Fotografia

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Autore: Franco Lever
Louis-Jacques-Mandé Daguerre artista e chimico francese, riconosciuto come l’inventore del processo fotografico chiamato dagherrotipo
Composto da due parole greche, phôs (luce) e graphêin (disegnare, scrivere), il termine indica sia il processo (scrivere/disegnare per mezzo della luce), sia il risultato ottenuto e cioè l’immagine fatta dalla luce.

1. Origine del termine

Non sappiamo con certezza a chi attribuire il merito di aver inventato questa parola che definisce bene il relativo fenomeno. Non l’hanno proposta né i fratelli Niepce (chiamavano la loro invenzione eliografía), né Daguerre (usava un calco del suo stesso nome: daguerrotipía), né Talbot (il quale propose vari nomi: dapprima disegno fotogenico, poi calotipía, infine – per non essere da meno di Daguerre – talbotipía). I dati a nostra disposizione sono i seguenti.
– Il Dizionario Etimologico della Lingua Tedesca di W. Pfeifer afferma che il termine die Photografie apparve per la prima volta il 25.2.1839 sul quotidiano berlinese Vossische Zeitung, in un articolo che presentava la nuova invenzione.
– Gli inglesi affermano che il verbo to photograph e il sostantivo photograph sono espressioni introdotte da J. F. W. Herschel; in particolare le usò nella presentazione che fece dell’invenzione dell’amico W. H. F. Talbot, alla Royal Society, il 14 marzo del 1839.
– I francesi invece amano pensare che il termine sia nato a Parigi: lo si trova infatti nella relazione del deputato e patrono di Daguerre, François Arago all’Accademia delle Scienze del 6 maggio 1839.
Forse hanno ragione gli inglesi, perché Sir Herschel – astronomo e scienziato dai molti interessi – già da molto tempo si era interessato al problema di come produrre delle immagini con la camera oscura e aveva seguito da vicino gli esperimenti di Talbot (Macchina fotografica). Del resto sono certamente suoi i termini ‘negativo’ e ‘positivo’ per indicare le due fasi del processo di Talbot. In ogni caso l’espressione, che associava due termini greci, doveva essere, per così dire, nell’aria: qualche decennio prima era nata la litografia; Niepce parlava di eliografie; Talbot di disegni fotogenici; in altro settore si incominciava a parlare di telegrafo.

