Liturgia e comunicazione
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Autore: Giorgio Bonaccorso
La relazione tra la comunicazione e la liturgia è tutt’altro che scontata, sia perché della comunicazione oggi si fa un’esperienza riduttiva sia perché vanno comprese in tutta la loro originalità le caratteristiche peculiari della liturgia. Nel primo caso, quello della comunicazione, ci troviamo di fronte a un fenomeno sociale di vasto respiro che spesso tende a ridurre tutto a ‘informazione’, a dati controllabili e trasmissibili; sul piano della vita sociale, viene privilegiato il principio razionale dell’argomentazione, grazie al quale la comunicazione potrebbe rappresentare una forma globale di vita sociale capace di sostituire anche gli antichi riti. Nel secondo caso, quello della liturgia, incontriamo quell’esperienza religiosa, fondata sulla fede, che sembra sfuggire al controllo dei dati e all’argomentazione puramente razionale, così come sembrano sfuggirvi i riti delle più diverse religioni. I riti religiosi, infatti, hanno una relazione stretta col ‘sacro’ che, secondo alcuni autori, implica una qualche sospensione della comunicazione; allo stesso modo, anche il Mistero a cui si riferisce la liturgia cristiana, in quanto indicibile, esigerebbe una qualche sospensione della comunicazione.
Il rito e la comunicazione sembrano condizionare diversamente alcuni aspetti fondamentali dell’esistenza: si pensi al ruolo svolto in epoche passate dalle celebrazioni religiose nell’organizzazione del tempo, e, per quanto riguarda questi ultimi anni, alla trasformazione della stessa nozione di tempo operata dall’invasione informatica.
Ciò non toglie che vi siano stati e vi siano ancora influssi reciproci di indiscutibile rilevanza. La liturgia, in quanto fenomeno sociale, implica una qualche forma di espressione e trasmissione linguistica; la comunicazione, da parte sua, in quanto risponde a regole sia grammaticali sia comportamentali, assume spesso il volto della norma rituale. è interessante notare come vi siano forme di comunicazione legate al retto comportamento sociale che richiedono dei ‘riti profani’.
La possibilità e la rilevanza del rapporto tra liturgia e comunicazione appaiono in tutta la sua evidenza se si tengono presenti gli elementi che in entrambe sono fondamentali: il segno e l’azione. La comunicazione è fondamentalmente ‘trasmissione di segni e attraverso segni’, dove per segni si intendono le più diverse forme espressive, come le parole, i gesti, la musica, l’organizzazione degli spazi, e altre ancora. La comunicazione è, quindi, l’organizzazione dei linguaggi umani, ma, anche, l’uso di tali linguaggi; essa è linguaggio in azione, dove il segno non è una semplice struttura ma un comportamento. In tale definizione è implicito il superamento di una nozione ristretta di comunicazione, come è quella che la identifica con la sola informazione. La liturgia condivide le due caratteristiche della comunicazione. Essa è, infatti, un insieme molto ricco di segni, e i sacramenti, nuclei vitali della liturgia, hanno nel segno uno dei termini classici dalla propria definizione (si pensi alla formulazione ‘segni efficaci’). Inoltre, in quanto celebrazione, la liturgia è una sequenza più o meno lunga di azioni, di comportamenti, che spesso modificano il senso ordinario dei segni. In quanto ‘segno’ e ‘azione’ la liturgia ha un’evidente relazione col fenomeno del comunicare: i soggetti celebranti hanno una competenza comunicativa, ossia hanno a che fare col comunicare umano, ma secondo modalità proprie.
La molteplicità degli ambiti in cui può avvenire la comunicazione e il discreto numero dei punti di vista a partire dai quali essa può venire intesa legittimano il confronto col contesto liturgico inteso come ambito in cui si esercita una competenza specifica. Rimane, però, da tener presente un fatto che è stato messo in evidenza soprattutto dalla riflessione filosofica. Il comunicare non è solo un’attività strumentale dell’uomo, ma anche un suo ‘modo di essere’. L’uomo ha un’esistenza comunicativa. Qui il confronto col rito si fa più profondo, poiché consente di verificare non solo la competenza ma l’intrinseca esistenza comunicativa della liturgia. Sarà opportuno, quindi, considerare anzitutto la competenza comunicativa dei soggetti celebranti nella liturgia e segnalare, sia pur brevemente, quegli aspetti che ne evidenziano l’esistenza comunicativa.
Il testo (codice e messaggio) coincide con quella che si è soliti chiamare piano semantico della comunicazione, così come il contesto (mittente e destinatario) riguarda il piano pragmatico della comunicazione. è evidente che i due piani, semantico e pragmatico, non sono separati, ma interagiscono: il contesto, ovviamente, condiziona il testo, e il testo, da parte sua, aiuta a mostrare come opera un determinato contesto. La liturgia opera in entrambi i piani: essa è, indubbiamente, un ‘testo’ ricco di molteplici messaggi (verso i quali si è rivolta più frequentemente la ricerca) mediati da molti codici, verbali e non verbali. Ma, soprattutto, la liturgia è un ‘contesto’ molto particolare, nel quale i comportamenti dei mittenti e dei destinatari o di chi, di volta in volta, svolge l’uno o l’altro di tali ruoli, sono regolati da norme o usi le cui caratteristiche non sono tra le più comuni negli altri ambiti della comunicazione umana.
