Esposimetro
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Autore: Franco Lever
È uno strumento di fondamentale importanza per il fotografo e per il direttore della fotografia nel cinema e nella televisione. Serve a misurare l’intensità della luce che illumina la scena, per decidere anzitutto quale attrezzatura usare (pellicola, obiettivi, filtri...) e quindi come impostare i tempi di ripresa (Otturatore), i valori di diaframma, la profondità di campo.
All’inizio della storia della fotografia la misura della luce non era un problema molto critico, dal momento che i tempi di esposizione erano comunque lunghi: un errore di pochi secondi non pregiudicava il lavoro; per quasi tutto l’Ottocento, poi, si esponeva una lastra alla volta e quindi non era difficile fare un test, per garantirsi il risultato. Quando invece anche gli errori di centesimi di secondo divennero significativi e nella macchina fotografica si incominciò a inserire non un singolo negativo ma un rotolo, divenne assolutamente necessario disporre di un sistema di misura il più preciso possibile.
I primi e. sfruttavano il potere che una fotocellula di ossido di selenio ha di trasformare la luce incidente in corrente elettrica (effetto fotoelettrico, scoperto nel 1888). Questo tipo di strumento aveva il vantaggio di essere completamente autosufficiente (funzionava utilizzando la luce che misurava) e di essere sensibile a tutto lo spettro della luce (non rispondeva cioè in modo diverso, secondo il colore della luce incidente). Aveva però una scarsa sensibilità, lavorava bene solo quando la luce era intensa. Gli e. attuali sfruttano invece l’effetto fotovoltaico: in determinati materiali, con il variare della luce incidente, varia la resistenza al passaggio della corrente elettrica (il fenomeno era già stato osservato nel 1861; le prime fotocellule, basate su questo effetto, vennero messe a punto da W. Siemens nel 1876). Questo tipo di circuito oggi enormemente più sofisticato è molto sensibile anche alle luci basse; ha però bisogno di correzioni perché non risponde in modo uguale a ogni tipo di luce; e, soprattutto, ha bisogno di essere alimentato.
Adottiamo due criteri per distinguere i vari tipi di e.: il modo in cui sono costruiti e il tipo di luce che leggono.
1) Dal punto di vista costruttivo si distinguono gli e. concepiti come strumento autonomo (in buona misura sono, oggi, riservati al professionista; strumenti indispensabili per i direttori di fotografia), dagli e. montati direttamente nell’apparecchio fotografico e integrati nel controllo delle funzioni della macchina stessa. Questi ultimi, negli anni recenti, sono diventati sempre più sofisticati: possono leggere il valore medio della luce che illumina la scena; oppure possono dare maggiore rilievo alla parte centrale; oppure misurarne soltanto una piccola porzione; oppure misurare 5, 8, 12... zone diverse, sottoponendo poi i dati a un programma che propone tempi e diaframmi da usare. Le informazioni così raccolte possono essere fornite al fotografo, che poi decide autonomamente; oppure possono essere direttamente utilizzate da un computer centrale che predispone la macchina per lo scatto giudicato ottimale. Poiché questi programmi sono il frutto di cent’anni di pratica fotografica e di uno studio statistico raffinato, condotto su milioni di foto scattate, offrono un risultato quasi perfetto, salvo i casi in cui la scena presenta condizioni di luce particolari. Il pericolo sta ora nell’eccesso di possibilità offerte dai programmi di controllo: il fotografo rischia di spostare l’attenzione sul suo giocattolo, piuttosto che sull’immagine da creare; e può uscirne frastornato (troppe scelte), finendo per lasciar fare tutto alla macchina. Ma la macchina non è creativa, lavora in modo standard.
2) Quanto al modo di leggere la luce, gli e. si distinguono in due categorie: quelli che misurano la luce riflessa dalla scena e quelli che misurano la luce incidente (questi ultimi, in genere, sono in grado di leggere in tutti e due i modi). Spesso il professionista ha bisogno di misurare la luce prima che venga riflessa da ciò che sta fotografando: rivolge dunque il suo e. verso la fonte di luce (il sole, i fari...) piuttosto che verso la scena. In questo modo ottiene una misura che non dipende dal diverso potere riflettente delle varie superfici. La misura ottenuta non può essere senz’altro adottata come ottimale in tutte le situazioni; va corretta sulla base dell’esperienza e della sensibilità del fotografo. È per questo che gli e. per luce incidente si vedono soltanto in mano ai professionisti.