2. Invenzione collettiva

Se è difficile stabilire la paternità del nome, praticamente impossibile è stabilire chi sia l’inventore della tecnica stessa. Si può notare infatti quanto segue.
a) C’è una lunga fase preparatoria, nella quale vengono progressivamente definiti i criteri con cui si ‘deve’ osservare la realtà: la concezione umanistica mette l’uomo al centro della realtà, i suoi orizzonti coincidono con quanto si può vedere, toccare, misurare (tramonta l’immaginario medioevale); nasce la mentalità ‘scientifica’, che dà importanza all’osservazione precisa, misurata; viene messa a punto la prospettiva, che ordina tutto l’osservabile dentro uno schema geometricamente perfetto. Si riscopre così un attrezzo – la camera oscura – già conosciuto da un millennio, ma ora diventato importante, perché dentro vi si forma automaticamente l’immagine ‘ideale’, prospetticamente ordinata. In concreto è nato prima un certo modo di guardare alla realtà; poi i tecnici hanno preparato gli strumenti che si adeguano a questo tipo di sguardo.
b) Da oltre due secoli dalla sua invenzione (1450) la stampa a caratteri mobili moltiplica a piacere innumerevoli copie di un testo, tutte identiche alla prima. I tipografi sono alla ricerca di una tecnica che consenta di fare altrettanto con le immagini. L’uso della xilografia infatti è lento ed esige delle maestranze altamente specializzate; la litografia (1798) è un passo notevole, ma non è integrabile con la tecnica tradizionale (come impaginare il cliché litografico – una pietra – con il resto della pagina?): è un procedimento chimico che consente al disegno tracciato sulla pietra di trattenere l’inchiostro, mentre le altre parti lo respingono. Deve pur esserci un trattamento chimico che consenta di fare le matrici in modo diretto, automatico.
c) Il secolo XIX si è avviato sotto il segno dell’entusiasmo per la ricerca di soluzioni tecniche ad antichi problemi. Un esempio è la macchina a vapore e la sua applicazione a tutti i tipi di lavorazione industriale e al trasporto; da considerare inoltre le ricerche sull’elettricità e sulle sue possibili applicazioni.
I fratelli Niepce sono figli di quest’epoca. Prima delle ricerche sull’eliografia, hanno messo a punto un motore a combustione interna (il pyrelophoro) che applicano a un battello. Sono contemporaneamente interessati allo sviluppo della tecnica litografica. Un ventennio almeno di tentativi e giungono a ottimi risultati, partendo dalla scoperta di vernici che si induriscono sotto l’effetto della luce. Uno degli obiettivi è raggiunto, ancora in nuce, ma in modo decisivo, visto lo sviluppo che la tecnica ha poi avuto in ambito tipografico.
d) Ma allora anche l’immagine nella camera oscura deve essere memorizzabile su una lastra, resa sensibile. I chimici sanno già da almeno un secolo che i sali di argento con il tempo si anneriscono e che l’effetto non è determinato dal calore, quanto piuttosto dalla luce. Nessuno però ha ancora collegato il fenomeno con quanto avviene nella camera oscura. Lo fanno anzitutto i Niepce (già nel 1816), più tardi Daguerre, Talbot, Bayard e – secondo studi recenti – anche altri ricercatori in America Latina. Con il 1840 il doppio problema trova la sua soluzione:
a) è possibile registrare l’immagine disegnata dalla luce sul fondo della camera oscura;
b) si possono ottenere molte copie, tutte identiche all’originale. Invece per utilizzare la f. come matrice da impiegare direttamente nella stampa, si dovrà aspettare ancora una quarantina di anni (Fotogiornalismo; Retino).
Ambedue le aree di applicazione del principio fotografico devono passare attraverso un’evoluzione straordinaria, dove realmente innumerevoli sono i contributi, tutti tesi a migliorare il procedimento iniziale. Oggi le applicazioni della tecnica di scrittura per mezzo della luce sono tali e così diversificate che sembra piuttosto improbabile contenerle tutte sotto uno stesso nome.