1.1. Il testo: piano semantico della comunicazione liturgica.
Il tema classico della comunicazione liturgica, dal punto di vista semantico, è quello del linguaggio (o dei linguaggi) a cui fanno ricorso i riti cristiani; gli studi sull’argomento tentano, ovviamente, di individuarne la peculiarità, avvalendosi di diversi strumenti e punti di vista. L’aspetto più rilevante, però, è costituito dal particolare gioco tra messaggio e codice, che si verifica nella liturgia. Se si osservano i suoi molteplici messaggi, è facile scorgervi la presenza o la risonanza della Sacra Scrittura e della tradizione della Chiesa; essi rivelano il profondo legame esistente tra il culto cristiano e la storia della salvezza, tra il rito della Chiesa e la storia dell’uomo (letta sotto il profilo della relazione con Dio). Si tratta di quei messaggi della fede che ritroviamo, in buona parte, anche nell’annuncio, nella catechesi, nella riflessione teologica, ma con una differenza sostanziale. In tali ambiti, i messaggi della fede si esprimono prevalentemente nella parola, ossia nella forma verbale del linguaggio, mentre la liturgia ricorre a una molteplicità di linguaggi o, più esattamente, a una molteplicità di codici. Qui sta una delle principali peculiarità della comunicazione liturgica: in essa la comunità credente non confessa la propria fede solo attraverso una grande varietà di messaggi ma, anche e soprattutto, attraverso una notevole varietà di codici, verbali e non verbali, con i quali fa interagire i diversi messaggi.
I gesti, gli spostamenti, la musica, l’organizzazione degli spazi, la disposizione degli oggetti e delle persone, le immagini, coinvolgono tutti gli aspetti dell’espressività umana. Grazie a questa molteplicità di codici, vengono coinvolti tutti i sensi: nella liturgia, infatti, come in ogni rito religioso, si sente, si vede, si tocca, si gusta, si percepiscono odori. In tal modo vengono attivate tutte le capacità percettive dell’uomo. Non ci si limita a pensare e a parlare (o ascoltare), ma si è globalmente presi da una rete di espressioni e di percezioni. Il rito è un occhio che guarda, ma anche un orecchio che ascolta, una mano che tocca, una bocca che mangia.
Per comprendere la rilevanza di questo fatto occorre tener presente cosa avviene in noi nella vita di tutti i giorni. Quando noi ricorriamo a una sola forma espressiva e a un solo tipo di percezione o a un solo senso, la realtà che esprimiamo o cogliamo è molto limitata e settoriale: esprimiamo solo una parte di noi stessi e cogliamo solo un piccolo settore della realtà. Quando, invece, sono impegnate tutte le forme espressive e tutte le capacità percettive, allora, e solo allora, ci accorgiamo di un mondo a cui apparteniamo: allora sono in gioco tutto il nostro io e l’intera realtà che ci circonda.
La liturgia opera proprio in quest’ultimo modo; essa coinvolge i principali codici della comunicazione umana, ossia le principali forme espressive e capacità percettive dell’uomo. Ciò significa che la liturgia apre a ‘un mondo’. Ma di quale mondo si tratta? Qui subentra l’altro aspetto rilevante da tener presente, ossia il ‘programma rituale’. La liturgia cristiana, come qualsiasi rito religioso, organizza i codici e i messaggi, le forme espressive e le capacità percettive a cui fa ricorso, in una sequenza, più o meno lunga e complessa, grazie alla quale è possibile riconoscere il mondo religioso a cui il complesso rituale appartiene; nel caso della liturgia cristiana si tratta del ‘mondo della fede’. La sequenza rituale tipica, nella liturgia, è quella della celebrazione eucaristica: riti di apertura, liturgia della parola, liturgia della mensa (o eucaristica in senso stretto), riti di conclusione. L’intero percorso liturgico organizza i codici e i messaggi in una direzione, dischiudendo, così, l’orizzonte in cui esso intende collocarsi: la comunione tra Dio e l’uomo, tra Cristo e la Chiesa, nel dono e nel ringraziamento. L’aspetto rilevante, però, occorre ripeterlo, è che queste parole (‘la comunione tra Dio e l’uomo, tra Cristo e la Chiesa, nel dono e nel ringraziamento’) sono molto di più che un’affermazione; indicano il mondo in cui il fedele viene inserito dal complesso quadro rituale che attiva le fondamentali forme espressive e capacità percettive dell’uomo. La liturgia non parla di questo o quell’aspetto della fede o della storia della salvezza, ma ci fa abitare la fede e la storia sotto il profilo della salvezza: il testo della comunicazione liturgica non è un aspetto della fede, non è una parte del Mistero in cui crediamo, ma è tutta la fede, tutto il Mistero, di fronte al quale sta tutta la nostra persona.
Come si può facilmente intuire, qui il corpo è decisivo. Le forme espressive e percettive, che vengono organizzate nella sequenza rituale, non esistono senza corpo e, cosa non meno significativa, non esistono senza corpo i contenuti stessi della liturgia e della fede in genere. In cosa crede, infatti, il cristiano se non nel Dio che si è fatto carne? Cosa mangia nel sacramento, se non il corpo di Cristo? Cos’è intoccabile, ossia non aumentabile né diminuibile, della Sacra Scrittura, se non l’intero corpo dei libri che la costituiscono? Il centro della fede è il corpo di Cristo, nato, morto e risorto; la liturgia ci parla di questa fede col corpo che mangia e beve, si piega e si alza, viene bagnato e unto. Il corpo (di Cristo) è detto col corpo (della comunità): la comunicazione, ossia ciò che si dice, è fondamentalmente comunione, ossia relazione corporea.
è interessante notare il ruolo della Sacra Scrittura nella liturgia. Indubbiamente, tutte le celebrazioni cristiane si avvalgono dei contenuti della Bibbia; questi contenuti, però, sono soggetti a molteplici spiegazioni che ne moltiplicano i significati. C’è qualcosa, però, della Sacra Scrittura che rimane il punto fermo e fondamentale per ogni interpretazione, ossia la sua fisicità, l’insieme delle parole, dei significanti che la compongono. Il ‘corpo’ della Bibbia è il fondamento di ogni sua interpretazione, ed è al corpo della Bibbia che è attenta la liturgia. La liturgia, infatti, fa della Sacra Scrittura un gesto, prima ancora di darne una spiegazione: viene sollevata, portata, offerta. Qualcosa di simile avviene per il Credo e il Padre Nostro nell’iniziazione cristiana: vengono dati e riconsegnati. La liturgia si interessa a loro non solo come a dei ‘significati’ (mentali) ma anche come a dei ‘significanti’ (corporei), in cui è possibile coniugare la comunicazione con la comunione. Dare e consegnare (il Credo), portare e proclamare (la Bibbia), come prendere e mangiare (il Corpo di Cristo): tutto ciò indica che la comunicazione liturgica è la comunione col Mistero.
