Parabola

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Vincent Van Gogh, Il Buon Samaritano, 1890, Otterlo, Museo Kroeller-Muller

1. Un modello tipico di Gesù?

È opinione ampiamente comune quella che collega in maniera molto stretta le p. con la persona di Gesù. Addirittura, non sono pochi coloro i quali finiscono per affermare un legame esclusivo: pensano e parlano come se tutte le p. fossero soltanto di Gesù. Quell’opinione sembra davvero un po’ ingenua; ma, più che respingerla in blocco, pare meglio intenderla come espressione enfatica di un aspetto reale e quindi cercare di precisare quest’ultimo. In altre parole: questo procedimento può apparire fin troppo semplice, ma forse costituisce una via che conduce agevolmente ad alcune riflessioni corrette e fruttuose.

1.1. Sue le p. più note.
Da una parte è indubbio che sono di Gesù le p. più famose (Cristo comunicatore). Infatti, a lui rimandano i testi che rappresentano in modo classico quel modello retorico e letterario. In questo senso, a semplice titolo di esempio, può bastare evocare alcune tra le p. più note dei Vangeli (spesso familiari anche a persone non cristiane): il seminatore, il tesoro nel campo, la pecorella smarrita, il figlio prodigo, la grande cena, i talenti, le dieci vergini, il buon samaritano, il ricco stolto, la dracma perduta, il buon pastore, il povero Lazzaro, ecc. Tutte quelle pagine contengono espressioni di Gesù, cioè parole che gli evangelisti riferiscono come uscite dalla sua stessa bocca.

1.2. Qualche p. prima di lui.
Quando si cercano eventuali precedenti, si raggiungono risultati piuttosto scarsi. Ma qualcosa esiste. Soprattutto nell’Antico Testamento si trovano alcuni brani che sembrano proprio da attribuire al modello ‘p.’. Il brano più noto, riferito da moltissimi studi generali sul tema, è costituito da 2 Samuele 12,1-9 (per comunicare al re Davide un messaggio, il profeta Natan gli racconta una storia: quella di un ricco prepotente il quale ha portato via a un povero l’unica pecorella che aveva, ecc.). La posizione speciale di quel brano è dovuta anche al fatto che, considerando l’intero contesto, risulta in modo molto evidente quale sia la funzione di una p. Nell’Antico Testamento vi sono anche altri esempi, almeno misti. Ora segnaliamo solamente i maggiori: Giudici 9,8-15; 2 Samuele 14,4-21; 1 Re 11,29-31; 1 Re 20,35-42; Is 5,1-7; Geremia 26,18; Ezechiele 12,3-6; Ezechiele 17,1-10; 24,3-12; ecc.
La letteratura rabbinica precedente a Gesù sembra non conoscere il modello ‘p.’. In proposito si citano soltanto due metafore di Hillel (circa 20 a.C.) usate per fare un confronto scherzoso del corpo con una statua e dell’anima con un ospite.

1.3. Poche p. parallele a lui.
Come in casi analoghi, qui si incontrano ben noti problemi di datazione. Infatti, sappiamo quanto spesso risulti difficile dire se un testo sia davvero contemporaneo a Gesù oppure se risenta dell’influsso della tradizione orale pre-evangelica. Nella letteratura giudaica extra-biblica la prima p. sarebbe quella di Rabban Johanan ben Zakkai (circa 80 d.C.), in qualche modo parallela al racconto evangelico sulla grande cena. Le altre p. rabbiniche sono in genere successive. E nei loro confronti esiste un sospetto d’insieme: forse esse derivano da una tradizione indipendente dai Vangeli, risalente più o meno al tempo di Gesù e registrata solo più tardi; o forse, invece, tra gli influssi che hanno determinato la loro nascita e il loro sviluppo, bisogna collocare proprio l’esempio di Gesù stesso e quello dei Vangeli.

1.4. Poche p. dopo di lui.
Risulta sorprendente osservare come, anche nell’ambito cristiano dei primi tempi, non si verifichi una decisa utilizzazione del modello ‘p.’ Nel Nuovo Testamento il fenomeno è ben chiaro. Da una parte, i Vangeli contengono soltanto p. di Gesù; infatti non dicono mai che qualcuno dei suoi interlocutori (un discepolo o un estraneo o un avversario) si esprime in p. Dall’altra, gli ulteriori scritti apostolici del Nuovo Testamento mostrano come nessuno, né Paolo né altri, usi mai vere e proprie p. (tra gli esempi più vicini, ma ancora lontani, si cita il paragone sviluppato in 1 Corinzi 12,12-27). Tutta la predicazione e catechesi primitiva, pur usando più volte le risorse del linguaggio figurato, non elabora forme letterarie e retoriche di quel tipo.
In seguito, com’è noto, i Padri della Chiesa danno origine a una vasta e multiforme letteratura cristiana antica. Nei loro scritti si trovano moltissimi commenti, ampi o brevi, alle pagine dei Vangeli e quindi anche alle p. Ma in questa letteratura sono assenti (o quasi) le creazioni di nuove p.; non si incontrano chiari esempi di testi che direttamente riprendono e sviluppano quel modello appartenuto allo stile con cui ha parlato Gesù. Ma forse tale assenza è sintomatica. Forse già allora nasce l’idea accennata all’inizio di queste righe: l’idea secondo la quale le p. sono una realtà talmente tipica di Gesù da risultare irripetibili, collegabili quasi soltanto a lui.