3. Applicazioni

Il principio e la tecnica della f. hanno avuto un successo difficile da circoscrivere. In rapida sintesi vediamo i campi in cui essa viene utilizzata.
a) Nella ricerca scientifica, in tutti i suoi settori: la geografia, l’astronomia, l’esplorazione spaziale, la fisica dei materiali e delle costruzioni, la fisica subatomica, la botanica, la zoologia, la geologia..., la medicina (in particolare la messa a punto della radiografia, con W. C. Röngten 1895). Di fatto non c’è strumento delegato all’osservazione di un qualunque fenomeno che non abbia accoppiato un sistema fotografico. Questo impiego così diffuso dipende da alcune caratteristiche originali della f.: è una forma di ‘memoria’ assai potente, che rende disponibili a osservazioni successive le informazioni raccolte in un determinato istante; mantiene traccia di avvenimenti rapidissimi, non osservabili in altri modi (come l’emissione di raggi gamma); scompone il movimento in fasi successive (fornisce una serie di istantanee, che ne consentono l’analisi); allarga i confini del visibile, dal momento che si possono utilizzare sia le frequenze elettromagnetiche al di sotto dello spettro visibile (raggi infrarossi) sia quelle al di sopra (raggi ultravioletti, raggi x, raggi gamma...), rendendo controllabile anche la struttura di corpi opachi; associata alla tecnica laser produce l’olografia.
Nella forma di documentazione (microdocumentazione) la f. ha un’importanza grandissima in tutti i settori delle scienze sociali.
b) La f. non è solo una tecnica di osservazione; serve direttamente nei cicli di produzione, soprattutto in quelli relativi alla microelettronica, dai circuiti stampati ai circuiti integrati: sia per i processi di miniaturizzazione del progetto (i disegni vengono realizzati in scala assai più grande del risultato finale), sia per la costruzione stessa dei chip.
c) Ma è certo nel settore della comunicazione che la f. trova le sue applicazioni più ‘visibili’, quelle che ci toccano nel quotidiano: non solo a livello di mass media (dalla stampa – tutti i processi di stampa si basano oggi sulla tecnica fotografica – al giornalismo, al cinema, alla televisione, alla grafica digitale); ma anche a livello di comunicazione popolare e rituale (gli album fotografici che documentano i momenti importanti della vita di ogni individuo e di ogni famiglia). Grazie alla f. tutte le altre forme di arte acquistano una visibilità prima neppure immaginabile: dalla scultura, alla pittura, al teatro, alla danza, all’architettura.
d) Un settore importante è anche quello dell’espressione artistica: la stessa f. diventa nuova forma espressiva, soprattutto a partire dal momento in cui la tecnica ha scomposto l’automatismo iniziale in una quantità innumerevole di possibili interventi da parte del soggetto che scatta la f.; contemporaneamente, è cambiata la mentalità per cui la f. – per essere tale – deve copiare la realtà e per essere artistica deve obbedire ai criteri classici della pittura.
L’attuale convergenza al digitale di tutte le forme di comunicazione non riduce l’importanza della f. Avviene esattamente il contrario, proprio perché la produzione e la manipolazione delle immagini fotografiche digitali sono più facili di quanto avvenisse con la tecnica tradizionale. Ad esempio, il risultato è direttamente monitorabile in ciascuna fase: sullo schermo della macchina fotografica in fase di ripresa, sullo schermo del computer mentre si rielabora, nelle prove di stampa fatte direttamente sulla propria stampante in ufficio o in casa. Il fatto poi che una f. equivalga a un file di dati consente ogni forma di scambio, archiviazione, trasmissione.

4. Lo statuto semiotico della f.

Da un punto di vista strettamente fisico la f. è il processo fisico/chimico che rende permanente l’effetto che la luce provoca su determinati materiali. In questo modo si riescono a fissare le immagini tracciate dalla luce sul fondo della camera oscura; si può anche riprodurre un’immagine originale, ridurla o ingrandirla e moltiplicarla senza limiti.
Non è però la particolare eleganza del processo fisico/chimico che ha attirato l’attenzione di scienziati, artisti e semplice pubblico. Ciò che da sempre ha sorpreso l’osservatore è l’automatismo con cui si forma l’immagine e il modo realistico con cui la f. riproduce l’oggetto fotografato. Questo è valso non soltanto per gli scopritori (Daguerre parlava di "specchio della natura", di "natura che riproduce se stessa", Talbot di "matita, pennello della natura") ma per quasi tutti gli scienziati, molti artisti e letterati, come anche gli studiosi di comunicazione.
Usiamo due citazioni per descrivere qual era ed è lo statuto semiotico della f. comunemente accettato. La prima evidenzia la pretesa trasparenza della f. rispetto alla realtà: "Così nella macchina fotografica abbiamo l’aiuto più attendibile al principio di una visione oggettiva. Ciascuno sarà costretto a vedere ciò che è otticamente vero, spiegabile nei suoi stessi termini e oggettivo, prima di poter arrivare a una qualunque posizione soggettiva... Possiamo dire che vediamo il mondo con occhi interamente nuovi!"(Moholy-Nagy, 1925).
Su questo assioma si fonda l’altro principio largamente condiviso, la comprensibilità universale della f.: "La f. è l’unico linguaggio compreso in ogni parte del mondo e, superando tutte le nazioni e le culture, unisce la famiglia umana. Indipendente da qualsiasi influenza politica... rispecchia la vita e gli eventi in modo veritiero... Noi diventiamo testimoni oculari dell’umanità e della disumanità degli uomini..." (Gernsheim, 1962).
Ma c’è da domandarsi se sia davvero corretto sostenere che la f. è ostensione della realtà o – affermazione equivalente – "un messaggio senza codice", dove "l’assenza di codice rinforza evidentemente il mito del ‘naturale’ fotografico: la scena è là, captata meccanicamente, ma non umanamente (la meccanica è qui garanzia d’obiettività)" (Barthes, 1964).
Non sono molti a condividere questo dubbio: quasi nessuno a livello di opinione pubblica, dove la f. continua a essere considerata ‘finestra sulla realtà’; pochi anche a livello di studiosi di semiotica, anche se in quest’ambito – ed è giusto che sia così – i distinguo da incerti si sono fatti sempre più precisi (Lever, 1978).
Per arrivare a una comprensione più corretta del fenomeno fotografico dal punto di vista comunicativo si deve lavorare su tre direttrici:
– la novità costituita dalla f. in quanto ‘nuovo’ modo di memorizzare l’informazione;
– lo studio del modo in cui l’immagine assomiglia alla realtà, superando l’opposizione tra analogico e codificato;
– la scoperta che il codice fotografico è un codice di secondo livello, che interviene su una realtà e su comportamenti già ampiamente codificati (il testo del fotografo è ampiamente fatto di citazioni): da cui segue che è ingenuo parlare delle fotografie come di testi leggibili da parte di tutti.