1.2. Il contesto: piano pragmatico della comunicazione liturgica.
L’attivazione di tutti i codici, integrati in un unico programma rituale, svela già l’importanza che ha il contesto liturgico per il testo di cui si compone la celebrazione. Il contesto, però, emerge in primo piano quando si rivolge l’attenzione al mittente e al destinatario. Non possiamo dimenticare, infatti, che i diversi codici e relativi messaggi non costituiscono solo la complessa rete di espressioni e percezioni con cui ci si apre al ‘mondo’ della fede, ma anche l’atto con cui si entra in relazione con gli ‘altri’. In altri termini, le forme espressive e percettive, nella liturgia, operano come azioni di scambio, in cui è fondamentale riconoscere il tipo di relazione che si realizza tra gli interlocutori. Si parla sempre più spesso, a tal proposito, di linguaggio performativo, in cui gli interlocutori non tendono, in primo luogo, a scambiarsi informazioni, ma a condizionarsi reciprocamente suscitando desiderio, stupore, speranza, fiducia, attraverso cui disporsi reciprocamente ad accogliere il mistero di Dio.
Occorre partire da un’osservazione importante: i partecipanti alla liturgia conoscono già in buona parte i contenuti dei dialoghi che vi si svolgono, mentre possono rimanere sorpresi (nel bene o nel male) del come vi si svolgono. Qui il ‘come’ sta a indicare che al centro dell’interesse non è solo il contenuto dei messaggi, ma ciò che il loro scambio provoca e realizza tra i celebranti (presbiteri e laici). Non si tratta, ovviamente, di sminuire la rilevanza del tessuto teologico (i contenuti) di cui si compone il culto cristiano, ma di sottolineare che quel tessuto assume la modalità del dialogo: il teo-logico, nella liturgia, è fondamentalmente il dia-logico, ossia il modo dell’incontro tra i credenti. Ciò significa che le parole non sono solo ‘espressioni’ ma anche e soprattutto ‘azioni’ e, più precisamente, ‘atti linguistici’. Quando qualcuno promette, ordina, avverte, non si limita a constatare qualcosa ma tende a condizionare qualcuno: o l’interlocutore, o se stesso in riferimento a un altro, o l’intera situazione in cui si trovano i dialoganti.
La liturgia è piena di atti linguistici, in cui si convoca, si saluta, si loda, si esorta, si ringrazia, si prega, si invoca, si perdona. Questi atti linguistici sono svolti dai diversi partecipanti che di volta in volta svolgono il ruolo di mittente e di destinatario. In determinate circostanze, la parola pronunciata dal mittente adeguato può modificare radicalmente la realtà (sociale ed ecclesiale). Se un giudice, in tribunale, dichiara un determinato imputato colpevole, da quel momento l’identità sociale di tale imputato cambia. Se il diacono, nella celebrazione battesimale, bagna la testa di un bambino e dichiara: "Io ti battezzo nel nome...", il bambino, da quel momento, è battezzato, e diventa parte integrante della comunità cristiana. Tutti i sacramenti, sotto questo profilo, sono atti linguistici che ottengono ciò che dicono. Ciò significa che i contenuti della liturgia valgono in quanto effettivamente operativi, in quanto ‘efficaci’: le parole non si limitano a dire qualcosa sul battesimo ma realizzano il sacramento battesimale.
La comunicazione liturgica è un insieme di atti linguistici con cui il mittente condiziona o tende a condizionare il destinatario. Quest’ultimo, però, non è solo passivo. Se lo fosse, infatti, tutta la comunità celebrante sarebbe puramente passiva. E, invece, la comunità celebrante nasce proprio come destinatario attivo della Parola di Dio. Nella visione di fede, la Parola di Dio convoca e i credenti si riuniscono in assemblea: l’atto stesso del riunirsi rivela che l’intera comunità è identificabile come un destinatario che accoglie l’atto linguistico (di convocazione) della Parola. Allo stesso modo, chiunque nella liturgia svolge, di volta in volta, il ruolo di destinatario ripete questo atteggiamento che appartiene già alla comunità celebrante nel suo insieme. Inoltre, la reazione del destinatario alla parola (all’atto linguistico) del mittente è decisiva per il contesto liturgico, dato che questo si fonda sulla condivisione della fede, ossia sull’intesa tra tutti gli interlocutori, tra il mittente e il destinatario.
Tutto questo mette in evidenza che il centro dell’azione liturgica è costituito dai celebranti, ossia da tutti coloro che vi partecipano: io, cioè, sono costituito celebrante, prima ancora che per i contenuti teologici della celebrazione, per l’incontro con l’altro, con gli altri. Se nella liturgia vi è un’efficacia (atti linguistici) è perché in essa avviene l’incontro con l’altro. è bene tener presente che l’insistenza sulla dimensione comunitaria, che caratterizza la stagione postconciliare, non dovrebbe esaurirsi nell’idea di una globalità di persone che partecipano al culto; l’aspetto veramente rilevante della dimensione comunitaria è quello dall’intersoggettività, dove, prima di tutto, si realizza il rapporto con l’altro (il fratello e la sorella). Solo in questo modo mi posso accorgere di Dio, non come contenuto di pensiero, ma come l’Altro. Nella liturgia più che ‘conoscere’ un messaggio si ‘rivela’ l’altro/Altro.