Per quanto riguarda la lettura dei dati, i primi e. una volta tarati sulla base della sensibilità della pellicola in uso presentavano un ago che si spostava lungo una scala: dalla posizione dell’indice il fotografo deduceva tempi e diaframmi possibili. Poi si sono usate delle scale dove si accendevano dei led (nelle macchine più semplici si è utilizzata una segnaletica parallela a quella stradale: verde, per via libera; rosso, per errore); più recentemente sono stati introdotti dei piccoli schermi a cristalli liquidi, dove vengono riportate molte altre informazioni oltre a quelle relative al controllo della luce.
Per il fotografo, che intende la fotografia come atto comunicativo e creativo, l’e. è un compagno indispensabile (montato sull’apparecchio o strumento singolo). Non è necessario che sia estremamente sofisticato; è importante usarlo in modo corretto. L’e. funziona come una bussola: va sempre interpretato.
Qualche volta, poi, è impossibile determinare meccanicamente i valori da utilizzare, perché alla macchina non è richiesto di fotografare l’esistente, ma di creare l’immagine che è negli occhi del fotografo. È indispensabile allora scattare varie fotografie, modificando lievemente i dati a ogni scatto, tanto da garantirsi non solo contro gli errori, ma contro il rimorso di non aver tentato altre soluzioni. Il costo della pellicola è oggi quasi irrisorio, se messo a confronto con il fatto che un certo avvenimento o una certa situazione possono essere irripetibili. Il professionista che usa macchine di grande formato può ricorrere al metodo usato dai primi fotografi: fare dei provini, prima di scattare le fotografie decisive. Per questo è munito di un dorso-macchina che contiene materiale a sviluppo istantaneo (Polaroid): lo applica sull’apparecchio al posto del dorso che contiene la pellicola. Scatta, verifica, corregge, riprova. Con un controllo visivo diretto dei risultati. Come un pittore.
All’inizio della storia della fotografia la misura della luce non era un problema molto critico, dal momento che i tempi di esposizione erano comunque lunghi: un errore di pochi secondi non pregiudicava il lavoro; per quasi tutto l’Ottocento, poi, si esponeva una lastra alla volta e quindi non era difficile fare un test, per garantirsi il risultato. Quando invece anche gli errori di centesimi di secondo divennero significativi e nella macchina fotografica si incominciò a inserire non un singolo negativo ma un rotolo, divenne assolutamente necessario disporre di un sistema di misura il più preciso possibile.
I primi e. sfruttavano il potere che una fotocellula di ossido di selenio ha di trasformare la luce incidente in corrente elettrica (effetto fotoelettrico, scoperto nel 1888). Questo tipo di strumento aveva il vantaggio di essere completamente autosufficiente (funzionava utilizzando la luce che misurava) e di essere sensibile a tutto lo spettro della luce (non rispondeva cioè in modo diverso, secondo il colore della luce incidente). Aveva però una scarsa sensibilità, lavorava bene solo quando la luce era intensa. Gli e. attuali sfruttano invece l’effetto fotovoltaico: in determinati materiali, con il variare della luce incidente, varia la resistenza al passaggio della corrente elettrica (il fenomeno era già stato osservato nel 1861; le prime fotocellule, basate su questo effetto, vennero messe a punto da W. Siemens nel 1876). Questo tipo di circuito oggi enormemente più sofisticato è molto sensibile anche alle luci basse; ha però bisogno di correzioni perché non risponde in modo uguale a ogni tipo di luce; e, soprattutto, ha bisogno di essere alimentato.
Adottiamo due criteri per distinguere i vari tipi di e.: il modo in cui sono costruiti e il tipo di luce che leggono.
