Giornalismo come testimonianza

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1. Il giornalismo moderno come luogo di testimonianza nel servizio all’uomo

Questa voce intende rispondere alla domanda se il giornalismo contemporaneo possa essere il luogo di una particolare scelta morale. Anticipo che la mia risposta è positiva e individua il cuore dell’avventura morale del giornalista del Duemila nell’impegno a rivendicare l’informazione come ‘diritto’ all’interno di un sistema dei media che tende a proporla come ‘merce’.
Nell’arco temporale della mia esperienza professionale è venuta diminuendo l’autonomia decisionale del singolo giornalista, è calato anche l’utilizzo delle competenze, forse oggi c’è meno rispetto per il lettore. La regola commerciale tende a schiacciare ogni altra. La situazione italiana è simile a quella di tutto il Nord del mondo.
Eppure questi giornali concorrenziali e spettacolari sono migliori di quelli sovvenzionati di ieri: sono più attraenti, più tempestivi e meno disponibili a nascondere i fatti. Li deformano, ma – presi nel loro insieme, non singolarmente – non li censurano. E sono dunque il luogo di un possibile servizio all’uomo, alla democrazia e alla mondialità. Analogamente possono rendere un servizio alle Chiese, sempre in forza della loro capacità di attrazione (selezionano drasticamente le notizie, ma le veicolano efficacemente) e dell’indisponibilità alla censura (impongono all’attenzione dell’opinione pubblica ecclesiale questioni conflittuali che altrimenti verrebbero tacitate).

2. Difficoltà nel sistema commerciale dei media

Parlando di ‘media commerciali’ non intendo attribuire una qualifica negativa. Per media commerciali intendo tutti quelli che traggono la maggioranza del loro incasso dalla vendita degli spazi pubblicitari: le televisioni private, ovviamente, e i quotidiani e i settimanali cosiddetti d’opinione, ma anche le reti radiofoniche e televisive gestite da aziende a partecipazione statale, quando sono – ed è la situazione più frequente – sostenute solo parzialmente con risorse pubbliche.
La lotta per l’audience tende a sottoporre progressivamente questi media all’unica regola dell’efficacia commerciale: da qui viene la loro forza e il loro limite. È la ricerca dell’efficacia commerciale che li fa attraenti, tempestivi e veritieri e ciò è utile alla democrazia. Ma la concorrenza, che li impegna a dire i fatti, li spinge anche a ingrandirli, fino a deformarli.
Per fare audience, i giornalisti (e soprattutto i gestori delle testate) tendono a trattare l’informazione come una merce. Contro questa tentazione, i giornalisti (sia i responsabili delle testate, sia i singoli operatori) devono far valere il principio che l’informazione, primariamente, non è una merce ma un diritto. Tale principio è così formulato nella "Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo" (1948): "Ogni individuo ha diritto di cercare, ricevere e diffondere, senza limitazione di frontiera, le informazioni e le idee con qualunque mezzo di espressione".
"Senza limitazione di frontiere" sarà l’informazionedi domani e già ne abbiamo i primi segni. In questo inizio di millennio ci rendiamo conto che la rivoluzione informatica e telematica ha fornito all’umanità i mezzi per realizzare l’utopia affermata a metà del secolo trascorso, in quella proclamazione dei diritti venuta dopo la tragedia della guerra. Ma ogni conquista ha la sua ambiguità e il trionfo dei media commerciali è lì a ricordarcelo: l’informazione di domani arriverà dovunque liberando l’umanità dalle frontiere, o creando per tutti un’uguale dipendenza da un unico potere economico a dimensione planetaria? Questa è la sfida. Qui si gioca l’avventura morale dei media e del nuovo giornalismo mondiale.
Al polo positivo, la combinazione virtuosa delle potenzialità della rivoluzione informatica e dei media commerciali prefigura la nascita di un mondo senza frontiere, nel quale sarà possibile conoscere il destino di ogni gruppo umano nel momento stesso in cui esso si compie: un mondo nel quale il diritto all’informazione non potrà essere efficacemente negato a nessuno.
Al polo negativo stanno i rischi antiumanistici della rivoluzione informatica e del sistema commerciale dei media: controllo dell’intero mercato dell’informazione da parte di poche centrali mondiali, livellamento sostanziale dei prodotti giornalistici e loro differenziazione spettacolare, marginalizzazione del singolo operatore dell’informazione, tendenziale sua passività destinata ad accentuare la passività dell’utente.

