Telelavoro
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Autore: Carlo Gagliardi
Nell’accezione comune t. significa ‘lavoro a distanza’ eseguito mediante nuove tecnologie d’informazione e di telecomunicazione. L’innovazione tra le più diffuse applicazioni sociali del computer consiste appunto nel trasferire attività lontano dall’azienda; tuttavia questa forma organizzativa abbraccia più situazioni eterogenee che sono legate, sostanzialmente, a due diverse modalità. La differenza dipende da come l’interazione informatica incide sull’operatività e, più in generale, sulla qualità del lavoro. Se i collegamenti (online oppure offline) non modificano le modalità operative, salvo in entrata e in uscita, allora il t. è una realtà soltanto apparente, connota in maniera vistosa una semplice ‘delocalizzazione di attività’: è il caso di molte funzioni ripetitive (quali immissione dati, fatturazioni, ordinazioni, smistamento reclami, ecc.) che riguardano piuttosto il telecommuting e gran parte del homework, in cui si fa ‘fuori’ più o meno quello che si faceva ‘dentro’. Diversa la situazione in cui non cambia soltanto la posizione ma anche la ‘struttura del lavoro’: si modificano i modi di comunicare (non semplicemente di informare), di decidere e risolvere i problemi, non per il fatto di utilizzare un computer (cosa che si fa anche in azienda) ma perché "il collegamento telematico muta la natura delle relazioni con le risorse, le funzioni e le competenze presenti in azienda e fuori". Un tipico esempio di questo t. in senso stretto è il lavoro cooperativo informaticamente assistito (groupware).
Seguire una via o l’altra è discriminante per una effettiva modernizzazione del lavoro e l’aumento della capacità organizzativa e competitiva dell’azienda. Se l’adozione della telematica non si accompagna a un’adeguata trasformazione strutturale, il potenziale di cambiamento viene sfruttato al minimo. Se poco cambia nelle relazioni gerarchiche e interfunzionali, se la struttura informativa rimane compartimentata, se ai documenti cartacei si dà maggior credito che a quelli informatizzati, se si continua a premiare più gli adempimenti che gli obiettivi raggiunti, allora gli eventuali miglioramenti si conseguono piuttosto per ragioni estrinseche. Si può ottenere una riduzione dei costi derivante dall’eliminazione di spazi d’ufficio o anche una crescita del rendimento individuale per effetto del t., ma senza incidere sostanzialmente sulla produttività aziendale, sulla flessibilità, qualità e tempestività del servizio reso al cliente. È il caso di quelle aziende che, nell’introdurre t. e/o lavoro mobile, hanno puntato più sull’abbattimento dei costi che su obiettivi di performance, più sulla tecnologia che sulla ristrutturazione, non comprendendo che "il t. non è lavoro più tecnologia meno spazio/tempo, ma è organizzazione che incorpora tecnologia che incorpora spazio/tempo" (Ceri 1998).
"Che cos’è il t., se non il ritorno del vecchio e per più versi giustamente deprecato lavoro a domicilio?". È questo il dubbio avanzato dal sociologo Ferrarotti (1996). A ben vedere il ‘lavoro a domicilio’ modernamente inteso è solo una delle possibili forme di t. Il Tavinstock Institute of Human Relation di Londra ha proposto un criterio di classificazione basato sul grado di mobilità richiesta: 1) t. mobile (a esso corrisponde il massimo livello di mobilità, in quanto il lavoratore, ad esempio un venditore, non ha sede fissa ma svolge la propria attività spostandosi da un luogo all’altro); 2) strutture distribuite (a mobilità intermedia, sono costituite dall’azienda che trasferisce parte delle attività in locali appositamente attrezzati vicino alle residenze dei dipendenti); 3) centri di t. (anch’essi in posizione intermedia lungo la scala della mobilità, sono strutture multisocietarie/aziendali dove lavoratori di diverse aziende e lavoratori autonomi forniscono le loro prestazioni); 4) t. a domicilio (cui corrisponde il livello minimo di mobilità, in quanto l’attività si svolge, del tutto o in modo prevalente, nell’abitazione del lavoratore).
Il t. rappresenta una tendenza evolutiva in atto dopo il superamento, da un lato, dell’economia industriale classica con società rigida, caratterizzata dall’accentramento dei mezzi di produzione (di ispirazione fordista e taylorista) e, dall’altro, del modello di città che Le Corbusier chiama "funzionale" (ogni ruolo e classe ai propri posti: zona industriale, quartiere dormitorio, centro commerciale, nucleo amministrativo). Ai singoli lavoratori il t. può assicurare maggiore flessibilità nella gestione del rapporto tra occupazione e tempo libero, determinando tra l’altro una contrazione dei tempi di spostamento e delle spese di trasporto (Zurzolo, 1997). Sul piano sociale aggiunge Nilles (1998) pur non essendo una panacea per tutti i problemi urbani (traffico, pendolarismi, inquinamento, ecc.), il t. può contribuire a innalzare la qualità della vita.