1) Dal punto di vista costruttivo si distinguono gli e. concepiti come strumento autonomo (in buona misura sono, oggi, riservati al professionista; strumenti indispensabili per i direttori di fotografia), dagli e. montati direttamente nell’apparecchio fotografico e integrati nel controllo delle funzioni della macchina stessa. Questi ultimi, negli anni recenti, sono diventati sempre più sofisticati: possono leggere il valore medio della luce che illumina la scena; oppure possono dare maggiore rilievo alla parte centrale; oppure misurarne soltanto una piccola porzione; oppure misurare 5, 8, 12... zone diverse, sottoponendo poi i dati a un programma che propone tempi e diaframmi da usare. Le informazioni così raccolte possono essere fornite al fotografo, che poi decide autonomamente; oppure possono essere direttamente utilizzate da un computer centrale che predispone la macchina per lo scatto giudicato ottimale. Poiché questi programmi sono il frutto di cent’anni di pratica fotografica e di uno studio statistico raffinato, condotto su milioni di foto scattate, offrono un risultato quasi perfetto, salvo i casi in cui la scena presenta condizioni di luce particolari. Il pericolo sta ora nell’eccesso di possibilità offerte dai programmi di controllo: il fotografo rischia di spostare l’attenzione sul suo giocattolo, piuttosto che sull’immagine da creare; e può uscirne frastornato (troppe scelte), finendo per lasciar fare tutto alla macchina. Ma la macchina non è creativa, lavora in modo standard.
2) Quanto al modo di leggere la luce, gli e. si distinguono in due categorie: quelli che misurano la luce riflessa dalla scena e quelli che misurano la luce incidente (questi ultimi, in genere, sono in grado di leggere in tutti e due i modi). Spesso il professionista ha bisogno di misurare la luce prima che venga riflessa da ciò che sta fotografando: rivolge dunque il suo e. verso la fonte di luce (il sole, i fari...) piuttosto che verso la scena. In questo modo ottiene una misura che non dipende dal diverso potere riflettente delle varie superfici. La misura ottenuta non può essere senz’altro adottata come ottimale in tutte le situazioni; va corretta sulla base dell’esperienza e della sensibilità del fotografo. È per questo che gli e. per luce incidente si vedono soltanto in mano ai professionisti.
Per quanto riguarda la lettura dei dati, i primi e. una volta tarati sulla base della sensibilità della pellicola in uso presentavano un ago che si spostava lungo una scala: dalla posizione dell’indice il fotografo deduceva tempi e diaframmi possibili. Poi si sono usate delle scale dove si accendevano dei led (nelle macchine più semplici si è utilizzata una segnaletica parallela a quella stradale: verde, per via libera; rosso, per errore); più recentemente sono stati introdotti dei piccoli schermi a cristalli liquidi, dove vengono riportate molte altre informazioni oltre a quelle relative al controllo della luce.
Per il fotografo, che intende la fotografia come atto comunicativo e creativo, l’e. è un compagno indispensabile (montato sull’apparecchio o strumento singolo). Non è necessario che sia estremamente sofisticato; è importante usarlo in modo corretto. L’e. funziona come una bussola: va sempre interpretato.
Qualche volta, poi, è impossibile determinare meccanicamente i valori da utilizzare, perché alla macchina non è richiesto di fotografare l’esistente, ma di creare l’immagine che è negli occhi del fotografo. È indispensabile allora scattare varie fotografie, modificando lievemente i dati a ogni scatto, tanto da garantirsi non solo contro gli errori, ma contro il rimorso di non aver tentato altre soluzioni. Il costo della pellicola è oggi quasi irrisorio, se messo a confronto con il fatto che un certo avvenimento o una certa situazione possono essere irripetibili. Il professionista che usa macchine di grande formato può ricorrere al metodo usato dai primi fotografi: fare dei provini, prima di scattare le fotografie decisive. Per questo è munito di un dorso-macchina che contiene materiale a sviluppo istantaneo (Polaroid): lo applica sull’apparecchio al posto del dorso che contiene la pellicola. Scatta, verifica, corregge, riprova. Con un controllo visivo diretto dei risultati. Come un pittore.
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Come citare questa voce
Lever Franco , Esposimetro, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (24/11/2024).
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