3. Stare nel mercato senza essere del mercato

La sfida va accettata: non ci sono alternative immediatamente praticabili rispetto al sistema commerciale dei media. È facilmente dimostrabile, del resto, che tale sistema è il migliore – in ordine alla democrazia e valori connessi – tra quanti ne siano apparsi fino a oggi sulla terra.
Abbiamo accennato al paragone con la stampa sovvenzionata di ieri, ma l’argomento potrebbe essere sviluppato con un confronto approfondito tra il sistema dei media commerciali e quello statuale e ideologico approntato dai Paesi comunisti (e tutt’ora vigente nella Cina continentale), o variamente sperimentato ieri dal nazismo, dal fascismo, dal franchismo e, più recentemente, dalle dittature latino-americane.
Che il sistema commerciale dei media sia migliore (e non solo commercialmente!) di quello statuale-ideologico non è un fatto che possa giustificare i suoi limiti, ma è una base su cui costruire la lotta per il superamento di quei limiti. Come a dire: se questo è il sistema migliore, è qui che si deve affermare il meglio dell’uomo.
Indispensabili ormai alla vita associata, i media commerciali sono rilevanti anche in prospettiva religiosa. L’uomo d’oggi riceve una prima immagine del mondo (e anche della Chiesa) dai media: da qui la loro importanza.
Non resta dunque – per parafrasare il detto evangelico sullo stare nel mondo senza essere del mondo (Giovanni 15,19) – che accettare di stare nel mercato dei media senza ridurre le ragioni del conflitto che si impone a chi voglia oggi esercitare la professione giornalistica con un minimo di coerenza morale.
La prospettiva del conflitto toccherà soprattutto le decisioni riguardanti la carriera giornalistica e non tanto quelle relative alla singola prestazione professionale. La carriera è il luogo delle opzioni fondamentali del giornalista e le decisioni che la riguardano possono costituire le uniche occasioni in cui si evidenzia la sua eventuale professione cristiana. Il giornalista, consapevole di tale situazione conflittuale, dovrà tenere attivamente aperta la possibilità di cambiare testata per sottrarsi a situazioni che gli risultassero moralmente intollerabili e di fatto immodificabili. Nelle decisioni di carriera dovrà tener presente che maggior potere e più alte retribuzioni comportano quasi sempre una diminuzione di libertà. Una carriera facile può essere pagata con l’asservimento aziendale o politico.

4. La via stretta che ne risulta per il giornalista cosciente della sua responsabilità

La via stretta dei media commerciali può e deve essere percorsa per l’affermazione di grandi valori. Ne indico tre.
– Rispetto dell’uomo. I suoi diritti da promuovere (diritto all’informazione innanzitutto, poi tutti gli altri diritti, fino a quello della privacy). La sua dignità da difendere (il nudo, sia femminile sia maschile, è spesso un attentato alla dignità: almeno ogni volta che non è ‘informazione’). Il suo mistero da rispettare (la sessualità, la colpa, la morte).
– Democrazia. Questione della libertà dei media dal potere, del loro pluralismo, del loro servizio attivo al cittadino: nel controllo dell’operato delle pubbliche autorità, nella difesa delle regole democratiche, nella formazione alla vita democratica.
– Mondialità. Sia in negativo, a superamento di ogni frontiera, sia in positivo, come formazione a una consapevole cittadinanza del mondo.
È facile mostrare la contraddizione in cui vengono a trovarsi gli operatori dei media commerciali ogni volta che si propongono di porre al servizio di questi valori la potenza dei loro media: essi sono potenti in quanto attirano il pubblico e per attirare il pubblico sono tentati – a volte – di contraddire l’uno o l’altro valore che vorrebbero servire.
Prendiamo il campo più delicato: quello del rispetto dell’uomo davanti al mistero dell’amore, della colpa e della morte. Rifiutandosi di pubblicare una foto che viola quel rispetto, un giornale rischia di indebolire la sua presa sul pubblico rispetto a un altro che non si fa questo scrupolo.
La tentazione dei media commerciali si configura – nel concreto del lavoro giornalistico di ogni giorno – come tentazione di cercare il facile clamore con i propri servizi, magari a scapito delle persone coinvolte; di attivare o ingigantire polemiche artificiose, allo scopo di attirare l’attenzione sugli antagonisti; di enfatizzare i temi classici della polemica di parte, in modo da porsi come portavoce di schieramenti; di accentuare gli aspetti erotici o violenti di talune vicende, per reclamizzare il proprio prodotto.
Nel concreto del lavoro di ogni giorno, ma soprattutto nelle decisioni di carriera, i media commerciali sono il luogo di una grande sfida e anche il luogo di una vera prova morale. Ma dove troveranno i giornalisti la forza per combattere la tentazione commerciale cui è esposta la loro professione? Abbozzo una risposta: occorre realizzare un’alleanza feconda tra gli operatori dei media consapevoli di quella tentazione e il pubblico preoccupato delle manipolazioni commerciali dell’informazione. La dinamica selvaggia dell’audience rischia di premiare il giornalismo senza etica, quell’alleanza dovrebbe rendere vincente il giornalismo dotato di responsabilità morale.