Alla luce di questa osservazione si può affermare che chiunque, di volta in volta, svolge il ruolo del mittente compie l’atto di una rivelazione, così come chiunque, di volta in volta, svolge il ruolo del destinatario compie l’atto dell’accoglienza: entrambe essenziali, poiché nessuna rivelazione è tale senza che qualcuno l’accolga. Nel gioco dialogico tra mittenti e destinatari, si compie l’atto globale della rivelazione; appare, cioè, quel dialogante nascosto che è Dio. Il Mistero divino non è più un contenuto, ma un interlocutore dell’uomo, e l’uomo non è più un pubblico generico che viene informato sulle definizioni teologiche del Mistero divino, ma il credente che ha imparato a stare di fronte all’altro/Altro e a comunicare con l’altro/Altro.
Il contesto della comunicazione liturgica non è, quindi, quello dello spettacolo a cui si assiste ma quello dell’essere tutti spettacolo gli uni per gli altri: ognuno è esposto a essere visto, toccato, udito, è esposto allo sguardo degli altri, condiziona ed è condizionato dagli altri, e, proprio così, impara a accorgersi di essere sotto lo sguardo di Dio e di poter parlare con Dio. In tal modo, la celebrazione liturgica compromette i credenti, perché la sua forma comunicativa è irreversibilmente una forma di comunione.
A questo punto rimane da chiedersi se una ‘competenza comunicativa’ così descritta abbia un fondamento più profondo, ossia se non la si debba far derivare dall’esistenza comunicativa dell’uomo in genere e del rito in modo particolare. Per parlare di ‘esistenza comunicativa’ è necessario superare quel modo di pensare che irrigidisce il linguaggio nel calco dello strumento, di cui la conoscenza si servirebbe per esprimersi e trasmettersi. Secondo questa concezione, l’uomo può dire solo ciò che, in un modo o nell’altro, emotivamente o razionalmente, ha conosciuto: il postulato è che la conoscenza sia più originaria della comunicazione. Si può, però, affermare anche l’opposto, sulla base del fatto che l’uomo, fin da piccolo, comunica prima di conoscere e per conoscere. In altri termini, l’uomo definisce, classifica, riconosce la realtà che lo circonda grazie al linguaggio (ai linguaggi) che gli è stato trasmesso dagli esseri umani (famiglia e società) con cui entra in comunicazione. Egli esiste come ‘essere che comunica’ e, in quanto ‘essere che comunica’, si affaccia sul mondo per conoscerlo. Da questo punto di vista, l’atto del comunicare condiziona la conoscenza del mondo da parte dell’uomo, perché quell’atto è un modo di essere dell’uomo nel mondo. Avviene così un capovolgimento secondo cui la comunicazione precede la conoscenza.
Le conseguenze sono evidenti, dato che se nell’atto della conoscenza io posso anche pensarmi solo, nell’atto della comunicazione io devo presupporre sempre l’altro. Ciò significa che se la conoscenza precede la comunicazione, io sono ‘prima’ dell’altro, ma se è la comunicazione a precedere la conoscenza, io sono sempre ‘con’ l’altro e conosco grazie all’altro che mi svela il senso delle cose. Può anche avvenire che quanto mi viene comunicato dall’altro superi la mia capacità di conoscere. è il caso della teofania e della rivelazione divina che sono forme di comunicazione del sacro, ossia forme di comunicazione che non possono essere esaurite dalla conoscenza umana. Per questo motivo possiamo affermare che nell’ambito dell’esperienza religiosa, più che in qualsiasi altra esperienza, la comunicazione precede ed è più ampia della conoscenza. I riti religiosi ne sono l’esempio più evidente. Un rito è un insieme di forme espressive con le quali si realizza una ricca e variegata rete comunicativa tra i credenti, ma tale rete supera i limiti della conoscenza.
Ciò vale anche per il cristianesimo e per la liturgia. La rivelazione di Dio è una Parola che si autocomunica all’uomo oltre i limiti della conoscenza che il credente può averne. E la liturgia è comunicazione col Mistero prima e più che conoscenza del Mistero. In ciò consiste l’esistenza comunicativa della liturgia: un incontro, una relazione che non poggia sulla conoscenza. Come insegna l’esperienza della preghiera, nelle più svariate testimonianze, Dio non è conoscibile, eppure ci si può rivolgere a Lui, si può comunicare con Lui. L’atto ultimo e decisivo di tale atteggiamento è il silenzio, che è parte integrante della celebrazione liturgica. L’in-dicibilità di Dio solleva la parola dal proprio compito usuale e solleva anche il pensiero dalle proprie pretese di conoscere tutto, ma non interrompe la comunicazione. Il silenzio del credente non è il mutismo di chi ha perso il proprio interlocutore, ma la reazione di chi l’ha veramente trovato: uno stare alla presenza di Qualcuno senza dover consumare parole.
L’esistenza comunicativa della liturgia è bespressa da questo atteggiamento ‘silenzioso’ che non si limita al silenzio in senso stretto. Anche le parole del rito sono silenziose, perché non nascono dalle infinite chiacchiere che si moltiplicano con la stessa rapidità con cui svaniscono, ma permangono di generazione in generazione e si dispongono sulla bocca dei celebranti (presbiteri o laici) per aiutarli a dire Dio. Quando il lettore proclama il testo biblico dell’Antico o del Nuovo Testamento, non pronuncia parole proprie; potremmo dire che egli non parla affatto: dicendo la Parola di Dio, il lettore fa silenzio, poiché fa tacere le proprie parole. Ma anche compiendo il gesto di Cristo, il presbitero all’altare fa silenzio, ossia sospende il gesticolare quotidiano. Il chiacchierare e il gesticolare lasciano il posto alla parola e al gesto in cui l’uomo non si disperde ma ritrova se stesso: la parola e il gesto in cui riposano le radici dell’esistenza umana e in cui si può scorgere Dio. La comunicazione liturgica è quella parola e questo gesto, ed è il silenzio nel quale l’uomo dice quella parola e compie questo gesto. (Messa e Tv)
Il rito e la comunicazione sembrano condizionare diversamente alcuni aspetti fondamentali dell’esistenza: si pensi al ruolo svolto in epoche passate dalle celebrazioni religiose nell’organizzazione del tempo, e, per quanto riguarda questi ultimi anni, alla trasformazione della stessa nozione di tempo operata dall’invasione informatica.