2. Da Gesù ai Vangeli

Basta uno studio biblico critico anche elementare, per avere una consapevolezza o, almeno, per nutrire un sospetto: non è possibile stabilire una semplice identità tra quanto i Vangeli attribuiscono a Gesù e quanto egli ha concretamente fatto e detto. In questo ambito, ampio e sempre molto discusso, si muovono le varie ricerche relative alla storicità di Gesù. Nel nostro caso, trascurando di riferire i dettagli delle dispute antiche e moderne circa le p., scegliamo di segnalare alcune linee che sono serenamente accolte da tutti o quasi tutti gli studiosi attuali. Ci sembra che esse siano da tener presenti anche da parte di un lettore non specialista, se vuole avere una comprensione matura e corretta delle p. in genere. Quindi le riportiamo qui, pur in forma molto schematica, con un breve commento.

2.1. Tensione.
Già gli evangelisti testimoniano che, quando furono espresse, le p. di Gesù non vennero sempre accolte in maniera del tutto pacifica. Inoltre, negli stessi Vangeli si può verificare che, pochi anni dopo, la loro utilizzazione nella catechesi primitiva non avviene secondo modalità univocamente definite.
Per la prima osservazione basta richiamare i testi evangelici dove più volte si mostra che i discepoli di Gesù rimangono perplessi di fronte al suo stile espressivo. Soprattutto vedi Matteo 13,10 e par.: "(...) Perché parli loro in parabole?"; Marco 4,10 e par.: "(...) lo interrogavano sulle parabole"; Luca 8,10: "(...) A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo in p. (...)"; Giovanni 16,29: "(...) Ecco, adesso parli chiaramente e non fai più uso di similitudini". Da quelle pagine risulta che i discepoli non riuscirono subito a individuare bene la funzione delle p.: per un verso, esse parevano intese a far meglio comprendere il messaggio (vedi Marco 4,33: "Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere"); ma, d’altra parte, la corretta comprensione era assicurata soltanto mediante un supplemento esplicativo (vedi Marco 4,34: "Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa").
Per verificare la seconda osservazione, la via più rapida e più sicura è quella di leggere un moderno commento esegetico a una p. Lì, molto spesso, il lettore è invitato a prendere nota del fatto che la medesima p. è utilizzata un po’ diversamente dall’uno o dall’altro evangelista.

2.2. Continuità.
Quindi, già i primi discepoli di Gesù mostrano serie difficoltà nel comprendere le p., sia in genere sia nei casi singoli. Inoltre pare innegabile che, quando decidono di farle capire a nuovi discepoli, essi manifestino diversi atteggiamenti nell’utilizzarle. Tuttavia, un altro fatto risulta evidente: gli evangelisti riferiscono con decisa abbondanza proprio quel genere di parole attribuite a Gesù. Di conseguenza, quantità e modalità del fenomeno sembrano offrire almeno due indicazioni: a) gli evangelisti sono convinti che le p. contengano elementi non periferici del Vangelo; b) gli evangelisti ritengono che le p. siano ancora adatte a trasmettere il Vangelo.

2.3. Sviluppo.
La scelta degli evangelisti (continuità rispetto all’atteggiamento di Gesù) non si manifesta però come una semplice ripetizione. La presenza di stesure diverse mostra un’altra procedura innegabile: essi ripetono le sue p. ma vi apportano qualche ritocco utile a renderle fruttuose in nuovi ambienti. Collocati a vari livelli e dotati di pesi diversi, i ritocchi sono soprattutto questi: riformulazione in greco di espressioni aramaiche; modifica di qualche immagine; adeguamento alla cultura e ai gusti dei nuovi destinatari; adattamento a una situazione concreta; raccolte o fusioni per motivi di efficienza catechistica; enfasi allegorica o spirituale a favore dell’applicazione; ecc.