5. La via strettissima del giornalista che si applica all’informazione religiosa

Per il giornalista credente, la prova è la stessa del collega non credente, con in più – forse – una particolare sofferenza per chi tratta l’informazione religiosa: che ieri sottostava al pregiudizio laicista (interessa solo la Chiesa che fa politica) e oggi aquello commerciale (interessa solo la notizia di alleggerimento).
I media deformano la realtà della Chiesa. La deformano sia con il registro alto o ideologico (che la coglie come una realtà dominata da grandi divisioni e conflitti di potere, decisa a imporsi anche con la politica ), sia con il registro basso o spettacolare (coglie gli aspetti marginali, confinanti con l’economia, la sessualità, la magia, il folclore).
L’effetto di insieme (i due registri sono spesso compresenti nei media a larga diffusione) è di duplice deformazione dell’immagine della Chiesa: che il primo registro tende a costringere sotto specie politica, il secondo tende a relegare a notizia leggera.
Il secondo registro va guadagnando terreno ed è destinato a divenire egemone, con il procedere – in ogni area mondiale – dell’americanizzazione dei media: cioè con l’affermazione piena della loro natura commerciale, che li porta a privilegiare la notizia con maggiore capacità di risonanza immediata, concorrenziale o spettacolare.
In questo contesto, la comunità cristiana potrebbe migliorare il proprio rapporto con i media percorrendo quattro strade principali: – cercando di maturare una considerazione realistica del mondo dei media commerciali: non vanno demonizzati, ma neanche ci si deve fare illusioni su un loro facile uso a fini di evangelizzazione; resteranno sempre come una sfida per l’uomo religioso;
– abbandonando ogni tentazione di governare il mondo dei media commerciali, ovvero il proprio rapporto con essi, tramite l’offerta di notizie controllate (i media non si governano, ci si può solo affidare alla loro libera confusione, accettandone la legge di funzionamento, che si basa sulla ridondanza e sulla iterazione: la molteplicità dei messaggi corregge – o almeno limita – l’imprecisione del messaggio);
– facendo delle istituzioni ecclesiali, destinate comunque a restare in prima linea sotto l’occhio dei media, una vera "casa di vetro", come si espresse una volta Giovanni Paolo II parlando ai giornalisti (pubblicità dei bilanci, tempestività e integrale pubblicazione di documenti anche delicati);
– trovando il modo di parlare più con i gesti e i fatti che con le parole: il mondo moderno apprezza i testimoni più che i predicatori e i media – vera cifra del moderno – recepiscono un gesto dieci volte meglio di un discorso.