4.1 La f. è una registrazione.
A una analisi astratta – che guarda solo a principi fisico-chimici e non ai modi in cui si realizza – la f. si presenta con l’innocenza del rapporto causa/effetto: la luce modifica i sali di argento della lastra fotosensibile, il fotografo si limita a conservare queste modificazioni. La f. non è soltanto questo (se ne parlerà nel paragrafo successivo); però questo modo di vedere le cose ha il merito di evidenziare un fatto straordinario. R. Barthes (1964) il primo a farlo notare – dichiarava: "la f. non deve essere considerata l’ultima espressione migliorata della famiglia delle immagini; è piuttosto un cambiamento radicale nell’economia dell’informazione, è una rivoluzione antropologica".
Nell’antichità l’uomo, se voleva conservare delle informazioni, le doveva affidare alla memoria, organizzandole con schemi narrativi ricorrenti, ritmi, rime e consonanze (così nelle culture di tipo orale). Più tardi imparò a servirsi anche di oggetti concreti come supporto mnemonico, quindi di graffiti, di immagini, infine della scrittura, ideografica prima, poi alfabetica. Questi supporti mnemonici erano prodotti manualmente da uno specialista e solo chi era altrettanto preparato, partendo da quei segni, poteva ricostruire l’idea o la sonorità della parola scritta (si ricorderà che fino a pochi secoli fa per capire un testo era necessario leggerlo a voce alta). Il passaggio dalle ‘informazioni attinte dal contesto reale’ alla scrittura, o a qualsiasi tipo di immagine, era sempre mediato dall’uomo, il quale costruiva un equivalente mnemonico di ciascuna delle idee o delle sensazioni di cui aveva consapevolezza e voleva mantenere un ricordo, in funzione comunicativa. Tutto ciò che non era avvertito come importante, non diventava oggetto di memoria.
Nel caso della ‘registrazione’ (la f. è la prima forma di questo nuovo modo di trattare le informazioni, poi verrà la registrazione sonora, la registrazione insieme iconico/sonora come nel cinema e nella televisione) le informazioni ‘fissate’ sulla lastra o sul nastro sono tutte quelle che corrispondono a determinate caratteristiche fisiche. È per questo che si possono scattare delle foto di un paesaggio campestre, riprendendo – anche senza saperlo – delle specie vegetali non conosciute (ma illuminate), in modo tale che lo specialista potrà riconoscerle sulla nostra immagine. Una cosa del genere non può mai avvenire con la pittura: il ‘lettore’ dell’immagine può riconoscere soltanto le cose che il pittore ha intenzionalmente rappresentato usando gli schemi di riconoscimento condivisi.
La registrazione è dunque una straordinaria forma di ‘scrittura’, che memorizza una quantità di informazioni molto più ampia di quanto non ne sappia controllare in modo consapevole colui che opera.
Tutto questo significa che la f., in quanto impronta della realtà, non è un prodotto culturale?