3. Una comunicazione strategica

Dal punto di vista del comunicare, pare importante un’osservazione: le p. evangeliche non comunicano in maniera spontanea, casuale o quasi disordinata. Invece, sono da intendere come esempi di comunicazione altamente sofisticata, intenzionale e pianificata. Inoltre, è da considerare superficiale o infondata un’idea piuttosto diffusa: quella secondo cui le p. servirebbero sempre a rendere più facile la comprensione del messaggio di Gesù. I Vangeli fanno spesso capire quasi il contrario: non poche volte, le p. sembrano intese a non favorire una comprensione troppo facile (cfr. 2.1.). Però stimolano una comprensione che, benché più ardua, risulta particolarmente efficace.
Qui, abbastanza semplicemente, scegliamo di elencare le maggiori caratteristiche generali della fisionomia delle p.; allo stesso tempo, mettiamo in risalto la loro specifica natura e funzione; inoltre, dopo aver descritto una loro caratteristica, suggeriamo un punto di vista dal quale leggerle.

3.1. Interessante.
Chiaramente, le p. non intendono essere relazioni di eventi effettivamente accaduti. Invece, sono frutto di una fantasia inventiva. Quindi, si presentano come racconti fittizi. Le storie sono quasi tutte svolte in ambito umano e, in aggiunta, sono quasi sempre ampiamente verosimili. Perciò, ogni p. è soprattutto un racconto. E la prima caratteristica fondamentale di ogni buona p. è quella di presentare proprio un bel racconto. In altre parole: una condizione della sua efficacia è il fatto di non essere mai noiosa; anzi, deve avere la forza di catturare in modo vivace l’attenzione dei suoi destinatari. Per cui, una buona p. non può essere banale, né ovvia o prevedibile. Al contrario, chi l’ascolta o la legge dev’essere tanto colpito dalla storia raccontata da mostrarsi curioso di ascoltarla sino in fondo, per giungere a sapere come si conclude quella vicenda.
Tuttavia, le p. sono giunte a noi in forme sintetiche e condensate. Infatti, noi ora le possiamo cogliere soltanto entro la modalità di racconti scritti piuttosto brevi, mentre – come risulta evidente – alla loro origine esse costituiscono la realtà di narrazioni orali. Basta un’osservazione per indicare l’importanza di tale mutamento: con ogni probabilità, la forma orale era molto più ampia di quella scritta nota a noi. Quindi, essa si appoggiava a risorse che, facilmente, non sono neppure avvertite dal lettore attuale. Ad esempio: la forza ipnotica di uno sviluppo narrativo graduale o la forza drammatica espressa da alcune enfasi o alcune sospensioni. Di conseguenza, una efficace comunicazione delle p. non può limitarsi a una buona lettura. Invece, deve essere il frutto di due abilità: prima, quella di cogliere la fisionomia del racconto orale originario dietro l’attuale sintetico racconto scritto; poi, l’abilità di saperlo narrare di nuovo, in maniera efficace e corretta (inevitabilmente, questa nuova narrazione aggiunge molti dettagli; ma rimane fedele se riproduce il dinamismo primitivo e se, comunque, conduce i nuovi destinatari a cogliere il medesimo messaggio).
È possibile e necessario leggere le p. mettendo in risalto la consistenza dei loro racconti.

3.2. Prudente o indiretta.
Indichiamo con questi termini una caratteristica che è regolarmente presente nel concreto uso primario di una p. Quasi sempre, gli indizi circa il suo contesto mostrano che essa nasce nel quadro di un dialogo, più o meno esplicito. Essa appare come una risposta a una situazione; ma non è una risposta diretta. Invece, è il mezzo con cui il personaggio protagonista mette in atto una procedura del tipo ‘spiazzamento’. Nel modo seguente.
a) Nella situazione sono forti alcune domande, più o meno implicite; ma, curiosamente, il personaggio sembra ignorarle.
b) Al loro posto, egli fa emergere un oggetto diverso: una storia raccontata che, a prima vista, pare del tutto estranea. Su di essa il personaggio attira l’attenzione di coloro che lo circondano. Può sembrare che egli li voglia ‘distrarre’.
c) In realtà, raccontando la storia-parabola, li conduce quasi su un terreno neutro, là dove gli uditori possono valutare la vicenda con piena serenità: sulla base del buon senso che deriva dalla loro stessa esperienza e liberi dal peso deformante di alcuni preconcetti. Infatti, nella storia narrata la situazione è tanto ‘vicina’ da poter essere ben compresa, e tanto ‘lontana’ da poter essere giudicata obiettivamente.
d) Infine, il protagonista riconduce alla situazione realmente vissuta. Dice che essa è in qualche modo parallela o analoga alla situazione del racconto e che quindi, indirettamente, gli uditori l’hanno già valutata. Non poche volte, quest’ultima fase viene lasciata all’intuizione (cfr. "Chi ha orecchie da intendere, intenda..." Marco 4,9) o può iniziare ancor prima che il racconto sia concluso. Ma, sempre, questo è l’effettivo sbocco di ogni p.
Infatti, benché una p. sia soprattutto un racconto, non è soltanto un racconto. Invece, è un racconto + il suo uso.
Rileggendo le p. alla luce di tale schema a tappe (1. situazione; 2. spiazzamento + racconto; 3. valutazione; 4. ritorno + applicazione) si può constatare la presenza di una costante struttura fondamentale: la procedura prudente con cui una situazione vitale viene giudicata e fatta giudicare in maniera indiretta, proponendo di giudicarne un’altra (fittizia, raccontata). E la prudenza della strategia indiretta assicura l’effetto.

