Surrealismo
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Autore: Guido Michelone
La vasta esperienza dell’avanguardia è da vedersi in una prospettiva che interconnetta e sovrapponga le diverse correnti artistiche: in tale ambito di scambi e influenze il dadaismo (carico di irrazionalità, gioco e anarchia in spregio all’ordine ‘borghese’ e alla tradizione culturale) e poi il s. (metamorfosi del dada verso la scoperta incontrollata delle profondità del subcosciente per produrre un mondo di immagini svincolato dalle leggi della realtà fenomenica) lasciano tracce profonde anche nel cinema.
Molti i personaggi (artisti, letterati, intellettuali dalle mille attività) affacciatisi sui set artigianali dei film dada-surrealisti del periodo dai primi anni Venti fino alla metà dei Trenta. Germaine Dulac con La coquille et le clergyman (1927), dal complesso simbolismo sessuale di derivazione eminentemente letteraria (sceneggiatura del drammaturgo Antonin Artaud), narra dei fantasmi interiori di un uomo di chiesa ossessionato dal desiderio, alternando sequenze di sogni a gesti e situazioni irreali e grottesche, incubi diurni e metafore erotiche di derivazione inconscia.
Il fascino emanato da oggetti, macchine e tecnologia in genere che colpisce il pittore postcubista Fernand Léger, lo porta a realizzare nel 1924 Il balletto meccanico, vera summa di ‘pura visibilità’. Si vedono, attraverso un ritmo di montaggio calcolatissimo, oggetti di tutti i tipi (pentole, bottiglie, imbuti, cappelli, sfere, meccanismi a vapore e così via) ripresi in ogni modo possibile: specchi riflettenti e lenti deformanti, alternati a primi piani femminili, animazioni a fotogramma per fotogramma di cifre e lettere dell’alfabeto, sovrimpressioni multiple, disegni geometrici. Per l’autore, ciò deve ‘rimpiazzare il grande soggetto con l’oggetto’; svuotate del loro valore abituale, di puro utilizzo, le cose diventano una pura forma in movimento, dotate di una forte presenza dissacratoria (in linea con l’estetica dadaista) e di una sorta di anima significante di per sé stessa.
Altra opera provocatoria e sconcertante è Entr’acte (1924) di René Clair, capolavoro tra dada e s. Il mediometraggio, scritto in collaborazione ancora con un pittore (Francis Picabia), viene concepito come ‘intermezzo’ del balletto Relâche, dello stesso Picabia su musiche di Erik Satie. Per l’artista il film vuol essere: "un intermezzo alle imbecillità quotidiane e alla monotonia della vita"; animato da un furore iconoclasta di fondo e da un gusto per lo sberleffo e l’oltraggio tipico dei dadaisti, è impostato con gag visive autonome e non-senses fenomenali. Senza fare uso degli espedienti tecnici precipui dell’avanguardia filmica, ma con stile rigoroso ed equilibrato, Entr’acte vive di una forza eversiva e divertente, provocatoria e ‘antiborghese’ nel modo di dare un aspetto illogico e ridicolo alla realtà.
Marcel Duchamp (sue le scandalose anticipazioni del concettualismo come l’orinatoio, i baffi alla Gioconda o la ruota di bicicletta ) realizza, assieme a Man Ray e Marc Allegret, il film Anémic Cinéma (1925-26). In pochi minuti di proiezione (sette in tutto) vengono mostrati i rotoreliefs realizzati appositamente dall’autore (dischi rotanti con spirali disegnate ed enigmatici giochi verbali), nell’atto di girare su se stessi. In bilico tra ricerca sull’arte cinetica (i dischi, ruotando, provocano differenti effetti percettivi) e raffinato ludus cerebrale con ricche allusioni a poesia e linguistica oltre al concetto stesso di immagine cinematografica (anèmic | cinéma: la prima parte del titolo è immagine speculare della seconda!) questo breve film è fondamentale per capire il senso dell’estetica dadaista e del cinema fra dada e s.: capolavoro nell’oscillare tra illusione e concretezza, fino a farsi metadiscorso globale.
"Tutti i film che ho diretto sono state altrettante improvvisazioni. Non scrivevo la sceneggiatura. Si trattava di un cinema automatico. La mia intenzione era di mettere in movimento le composizioni che facevo in fotografia". Questa affermazione di Man Ray offre un adeguato punto di partenza per esaminarne la produzione surreale. Fotografo e scultore, Ray realizza nel 1923 Retour à la raison: con la ragione il film non ha nulla a che vedere, essendo costituito dal montaggio casuale e improvvisato di spezzoni di pellicola e negativi realizzati con tecniche audacissime, senza progetto di significanza metaforica o realista. È un’opera alla ricerca di quella non-arte di teoria dadà, al fine di rendere vano ogni sforzo di essere capita o inserita in schemi interpretativi assodati; lo scopo è quindi il ‘gesto irrazionale’, tanto più forte quanto più indecifrabile e impossibile, tanto più efficace quanto più spontaneo e libero (automatico, appunto).