4.2. L’immagine fotografica dipende dalla realtà, secondo codici rappresentativi.
La registrazione delle informazioni sul negativo avviene grazie alla mediazione di una serie di convenzioni, obbedisce quindi a dei codici. Ricordiamo alcune di queste convenzioni.
– La superficie piana (la pagina, il cartoncino, ecc.) su cui viene stampata la f. è già codificata da secoli di pratica artistica oltre che dalle convenzioni legate alla scrittura. Il fotografo, quando studia l’inquadratura e stampa l’immagine, segue queste stesse regole ‘compositive’: il centro ha ‘valore’ diverso dai margini; il margine in alto a sinistra è diverso da quello a destra in basso; il movimento da destra verso sinistra non equivale al suo contrario, ecc. (Kandinsky, 1968).
– Per quasi un secolo le f. in mano alla gente sono in bianco e nero, con determinate corrispondenze colore/tonalità di grigio, mentre la realtà è sempre a colori.
– La riduzione o l’ingrandimento di un soggetto non sono indifferenti; se non vi si fa caso è perché c’è un accordo – una convenzione – grazie a cui si sospende il criterio ‘dimensione’ come elemento caratterizzante.
– La trascrizione della tridimensionalità della realtà nella bidimensionalità dell’immagine fotografica – grazie alla camera oscura – suppone l’adozione della prospettiva centrale. Una cultura che non ha adottato questo tipo di convenzione troverà profondamente ‘innaturale’ la nostra immagine.
Alla base della convinzione che la f. sia un tipo di comunicazione ‘meccanica’ (e quindi oggettiva) c’è un’idea non esplicitata e sbagliata. Si ragiona come se, prima dell’intervento del fotografo, una determinata realtà – un paesaggio – possieda già una sua immagine, che viene poi spontaneamente registrata dalla macchina fotografica. Il che è del tutto errato, perché non esistono immagini fuori dai nostri occhi. Il nostro cervello è lo schermo attivo (gli occhi sono due terminali del cervello) grazie al quale andiamo progressivamente costruendo l’immagine di una determinata realtà, selezionando, organizzando e ricordando gli impulsi di una certa gamma di onde elettromagnetiche, che distinguiamo traducendole in sensazioni che chiamiamo colore, bianco, nero:
selezioniamo le informazioni: i nostri occhi non stanno mai fermi (se lo facessero smetterebbero di funzionare), si spostano e continuano a mettere a fuoco porzioni diverse del campo visivo;
le organizziamo: il risultato, la sintesi di questi continui sondaggi, non è in fondo ai nostri occhi (come nella camera oscura), ma soltanto nel cervello, il quale li organizza secondo i vincoli del nostro sistema visivo (ad esempio la distinzione figura/sfondo è inevitabile: se un insieme di dati compone una figura, tutto il resto diventa sfondo; figura e sfondo non sono mai visibili contemporaneamente), secondo costanti dettate dalla nostra cultura (usiamo schemi di riconoscimento per distinguere le varie occorrenze e tanti altri codici per strutturare quanto fa parte della nostra esperienza);
ricordiamo: le informazioni pertinenti diventano parte di frame, di strutture significative, che costituiscono lo strumento complesso con cui ricordiamo. Ricordiamo per contesti, per insiemi, non per singoli particolari.
In definitiva è vero che il procedimento fotografico ha la trasparenza del rapporto causa/effetto (non è un rapporto retto da convenzione); altrettanto importante però è rendersi ragione che questo procedimento viene assunto dall’uomo per fare un atto di comunicazione e dunque lo funzionalizza al suo scopo. La prova più evidente di questa affermazione la si ottiene analizzando la quantità di interventi che il fotografo può attuare nel momento in cui progetta la sua f. e come spesso nessuno, neppure il fotografo, sia in grado di vedere concretamente quello che sarà il risultato. Ad esempio, nel caso delle immagini controluce, della ripresa differenziata di fonti luminose a varia intensità, delle riprese fatte di giorno per ottenere invece dei notturni, dello sfocato, del mosso, delle lunghe esposizioni, ecc.: è solo nella fantasia del fotografo che c’è l’anticipazione della foto. Chi gli è accanto e non conosce le possibilità espressive della f. è nelle stesse condizioni di chi osserva la tela di un pittore prima che questi incominci a tracciare le linee della sua opera.
C’è un’altra serie di dati concreti che provano come la f. non sia copia della realtà ma rappresentazione considerata oggettiva dalla nostra cultura. In altre parole il confronto non viene fatto tra f. e visione oggettiva della realtà, ma tra f. e il modo che abbiamo introiettato di guardare alla realtà. Se ad esempio si riprende il volto di una persona con l’obiettivo normale a distanza molto ravvicinata – a 40 cm dal viso – la macchina produce una f. che nessuno accetta, perché si ritiene siano state deformate le proporzioni del viso; un ritratto fotografico piace solo se fatto alla distanza di 70-100 cm. Eppure in tutti e due i casi il risultato è la ‘nuda’ registrazione da parte della macchina. Che cosa succede? Cambiando posizione la macchina non è più specchio con memoria, non è più autopresentazione del reale? Il problema è risolto dalla prossemica, che ci fa notare come noi usiamo gli occhi seguendo delle costanti: a distanza brevissima (distanza detta intima, là dove ammettiamo soltanto le persone che amiamo o con cui ci scontriamo fisicamente) sono le percezioni tattili e olfattive che prevalgono, mentre gli occhi rimangono chiusi o sono impegnati altrove. Per questo, del volto di una persona amata – tanto meno degli altri – non abbiamo in memoria l’immagine che si ottiene da un punto di vista molto ravvicinato; così quando vediamo la f. – registrazione dei dati ottenibili da quel punto di vista – diciamo che è falsa. Ma è ‘falsa’ solo perché non riproduce l’immagine che abbiamo in mente.