Ciò non toglie che vi siano stati e vi siano ancora influssi reciproci di indiscutibile rilevanza. La liturgia, in quanto fenomeno sociale, implica una qualche forma di espressione e trasmissione linguistica; la comunicazione, da parte sua, in quanto risponde a regole sia grammaticali sia comportamentali, assume spesso il volto della norma rituale. è interessante notare come vi siano forme di comunicazione legate al retto comportamento sociale che richiedono dei ‘riti profani’.
La possibilità e la rilevanza del rapporto tra liturgia e comunicazione appaiono in tutta la sua evidenza se si tengono presenti gli elementi che in entrambe sono fondamentali: il segno e l’azione. La comunicazione è fondamentalmente ‘trasmissione di segni e attraverso segni’, dove per segni si intendono le più diverse forme espressive, come le parole, i gesti, la musica, l’organizzazione degli spazi, e altre ancora. La comunicazione è, quindi, l’organizzazione dei linguaggi umani, ma, anche, l’uso di tali linguaggi; essa è linguaggio in azione, dove il segno non è una semplice struttura ma un comportamento. In tale definizione è implicito il superamento di una nozione ristretta di comunicazione, come è quella che la identifica con la sola informazione. La liturgia condivide le due caratteristiche della comunicazione. Essa è, infatti, un insieme molto ricco di segni, e i sacramenti, nuclei vitali della liturgia, hanno nel segno uno dei termini classici dalla propria definizione (si pensi alla formulazione ‘segni efficaci’). Inoltre, in quanto celebrazione, la liturgia è una sequenza più o meno lunga di azioni, di comportamenti, che spesso modificano il senso ordinario dei segni. In quanto ‘segno’ e ‘azione’ la liturgia ha un’evidente relazione col fenomeno del comunicare: i soggetti celebranti hanno una competenza comunicativa, ossia hanno a che fare col comunicare umano, ma secondo modalità proprie.
La molteplicità degli ambiti in cui può avvenire la comunicazione e il discreto numero dei punti di vista a partire dai quali essa può venire intesa legittimano il confronto col contesto liturgico inteso come ambito in cui si esercita una competenza specifica. Rimane, però, da tener presente un fatto che è stato messo in evidenza soprattutto dalla riflessione filosofica. Il comunicare non è solo un’attività strumentale dell’uomo, ma anche un suo ‘modo di essere’. L’uomo ha un’esistenza comunicativa. Qui il confronto col rito si fa più profondo, poiché consente di verificare non solo la competenza ma l’intrinseca esistenza comunicativa della liturgia. Sarà opportuno, quindi, considerare anzitutto la competenza comunicativa dei soggetti celebranti nella liturgia e segnalare, sia pur brevemente, quegli aspetti che ne evidenziano l’esistenza comunicativa.
1. La competenza comunicativa nella liturgia
La comunicazione, normalmente, implica un mittente che invia un messaggio a un destinatario; il mittente e il destinatario in questione si intendono a condizione che entrambi ricorrano al medesimo codice. Il messaggio e il codice costituiscono il ‘testo’ della comunicazione; il mittente e il destinatario (che si scambiano il messaggio) operano sempre in un determinato contesto (in ufficio, a casa, in chiesa).Il testo (codice e messaggio) coincide con quella che si è soliti chiamare piano semantico della comunicazione, così come il contesto (mittente e destinatario) riguarda il piano pragmatico della comunicazione. è evidente che i due piani, semantico e pragmatico, non sono separati, ma interagiscono: il contesto, ovviamente, condiziona il testo, e il testo, da parte sua, aiuta a mostrare come opera un determinato contesto. La liturgia opera in entrambi i piani: essa è, indubbiamente, un ‘testo’ ricco di molteplici messaggi (verso i quali si è rivolta più frequentemente la ricerca) mediati da molti codici, verbali e non verbali. Ma, soprattutto, la liturgia è un ‘contesto’ molto particolare, nel quale i comportamenti dei mittenti e dei destinatari o di chi, di volta in volta, svolge l’uno o l’altro di tali ruoli, sono regolati da norme o usi le cui caratteristiche non sono tra le più comuni negli altri ambiti della comunicazione umana.
1.1. Il testo: piano semantico della comunicazione liturgica.
Il tema classico della comunicazione liturgica, dal punto di vista semantico, è quello del linguaggio (o dei linguaggi) a cui fanno ricorso i riti cristiani; gli studi sull’argomento tentano, ovviamente, di individuarne la peculiarità, avvalendosi di diversi strumenti e punti di vista. L’aspetto più rilevante, però, è costituito dal particolare gioco tra messaggio e codice, che si verifica nella liturgia. Se si osservano i suoi molteplici messaggi, è facile scorgervi la presenza o la risonanza della Sacra Scrittura e della tradizione della Chiesa; essi rivelano il profondo legame esistente tra il culto cristiano e la storia della salvezza, tra il rito della Chiesa e la storia dell’uomo (letta sotto il profilo della relazione con Dio). Si tratta di quei messaggi della fede che ritroviamo, in buona parte, anche nell’annuncio, nella catechesi, nella riflessione teologica, ma con una differenza sostanziale. In tali ambiti, i messaggi della fede si esprimono prevalentemente nella parola, ossia nella forma verbale del linguaggio, mentre la liturgia ricorre a una molteplicità di linguaggi o, più esattamente, a una molteplicità di codici. Qui sta una delle principali peculiarità della comunicazione liturgica: in essa la comunità credente non confessa la propria fede solo attraverso una grande varietà di messaggi ma, anche e soprattutto, attraverso una notevole varietà di codici, verbali e non verbali, con i quali fa interagire i diversi messaggi.