Seguire una via o l’altra è discriminante per una effettiva modernizzazione del lavoro e l’aumento della capacità organizzativa e competitiva dell’azienda. Se l’adozione della telematica non si accompagna a un’adeguata trasformazione strutturale, il potenziale di cambiamento viene sfruttato al minimo. Se poco cambia nelle relazioni gerarchiche e interfunzionali, se la struttura informativa rimane compartimentata, se ai documenti cartacei si dà maggior credito che a quelli informatizzati, se si continua a premiare più gli adempimenti che gli obiettivi raggiunti, allora gli eventuali miglioramenti si conseguono piuttosto per ragioni estrinseche. Si può ottenere una riduzione dei costi derivante dall’eliminazione di spazi d’ufficio o anche una crescita del rendimento individuale per effetto del t., ma senza incidere sostanzialmente sulla produttività aziendale, sulla flessibilità, qualità e tempestività del servizio reso al cliente. È il caso di quelle aziende che, nell’introdurre t. e/o lavoro mobile, hanno puntato più sull’abbattimento dei costi che su obiettivi di performance, più sulla tecnologia che sulla ristrutturazione, non comprendendo che "il t. non è lavoro più tecnologia meno spazio/tempo, ma è organizzazione che incorpora tecnologia che incorpora spazio/tempo" (Ceri 1998).
"Che cos’è il t., se non il ritorno del vecchio e per più versi giustamente deprecato lavoro a domicilio?". È questo il dubbio avanzato dal sociologo Ferrarotti (1996). A ben vedere il ‘lavoro a domicilio’ modernamente inteso è solo una delle possibili forme di t. Il Tavinstock Institute of Human Relation di Londra ha proposto un criterio di classificazione basato sul grado di mobilità richiesta: 1) t. mobile (a esso corrisponde il massimo livello di mobilità, in quanto il lavoratore, ad esempio un venditore, non ha sede fissa ma svolge la propria attività spostandosi da un luogo all’altro); 2) strutture distribuite (a mobilità intermedia, sono costituite dall’azienda che trasferisce parte delle attività in locali appositamente attrezzati vicino alle residenze dei dipendenti); 3) centri di t. (anch’essi in posizione intermedia lungo la scala della mobilità, sono strutture multisocietarie/aziendali dove lavoratori di diverse aziende e lavoratori autonomi forniscono le loro prestazioni); 4) t. a domicilio (cui corrisponde il livello minimo di mobilità, in quanto l’attività si svolge, del tutto o in modo prevalente, nell’abitazione del lavoratore).
Il t. rappresenta una tendenza evolutiva in atto dopo il superamento, da un lato, dell’economia industriale classica con società rigida, caratterizzata dall’accentramento dei mezzi di produzione (di ispirazione fordista e taylorista) e, dall’altro, del modello di città che Le Corbusier chiama "funzionale" (ogni ruolo e classe ai propri posti: zona industriale, quartiere dormitorio, centro commerciale, nucleo amministrativo). Ai singoli lavoratori il t. può assicurare maggiore flessibilità nella gestione del rapporto tra occupazione e tempo libero, determinando tra l’altro una contrazione dei tempi di spostamento e delle spese di trasporto (Zurzolo, 1997). Sul piano sociale aggiunge Nilles (1998) pur non essendo una panacea per tutti i problemi urbani (traffico, pendolarismi, inquinamento, ecc.), il t. può contribuire a innalzare la qualità della vita.
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Bibliografia
- BORGNA Paola - CERI Paolo - FAILLA Antonio, Telelavoro in movimento, Etas Libri, Milano 1996.
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- CASSANO G. - LOPATRIELLO S., Il telelavoro. Aspetti giuridici e sociologici, Esselibri, Napoli 1999.
- CERI Paolo, Telelavorare è un'opportunità, ma guàrdatene, se puoi: stanca in «Telema» (1998) 13, pp.62.
- D'ANTONIO Valentina - ORONZO Stefano, Telelavoro e job sharing: un'analisi comparata, Franco Angeli, Milano 2007.
- DI NICOLA Patrizio, Telelavoro domiciliare, Ediesse, Roma 2002.
- DI NICOLA Patrizio - RUSSO Pasquale - CURTI Antonio, Telelavoro tra legge e contratto, Ediesse, Roma 1998.
- DI NISIO Francesco, Telelavoro. Uno strumento a tutela della vita, Franco Angeli, Milano 2009.
- FERRAROTTI Franco, I nomadi del cyberspazio diffondono una nuova cultura: orale, tribale, molto vitale in «Telema» (1996) 6.
- FERRI Katia, Lavorare a casa. Telelavoro, nuove professioni, lavori atipici, normativa, organizzazione, contratti, Sperling & Kupfer, Milano 2004.
- LUCAFÒ Franco, Il rapporto do telelavoro. Regole giuridiche e prassi contrattuali, Giuffrè, Milano 2007.
- LUPI Gerardo - ZURLA Paolo, Telelavoro e disabilità. Il progetto Translate, Franco Angeli, Milano 2002.
- NILLES Jack M., Managing telework: strategies for managing the virtual workforce, John Wiley & Sons, New York 1998.
- PASSARELLI Giovanni, Telelavorare. La vita quotidiana nel lavoro flessibile, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2007.
- ZURLA Paolo ( a cura di), Telelavoro e pubblica amministrazione, Franco Angeli, Milano 1999.
- ZURZOLO A., Non è un ritorno al passato, a casa si lavora meglio in «Telema» (1996-1997) 7.
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Note
Come citare questa voce
Gagliardi Carlo , Telelavoro, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (23/11/2024).
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