4.3. La f. non può essere considerata un linguaggio universale (sta però divenendo una specie di esperanto).
Già quanto detto contribuisce a chiarire come la f. sia un modo di produrre immagini legato a una certa cultura, a un certo modo di guardare alla realtà. Chi non appartiene a questa cultura troverà ‘straniera’ anche la f., a meno che non abbia avuto modo di familiarizzarsi al linguaggio visivo corrispondente. È evidente comunque che le cose stanno rapidamente cambiando, a causa di quella specie di imperialismo visivo che l’Occidente sta imponendo al mondo intero attraverso la stampa, il cinema e la televisione.
Oltre a questa differenza a livello di schemi visivi, altre ragioni fanno dire che la f. non può essere considerata linguaggio universale. La f., per comunicare, si serve di tutti i segni messi a disposizione dai vari codici che organizzano la realtà. L’elenco è impossibile: dall’architettura all’arredo urbano, dall’organizzazione del paesaggio all’arredamento di interni...; dai linguaggi non verbali (gesto, posizione, contatto visivo, espressione del viso, movimento, atteggiamento; abbigliamento, vestito) al simbolismo di punti, linee, superfici, colori... Ora tutte queste forme di linguaggio sono tanto diverse tra loro quanto le varie lingue usate nei diversi continenti. E come la registrazione di una intervista non è comprensibile se non da chi ne conosce la lingua, altrettanto dobbiamo affermare per la f.: la può leggere e comprendere solo chi conosce i codici che vi sono utilizzati. (Immagine. C. Semiologia dell’I.)

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