autori. Il primo si ricollega alle ricerche sul modo in cui i media raggiungono il pubblico e come quest’ultimo agisce a proposito dei messaggi inviati; esse durarono oltre un decennio e furono condotte sotto la guida di P. F. Lazarsfeld. Il grafico visualizza la teoria denominata two-step flow, così come è presentata nel classico studio L’influenza personale del 1955.
Nella parte alta dello schema (vedi tavola) il modello rappresenta come era concepita l’audience nelle ricerche precedenti al lavoro di Lazarsfeld (e come molti ancora oggi continuano a concepirla): un insieme disgregato di individui che formano la massa. In realtà – si veda la seconda parte dello schema – i singoli uditori sono già organizzati dentro un complesso reticolo comunicativo gestito da relazioni interpersonali; i messaggi provenienti dai media trovano dunque un pubblico attivamente organizzato (leader d’opinione).
Il secondo (vedi tavola n. 6) è quello proposto da Riley J. W. e Riley M. W. nel 1959 in Mass communication and the social system, elaborato per documentare una ricerca in corso, pubblicato poi in un testo classico della sociologia, edito da R. K. Merton, Sociology today.
Tavola 6
Detto che C sta per Comunicatore e che R per Ricevente, il resto del grafico è facilmente intuibile: ciascuno dei due soggetti è inserito in una sua struttura sociale, dove intrattiene rapporti con gruppi primari (di appartenenza e di riferimento), il tutto inserito in un contesto socioculturale generale. È assai evidente il peso che i due autori danno al radicamento del singolo nel suo contesto sociale allargato e, soprattutto, nei gruppi a cui appartiene: i messaggi, sia quelli scambiati direttamente dai due soggetti sia quelli di altra provenienza, non trovano il vuoto.
Il merito dei Riley è di aver messo in evidenza con i loro studi – di cui il modello è una semplice sintesi – che le c. di massa sono soltanto uno dei sistemi sociali in gioco; la loro azione sui singoli e sui gruppi è efficacemente condizionata da fattori studiati dalla psicologia e dalla sociologia.

5. Conclusione

In sede di bilancio conclusivo, il dato più evidente è che ci si deve adattare alla mancanza di una definizione vera e propria della c., così come di un modello in grado di rappresentarne struttura e funzioni. Un’analisi compiuta dovrà così assumere necessariamente punti di vista diversi, inquadrare aspetti parziali del fenomeno, produrne declinazioni particolari. Occorrerà soltanto evitare le generalizzazioni e non considerare la definizione volta a volta utilizzata come un assioma da cui dedurre ‘logiche’ conseguenze.
Tuttavia alcune caratteristiche ‘costanti’ sono state identificate. Proviamo sinteticamente a indicarle:
  1. la c. costituisce l’essere umano, ne rappresenta la specificità ontologica. L’uomo nasce da un atto di comunione tra un uomo e una donna, si sveglia alla coscienza e cresce in essa grazie al dialogo; si muove nel mondo come in una selva di segni e si serve del linguaggio per decifrarli e condividerne con gli altri l’interpretazione (Heidegger). L’homo sapiens è homo communicans;
  2. la c. è scambio simbolico, in cui intervengono in modo attivo e creativo tutti e due i soggetti. Non c’è asimmetria tra emittente e ricevente, ma reciprocità: l’uno e l’altro sono attori allo stesso titolo del processo di c.;
  3. in gioco, nella c., non è soltanto la produzione/trasmissione di un messaggio, ma la costruzione di un significato. La sociologia di impostazione fenomenologica (Schulz, Berger, Luckmann) parla a proposito di un vero e proprio lavoro di negoziazione: quello che intercorre tra due individui che comunicano è una vera e propria trattativa, una contrattazione, il cui risultato è un’immagine condivisa del mondo;
  4. lo scambio simbolico, operato a partire da questa contrattazione, consente all’uomo di definire il suo sapere, la sua immagine della realtà. La realtà che noi conosciamo è una ‘realtà sociale’ più che ‘naturale’: non esiste una nostra conoscenza che non sia mediata dalla cultura cui apparteniamo e che contribuiamo a costruire;
  5. oltre a questa dimensione sociale, la c. – non solo in contesto religioso – ne presenta anche una rituale. Molti fatti di c. servono a confermare un certo modo di essere, aiutano nella fase di passaggio a un’altra situazione, guariscono o leniscono quanto di doloroso non può essere evitato. La ritualità della c. è presente, con un significato più debole, anche in molte manifestazioni della cultura dei media: è sufficiente pensare ai riti catartici della televisione degli affetti, ai riti dell’appuntamento fisso con la fiction preferita, ai riti sociali della partita di calcio teletrasmessa, o ai riti mediali veri e propri, come i viaggi del Papa o i funerali di Lady Diana di Inghilterra (Media event).
  6. il soggetto umano vive all’interno di una rete di c. interpersonali che non possono prescindere dai contesti sociali, storici e culturali. Non esiste c. che di questi contesti non risenta.
Difficilmente si può lavorare oggi su un modello di c. senza condividere questi assunti di base.

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Lever Franco , Rivoltella Pier Cesare , Zanacchi Adriano , Comunicazione, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (28/03/2024).
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