I gesti, gli spostamenti, la musica, l’organizzazione degli spazi, la disposizione degli oggetti e delle persone, le immagini, coinvolgono tutti gli aspetti dell’espressività umana. Grazie a questa molteplicità di codici, vengono coinvolti tutti i sensi: nella liturgia, infatti, come in ogni rito religioso, si sente, si vede, si tocca, si gusta, si percepiscono odori. In tal modo vengono attivate tutte le capacità percettive dell’uomo. Non ci si limita a pensare e a parlare (o ascoltare), ma si è globalmente presi da una rete di espressioni e di percezioni. Il rito è un occhio che guarda, ma anche un orecchio che ascolta, una mano che tocca, una bocca che mangia.
Per comprendere la rilevanza di questo fatto occorre tener presente cosa avviene in noi nella vita di tutti i giorni. Quando noi ricorriamo a una sola forma espressiva e a un solo tipo di percezione o a un solo senso, la realtà che esprimiamo o cogliamo è molto limitata e settoriale: esprimiamo solo una parte di noi stessi e cogliamo solo un piccolo settore della realtà. Quando, invece, sono impegnate tutte le forme espressive e tutte le capacità percettive, allora, e solo allora, ci accorgiamo di un mondo a cui apparteniamo: allora sono in gioco tutto il nostro io e l’intera realtà che ci circonda.
La liturgia opera proprio in quest’ultimo modo; essa coinvolge i principali codici della comunicazione umana, ossia le principali forme espressive e capacità percettive dell’uomo. Ciò significa che la liturgia apre a ‘un mondo’. Ma di quale mondo si tratta? Qui subentra l’altro aspetto rilevante da tener presente, ossia il ‘programma rituale’. La liturgia cristiana, come qualsiasi rito religioso, organizza i codici e i messaggi, le forme espressive e le capacità percettive a cui fa ricorso, in una sequenza, più o meno lunga e complessa, grazie alla quale è possibile riconoscere il mondo religioso a cui il complesso rituale appartiene; nel caso della liturgia cristiana si tratta del ‘mondo della fede’. La sequenza rituale tipica, nella liturgia, è quella della celebrazione eucaristica: riti di apertura, liturgia della parola, liturgia della mensa (o eucaristica in senso stretto), riti di conclusione. L’intero percorso liturgico organizza i codici e i messaggi in una direzione, dischiudendo, così, l’orizzonte in cui esso intende collocarsi: la comunione tra Dio e l’uomo, tra Cristo e la Chiesa, nel dono e nel ringraziamento. L’aspetto rilevante, però, occorre ripeterlo, è che queste parole (‘la comunione tra Dio e l’uomo, tra Cristo e la Chiesa, nel dono e nel ringraziamento’) sono molto di più che un’affermazione; indicano il mondo in cui il fedele viene inserito dal complesso quadro rituale che attiva le fondamentali forme espressive e capacità percettive dell’uomo. La liturgia non parla di questo o quell’aspetto della fede o della storia della salvezza, ma ci fa abitare la fede e la storia sotto il profilo della salvezza: il testo della comunicazione liturgica non è un aspetto della fede, non è una parte del Mistero in cui crediamo, ma è tutta la fede, tutto il Mistero, di fronte al quale sta tutta la nostra persona.
Come si può facilmente intuire, qui il corpo è decisivo. Le forme espressive e percettive, che vengono organizzate nella sequenza rituale, non esistono senza corpo e, cosa non meno significativa, non esistono senza corpo i contenuti stessi della liturgia e della fede in genere. In cosa crede, infatti, il cristiano se non nel Dio che si è fatto carne? Cosa mangia nel sacramento, se non il corpo di Cristo? Cos’è intoccabile, ossia non aumentabile né diminuibile, della Sacra Scrittura, se non l’intero corpo dei libri che la costituiscono? Il centro della fede è il corpo di Cristo, nato, morto e risorto; la liturgia ci parla di questa fede col corpo che mangia e beve, si piega e si alza, viene bagnato e unto. Il corpo (di Cristo) è detto col corpo (della comunità): la comunicazione, ossia ciò che si dice, è fondamentalmente comunione, ossia relazione corporea.
è interessante notare il ruolo della Sacra Scrittura nella liturgia. Indubbiamente, tutte le celebrazioni cristiane si avvalgono dei contenuti della Bibbia; questi contenuti, però, sono soggetti a molteplici spiegazioni che ne moltiplicano i significati. C’è qualcosa, però, della Sacra Scrittura che rimane il punto fermo e fondamentale per ogni interpretazione, ossia la sua fisicità, l’insieme delle parole, dei significanti che la compongono. Il ‘corpo’ della Bibbia è il fondamento di ogni sua interpretazione, ed è al corpo della Bibbia che è attenta la liturgia. La liturgia, infatti, fa della Sacra Scrittura un gesto, prima ancora di darne una spiegazione: viene sollevata, portata, offerta. Qualcosa di simile avviene per il Credo e il Padre Nostro nell’iniziazione cristiana: vengono dati e riconsegnati. La liturgia si interessa a loro non solo come a dei ‘significati’ (mentali) ma anche come a dei ‘significanti’ (corporei), in cui è possibile coniugare la comunicazione con la comunione. Dare e consegnare (il Credo), portare e proclamare (la Bibbia), come prendere e mangiare (il Corpo di Cristo): tutto ciò indica che la comunicazione liturgica è la comunione col Mistero.