3.3. Aggressiva.
Nelle pagine della Bibbia, chi inizia il racconto di una p. non si allontana dal campo del dialogo. Al contrario, egli si lascia coinvolgere dalla situazione e si pone di fronte ai suoi uditori con attitudine decisamente argomentativa (tale è il senso del termine ‘aggressiva’ usato nel nostro titolo). In altre parole: chi narra una p., la usa per rispondere, per affermare un messaggio e far sì che gli uditori lo colgano. E, a volte, il messaggio può essere anche più o meno polemico o correttivo nei riguardi di alcune idee della mentalità corrente.
In questo senso, è possibile leggere ogni p. come un dittico: quasi su colonne parallele, si collocano da una parte le opinioni diffuse e dall’altra il nuovo messaggio. Così i due fattori si possono mettere a confronto.

3.4. Provocante.
Qual è lo scopo di chi narra una p.? Non sempre pare essere soltanto o anzitutto quello di insegnare e di far capire. Invece, è molto spesso anche quello – ulteriore – di indurre gli uditori a valutare una determinata situazione e prendere posizione in proposito. Come s’è già visto appena sopra (cfr. 3.2.), la generale finalità della procedura di ‘spiazzamento’ consiste nel rendere più agevole il giudizio da parte degli uditori (in quanto, direttamente, essi lo applicano a una realtà esterna e piuttosto neutra). Quindi una p. è un invito a giudicare.
Ma non ogni contesto parabolico mostra in maniera molto esplicita quell’invito, provocante, a valutare e a prendere posizione. Anzi, spesso lo lascia implicito. Comunque, pare che tale stimolo sia sempre più o meno presente e quindi avvertibile.
Perciò si possono leggere le p. elencando per ciascuna il tipo di provocazione che essa comporta. In tal modo è avvertibile la sua reale funzione all’interno del dialogo da cui nasce.

3.5. Implicante.
La valutazione, esplicita o implicita, che segue ogni racconto parabolico, può avere un duplice aspetto ‘implicante’:
a) in quanto coinvolge gli stessi uditori (i quali finiscono per giudicare non soltanto una situazione che considerano esterna, ma la loro medesima situazione);
b) in quanto implica anche altri destinatari, nel senso che si estende fino a essi (così, il messaggio della p. si coglie come applicabile non soltanto a una determinata situazione concreta, ma anche a ulteriori situazioni analoghe).
Chiaramente, su tale linea si apre la porta dell’ attualizzazione e la prospettiva di possibili o necessarie nuove ‘applicazioni’. Per questo motivo, leggendo una p. è bene chiedersi ogni volta: A chi è rivolta? A chi si applica? Chi implica?

3.6. Rivelante o velata?
La questione è classica (vedi già sopra in 2.1.). Con parole elementari, si può esprimere in questi termini: in genere, le p. tendono a facilitare la comprensione? Oppure, almeno qualche volta, hanno lo scopo di avvolgere il messaggio entro un involucro che lo difende dagli sguardi indiscreti di chiunque e lo conserva soltanto per le persone destinate a riceverlo? Ovviamente, nel secondo caso, le p. sarebbero da intendere piuttosto come enigmi e quindi assume grande valore la loro ‘spiegazione’ (intesa come procedimento necessario per aprirli).
Per una risposta complessiva si deve notare che, molto probabilmente, non tutti i casi sono uguali. Le singole p. bibliche si presentano con aspetti variabili. Così, a volte può risultare in primo piano proprio l’intento di far capire; allora una p. pare un mezzo per aiutare la comprensione. A volte, invece, pare soprattutto che l’autore intenda quasi nascondere la verità del messaggio, al fine di renderla accessibile solamente a chi è nelle condizioni per intenderlo rettamente; allora una p. pare un mezzo che seleziona i destinatari, che si apre soltanto a colui al quale ‘è dato’ il dono di capire e di giungere a una comprensione non banalmente facile (cfr. Luca 8,10).

Bibliografia

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Note

Come citare questa voce
Buzzetti Carlo , Parabola, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (23/11/2024).
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