Luis Buñuel rappresenta l’itinerario più coerente di tutta l’avanguardia, per rigore e forza eversiva delle immagini. Di schietta formazione surrealista, Buñuel cerca, attraverso un alfabeto visivo carico di onirismi, simboli, violenze e demistificazioni, la via per il libero sfogo all’interiorità repressa dalle convezioni sociali e dai fantasmi dell’inconscio, la chiave per la ‘surrealtà’ della vita in grado di scoprire e combattere filtri culturali, ideologici e politici, l’arma per opporsi ai dogmi del potere e del fanatismo religioso. Il suo Un chien andalou (1928), realizzato assieme al pittore Salvador Dalì, risponde al procedimento teorizzato da quest’ultimo, il "metodo paranoico-critico", guida e selezione cosciente per inscenare irrefrenabili e caotici contenuti (a loro volta inconsci, erotici, aggressivi). Il film mostra in effetti (entro una traccia narrativa identificabile con la ricerca di identità sessuale del protagonista) una serie emblematica di immagini-choc, quali scene-madri di un film definito dall’autore "un disperato appello all’omicidio" per via della logica di scopertura dell’inconscio (la ‘scrittura automatica’ cara ai surrealisti) e di sovvertimento dell’io cosciente (cani, andalusi o meno, non se ne vedono, secondo i principi spiazzanti della titolazione surrealista).
Buñuel è l’unico regista del s. a intraprendere una lunga e infaticabile carriera nel cinema industriale fino alla morte: nonostante alcuni cedimenti ai film di cassetta, egli realizza durante una cinquantennale carriera alcune pietre miliari della storia del cinema, capolavori surrealisti, anche quando il s. come movimento è ormai finito: da ricordare il ritorno al pieno s., ormai ottuagenario con Il fascino discreto della borghesia (1972), Il fantasma della libertà (1974) e Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977).
Molti i personaggi (artisti, letterati, intellettuali dalle mille attività) affacciatisi sui set artigianali dei film dada-surrealisti del periodo dai primi anni Venti fino alla metà dei Trenta. Germaine Dulac con La coquille et le clergyman (1927), dal complesso simbolismo sessuale di derivazione eminentemente letteraria (sceneggiatura del drammaturgo Antonin Artaud), narra dei fantasmi interiori di un uomo di chiesa ossessionato dal desiderio, alternando sequenze di sogni a gesti e situazioni irreali e grottesche, incubi diurni e metafore erotiche di derivazione inconscia.
Il fascino emanato da oggetti, macchine e tecnologia in genere che colpisce il pittore postcubista Fernand Léger, lo porta a realizzare nel 1924 Il balletto meccanico, vera summa di ‘pura visibilità’. Si vedono, attraverso un ritmo di montaggio calcolatissimo, oggetti di tutti i tipi (pentole, bottiglie, imbuti, cappelli, sfere, meccanismi a vapore e così via) ripresi in ogni modo possibile: specchi riflettenti e lenti deformanti, alternati a primi piani femminili, animazioni a fotogramma per fotogramma di cifre e lettere dell’alfabeto, sovrimpressioni multiple, disegni geometrici. Per l’autore, ciò deve ‘rimpiazzare il grande soggetto con l’oggetto’; svuotate del loro valore abituale, di puro utilizzo, le cose diventano una pura forma in movimento, dotate di una forte presenza dissacratoria (in linea con l’estetica dadaista) e di una sorta di anima significante di per sé stessa.
Altra opera provocatoria e sconcertante è Entr’acte (1924) di René Clair, capolavoro tra dada e s. Il mediometraggio, scritto in collaborazione ancora con un pittore (Francis Picabia), viene concepito come ‘intermezzo’ del balletto Relâche, dello stesso Picabia su musiche di Erik Satie. Per l’artista il film vuol essere: "un intermezzo alle imbecillità quotidiane e alla monotonia della vita"; animato da un furore iconoclasta di fondo e da un gusto per lo sberleffo e l’oltraggio tipico dei dadaisti, è impostato con gag visive autonome e non-senses fenomenali. Senza fare uso degli espedienti tecnici precipui dell’avanguardia filmica, ma con stile rigoroso ed equilibrato, Entr’acte vive di una forza eversiva e divertente, provocatoria e ‘antiborghese’ nel modo di dare un aspetto illogico e ridicolo alla realtà.