1.2. Il contesto: piano pragmatico della comunicazione liturgica.
L’attivazione di tutti i codici, integrati in un unico programma rituale, svela già l’importanza che ha il contesto liturgico per il testo di cui si compone la celebrazione. Il contesto, però, emerge in primo piano quando si rivolge l’attenzione al mittente e al destinatario. Non possiamo dimenticare, infatti, che i diversi codici e relativi messaggi non costituiscono solo la complessa rete di espressioni e percezioni con cui ci si apre al ‘mondo’ della fede, ma anche l’atto con cui si entra in relazione con gli ‘altri’. In altri termini, le forme espressive e percettive, nella liturgia, operano come azioni di scambio, in cui è fondamentale riconoscere il tipo di relazione che si realizza tra gli interlocutori. Si parla sempre più spesso, a tal proposito, di linguaggio performativo, in cui gli interlocutori non tendono, in primo luogo, a scambiarsi informazioni, ma a condizionarsi reciprocamente suscitando desiderio, stupore, speranza, fiducia, attraverso cui disporsi reciprocamente ad accogliere il mistero di Dio.
Occorre partire da un’osservazione importante: i partecipanti alla liturgia conoscono già in buona parte i contenuti dei dialoghi che vi si svolgono, mentre possono rimanere sorpresi (nel bene o nel male) del come vi si svolgono. Qui il ‘come’ sta a indicare che al centro dell’interesse non è solo il contenuto dei messaggi, ma ciò che il loro scambio provoca e realizza tra i celebranti (presbiteri e laici). Non si tratta, ovviamente, di sminuire la rilevanza del tessuto teologico (i contenuti) di cui si compone il culto cristiano, ma di sottolineare che quel tessuto assume la modalità del dialogo: il teo-logico, nella liturgia, è fondamentalmente il dia-logico, ossia il modo dell’incontro tra i credenti. Ciò significa che le parole non sono solo ‘espressioni’ ma anche e soprattutto ‘azioni’ e, più precisamente, ‘atti linguistici’. Quando qualcuno promette, ordina, avverte, non si limita a constatare qualcosa ma tende a condizionare qualcuno: o l’interlocutore, o se stesso in riferimento a un altro, o l’intera situazione in cui si trovano i dialoganti.
La liturgia è piena di atti linguistici, in cui si convoca, si saluta, si loda, si esorta, si ringrazia, si prega, si invoca, si perdona. Questi atti linguistici sono svolti dai diversi partecipanti che di volta in volta svolgono il ruolo di mittente e di destinatario. In determinate circostanze, la parola pronunciata dal mittente adeguato può modificare radicalmente la realtà (sociale ed ecclesiale). Se un giudice, in tribunale, dichiara un determinato imputato colpevole, da quel momento l’identità sociale di tale imputato cambia. Se il diacono, nella celebrazione battesimale, bagna la testa di un bambino e dichiara: "Io ti battezzo nel nome...", il bambino, da quel momento, è battezzato, e diventa parte integrante della comunità cristiana. Tutti i sacramenti, sotto questo profilo, sono atti linguistici che ottengono ciò che dicono. Ciò significa che i contenuti della liturgia valgono in quanto effettivamente operativi, in quanto ‘efficaci’: le parole non si limitano a dire qualcosa sul battesimo ma realizzano il sacramento battesimale.
La comunicazione liturgica è un insieme di atti linguistici con cui il mittente condiziona o tende a condizionare il destinatario. Quest’ultimo, però, non è solo passivo. Se lo fosse, infatti, tutta la comunità celebrante sarebbe puramente passiva. E, invece, la comunità celebrante nasce proprio come destinatario attivo della Parola di Dio. Nella visione di fede, la Parola di Dio convoca e i credenti si riuniscono in assemblea: l’atto stesso del riunirsi rivela che l’intera comunità è identificabile come un destinatario che accoglie l’atto linguistico (di convocazione) della Parola. Allo stesso modo, chiunque nella liturgia svolge, di volta in volta, il ruolo di destinatario ripete questo atteggiamento che appartiene già alla comunità celebrante nel suo insieme. Inoltre, la reazione del destinatario alla parola (all’atto linguistico) del mittente è decisiva per il contesto liturgico, dato che questo si fonda sulla condivisione della fede, ossia sull’intesa tra tutti gli interlocutori, tra il mittente e il destinatario.
Tutto questo mette in evidenza che il centro dell’azione liturgica è costituito dai celebranti, ossia da tutti coloro che vi partecipano: io, cioè, sono costituito celebrante, prima ancora che per i contenuti teologici della celebrazione, per l’incontro con l’altro, con gli altri. Se nella liturgia vi è un’efficacia (atti linguistici) è perché in essa avviene l’incontro con l’altro. è bene tener presente che l’insistenza sulla dimensione comunitaria, che caratterizza la stagione postconciliare, non dovrebbe esaurirsi nell’idea di una globalità di persone che partecipano al culto; l’aspetto veramente rilevante della dimensione comunitaria è quello dall’intersoggettività, dove, prima di tutto, si realizza il rapporto con l’altro (il fratello e la sorella). Solo in questo modo mi posso accorgere di Dio, non come contenuto di pensiero, ma come l’Altro. Nella liturgia più che ‘conoscere’ un messaggio si ‘rivela’ l’altro/Altro.
Alla luce di questa osservazione si può affermare che chiunque, di volta in volta, svolge il ruolo del mittente compie l’atto di una rivelazione, così come chiunque, di volta in volta, svolge il ruolo del destinatario compie l’atto dell’accoglienza: entrambe essenziali, poiché nessuna rivelazione è tale senza che qualcuno l’accolga. Nel gioco dialogico tra mittenti e destinatari, si compie l’atto globale della rivelazione; appare, cioè, quel dialogante nascosto che è Dio. Il Mistero divino non è più un contenuto, ma un interlocutore dell’uomo, e l’uomo non è più un pubblico generico che viene informato sulle definizioni teologiche del Mistero divino, ma il credente che ha imparato a stare di fronte all’altro/Altro e a comunicare con l’altro/Altro.
Il contesto della comunicazione liturgica non è, quindi, quello dello spettacolo a cui si assiste ma quello dell’essere tutti spettacolo gli uni per gli altri: ognuno è esposto a essere visto, toccato, udito, è esposto allo sguardo degli altri, condiziona ed è condizionato dagli altri, e, proprio così, impara a accorgersi di essere sotto lo sguardo di Dio e di poter parlare con Dio. In tal modo, la celebrazione liturgica compromette i credenti, perché la sua forma comunicativa è irreversibilmente una forma di comunione.
2. L’esistenza comunicativa della liturgia
Se volessimo sintetizzare la competenza comunicativa che i celebranti esercitano nell’ambito della liturgia, dovremmo riconoscerla nella capacità di fare comunione, sia nel senso di un’apertura al mondo della fede, sia nel senso del rapporto all’altro nella fede. In entrambi i casi, al centro è il Mistero, sia come globalità sia come alterità.A questo punto rimane da chiedersi se una ‘competenza comunicativa’ così descritta abbia un fondamento più profondo, ossia se non la si debba far derivare dall’esistenza comunicativa dell’uomo in genere e del rito in modo particolare. Per parlare di ‘esistenza comunicativa’ è necessario superare quel modo di pensare che irrigidisce il linguaggio nel calco dello strumento, di cui la conoscenza si servirebbe per esprimersi e trasmettersi. Secondo questa concezione, l’uomo può dire solo ciò che, in un modo o nell’altro, emotivamente o razionalmente, ha conosciuto: il postulato è che la conoscenza sia più originaria della comunicazione. Si può, però, affermare anche l’opposto, sulla base del fatto che l’uomo, fin da piccolo, comunica prima di conoscere e per conoscere. In altri termini, l’uomo definisce, classifica, riconosce la realtà che lo circonda grazie al linguaggio (ai linguaggi) che gli è stato trasmesso dagli esseri umani (famiglia e società) con cui entra in comunicazione. Egli esiste come ‘essere che comunica’ e, in quanto ‘essere che comunica’, si affaccia sul mondo per conoscerlo. Da questo punto di vista, l’atto del comunicare condiziona la conoscenza del mondo da parte dell’uomo, perché quell’atto è un modo di essere dell’uomo nel mondo. Avviene così un capovolgimento secondo cui la comunicazione precede la conoscenza.
Le conseguenze sono evidenti, dato che se nell’atto della conoscenza io posso anche pensarmi solo, nell’atto della comunicazione io devo presupporre sempre l’altro. Ciò significa che se la conoscenza precede la comunicazione, io sono ‘prima’ dell’altro, ma se è la comunicazione a precedere la conoscenza, io sono sempre ‘con’ l’altro e conosco grazie all’altro che mi svela il senso delle cose. Può anche avvenire che quanto mi viene comunicato dall’altro superi la mia capacità di conoscere. è il caso della teofania e della rivelazione divina che sono forme di comunicazione del sacro, ossia forme di comunicazione che non possono essere esaurite dalla conoscenza umana. Per questo motivo possiamo affermare che nell’ambito dell’esperienza religiosa, più che in qualsiasi altra esperienza, la comunicazione precede ed è più ampia della conoscenza. I riti religiosi ne sono l’esempio più evidente. Un rito è un insieme di forme espressive con le quali si realizza una ricca e variegata rete comunicativa tra i credenti, ma tale rete supera i limiti della conoscenza.
Ciò vale anche per il cristianesimo e per la liturgia. La rivelazione di Dio è una Parola che si autocomunica all’uomo oltre i limiti della conoscenza che il credente può averne. E la liturgia è comunicazione col Mistero prima e più che conoscenza del Mistero. In ciò consiste l’esistenza comunicativa della liturgia: un incontro, una relazione che non poggia sulla conoscenza. Come insegna l’esperienza della preghiera, nelle più svariate testimonianze, Dio non è conoscibile, eppure ci si può rivolgere a Lui, si può comunicare con Lui. L’atto ultimo e decisivo di tale atteggiamento è il silenzio, che è parte integrante della celebrazione liturgica. L’in-dicibilità di Dio solleva la parola dal proprio compito usuale e solleva anche il pensiero dalle proprie pretese di conoscere tutto, ma non interrompe la comunicazione. Il silenzio del credente non è il mutismo di chi ha perso il proprio interlocutore, ma la reazione di chi l’ha veramente trovato: uno stare alla presenza di Qualcuno senza dover consumare parole.
L’esistenza comunicativa della liturgia è bespressa da questo atteggiamento ‘silenzioso’ che non si limita al silenzio in senso stretto. Anche le parole del rito sono silenziose, perché non nascono dalle infinite chiacchiere che si moltiplicano con la stessa rapidità con cui svaniscono, ma permangono di generazione in generazione e si dispongono sulla bocca dei celebranti (presbiteri o laici) per aiutarli a dire Dio. Quando il lettore proclama il testo biblico dell’Antico o del Nuovo Testamento, non pronuncia parole proprie; potremmo dire che egli non parla affatto: dicendo la Parola di Dio, il lettore fa silenzio, poiché fa tacere le proprie parole. Ma anche compiendo il gesto di Cristo, il presbitero all’altare fa silenzio, ossia sospende il gesticolare quotidiano. Il chiacchierare e il gesticolare lasciano il posto alla parola e al gesto in cui l’uomo non si disperde ma ritrova se stesso: la parola e il gesto in cui riposano le radici dell’esistenza umana e in cui si può scorgere Dio. La comunicazione liturgica è quella parola e questo gesto, ed è il silenzio nel quale l’uomo dice quella parola e compie questo gesto. (Messa e Tv)
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Bonaccorso Giorgio , Liturgia e comunicazione, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (21/11/2024).
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