Marcel Duchamp (sue le scandalose anticipazioni del concettualismo come l’orinatoio, i baffi alla Gioconda o la ruota di bicicletta ) realizza, assieme a Man Ray e Marc Allegret, il film Anémic Cinéma (1925-26). In pochi minuti di proiezione (sette in tutto) vengono mostrati i rotoreliefs realizzati appositamente dall’autore (dischi rotanti con spirali disegnate ed enigmatici giochi verbali), nell’atto di girare su se stessi. In bilico tra ricerca sull’arte cinetica (i dischi, ruotando, provocano differenti effetti percettivi) e raffinato ludus cerebrale con ricche allusioni a poesia e linguistica oltre al concetto stesso di immagine cinematografica (anèmic | cinéma: la prima parte del titolo è immagine speculare della seconda!) questo breve film è fondamentale per capire il senso dell’estetica dadaista e del cinema fra dada e s.: capolavoro nell’oscillare tra illusione e concretezza, fino a farsi metadiscorso globale.
"Tutti i film che ho diretto sono state altrettante improvvisazioni. Non scrivevo la sceneggiatura. Si trattava di un cinema automatico. La mia intenzione era di mettere in movimento le composizioni che facevo in fotografia". Questa affermazione di Man Ray offre un adeguato punto di partenza per esaminarne la produzione surreale. Fotografo e scultore, Ray realizza nel 1923 Retour à la raison: con la ragione il film non ha nulla a che vedere, essendo costituito dal montaggio casuale e improvvisato di spezzoni di pellicola e negativi realizzati con tecniche audacissime, senza progetto di significanza metaforica o realista. È un’opera alla ricerca di quella non-arte di teoria dadà, al fine di rendere vano ogni sforzo di essere capita o inserita in schemi interpretativi assodati; lo scopo è quindi il ‘gesto irrazionale’, tanto più forte quanto più indecifrabile e impossibile, tanto più efficace quanto più spontaneo e libero (automatico, appunto).
Luis Buñuel rappresenta l’itinerario più coerente di tutta l’avanguardia, per rigore e forza eversiva delle immagini. Di schietta formazione surrealista, Buñuel cerca, attraverso un alfabeto visivo carico di onirismi, simboli, violenze e demistificazioni, la via per il libero sfogo all’interiorità repressa dalle convezioni sociali e dai fantasmi dell’inconscio, la chiave per la ‘surrealtà’ della vita in grado di scoprire e combattere filtri culturali, ideologici e politici, l’arma per opporsi ai dogmi del potere e del fanatismo religioso. Il suo Un chien andalou (1928), realizzato assieme al pittore Salvador Dalì, risponde al procedimento teorizzato da quest’ultimo, il "metodo paranoico-critico", guida e selezione cosciente per inscenare irrefrenabili e caotici contenuti (a loro volta inconsci, erotici, aggressivi). Il film mostra in effetti (entro una traccia narrativa identificabile con la ricerca di identità sessuale del protagonista) una serie emblematica di immagini-choc, quali scene-madri di un film definito dall’autore "un disperato appello all’omicidio" per via della logica di scopertura dell’inconscio (la ‘scrittura automatica’ cara ai surrealisti) e di sovvertimento dell’io cosciente (cani, andalusi o meno, non se ne vedono, secondo i principi spiazzanti della titolazione surrealista).
Buñuel è l’unico regista del s. a intraprendere una lunga e infaticabile carriera nel cinema industriale fino alla morte: nonostante alcuni cedimenti ai film di cassetta, egli realizza durante una cinquantennale carriera alcune pietre miliari della storia del cinema, capolavori surrealisti, anche quando il s. come movimento è ormai finito: da ricordare il ritorno al pieno s., ormai ottuagenario con Il fascino discreto della borghesia (1972), Il fantasma della libertà (1974) e Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977).
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Bibliografia
- BRETON André, Il surrealismo e la pittura, Abscondita, Milano 2010.
- BRETON André, Manifesti del surrealismo, Einaudi, Torino 2003.
- KYRON Adonis, Le surréalisme au cinéma, Le Terrain Vague, Paris 1963.
- LAURA Ernesto G., Hitchcock e il surrealismo. Il filo inesplorato che lega il maestro del cinema all'arte del Novecento, L'Epos, Palermo 2005.
- RAGOZZINO Marta, Surrealismo, Giunti Editore, Firenze 2007.
- WALDBERG Patrick, Surrealismo, Mazzotta, Milano 1967.
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Note
Come citare questa voce
Michelone Guido , Surrealismo, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (21/11/2024).
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