6. La risorsa ecclesiale del linguaggio dei gesti e delle storie di vita

Nel mercato dell’informazione, la notizia forte (cioè suscettibile di un uso concorrenziale) scaccia quella debole. E la notizia religiosa rischia di risultare debolissima ogni volta che si riduce a messaggio verbale o a segnalazione di avvenimenti interni alla comunità religiosa. Essa invece può essere forte quando veicola un gesto o una storia di vita.
In ogni caso il linguaggio della comunicazione ecclesiale (sia quello dei documenti, sia quello che veicola gesti e storie di vita) dovrà essere curato non soltanto ai fini della sua comprensibilità all’interno della comunità, ma anche per quanto riguarda la divulgazione giornalistica. Tale richiesta non dovrebbe essere vista con sospetto. Proporsi di raggiungere una comprensibilità giornalistica, significa avere cura che il linguaggio religioso abbia senso comune.
Quanto ai gesti e ai fatti, essi possono essere più eloquenti dei discorsi, ma perché lo siano giornalisticamente (cioè nell’universo della comunicazione mediata dai grandi strumenti di massa) è necessario che siano accompagnati dalle parole indispensabili alla loro interpretazione. Ciò del resto dovrebbe essere spontaneo per una Chiesa che pone al centro della sua vita le azioni sacramentali, che sono fatte di gesto e parola.
Un esempio facile di ‘gesto’ cristiano ottimamente veicolato dai media è la visita di Giovanni Paolo II ad Ali Agca nel carcere di Rebibbia, il 27 dicembre del 1983: il Papa che entra nella cella del suo attentatore e parla con lui per 21 minuti (presenti un operatore della Rai, il fotografo de L’Osservatore romano e due cine-operatori del Centro Televisivo Vaticano) ebbe venti volte lo spazio che giornali e televisione avevano dedicato un anno prima all’enciclica Dives in misericordia. L’argomento in sostanza era lo stesso, ma il gesto incontrava il genio dei media e veniva veicolato meglio del documento. Esemplare la descrizione verbale con cui il Papa accompagnò quel gesto, limitandosi a dire (nell’incontro con i detenuti, quello stesso giorno, nella sezione femminile del carcere) le parole necessarie alla sua interpretazione: "Oggi, dopo più di due anni, ho potuto incontrare il mio attentatore e ho potuto anche ripetergli il mio perdono".
Altro esempio di felice comunicazione cristiana per gesti e fatti è l’intera avventura di Madre Teresa: una donna che quasi non sapeva parlare e diceva pochissime parole, ma che è riuscita (lo si vide con la partecipazione davvero mondiale ai suoi funerali, avvenuti a Calcutta il 13 settembre del 1997) a farsi capire da tutti – e a essere ottimamente divulgata dai media – attraverso l’apertura di case per malati di Aids, l’invio di suore negli ospedali sovietici per soccorrere i contaminati di Cernobyll, la realizzazione di una mensa per i barboni in Vaticano e altre innumerevoli invenzioni del suo genio di carità.
A rendere più eloquenti i fatti rispetto alle parole non c’è soltanto la pigrizia dei media nell’era della televisione. A ben vedere, alla radice di questo privilegio ecclesiale dei gesti e delle storie di vita c’è il fatto che in origine il messaggio cristiano è notizia e testimonianza. Dalla preferenza istintiva dei media per i fatti può venire uno stimolo significativo alla stessa comunità ecclesiale: non è senza motivo, insomma, questa attesa del mondo – segnalata dai media – che la Chiesa non dimentichi mai di accompagnare la notizia evangelica con la testimonianza che l’accredita. Nell’ambiente ecclesiale internazionale, sia cattolico sia ecumenico, c’è forse, oggi, un eccesso di elaborazione e di divulgazione verbale del messaggio, che qualche volta sembra rispondere più a una esigenza di scuola e di maniera, che alla necessità di accompagnare la comunicazione testimoniale.
I fatti – cioè le testimonianze cristiane fattuali: un gesto che esprime una conversione, una decisione che ricapitola un cammino di riconciliazione, una preghiera pagata con la vita, una morte vissuta nella speranza della risurrezione – costituiscono, devono costituire, la via privilegiata dell’evangelizzazione (o meglio: della pre-evangelizzazione) attraverso i media.
I fatti infine fondano e verificano l’attendibilità delle parole. E questo vale sia per la comunicazione immediata sia per quella mass-mediale. I discorsi possono crescere su se stessi e allontanarsi dalla realtà, divenire incomprensibili. Se invece restano legati ai fatti non corrono questi rischi. Possono interpretare i fatti, dare loro risonanza, aiutare a comunicarli. In una parola: renderli parlanti. Ma prima ci devono essere i fatti. E i fatti ci sono sempre nella Chiesa: è la loro comprensione e comunicazione che è generalmente inferiore alla loro consistenza.

7. Il giornalismo come via per ‘farsi tutto a tutti’ nella narrazione dell’avventura dell’uomo

Termino questa riflessione sul giornalismo come testimonianza, affrontando la questione dell’incidenza che potrebbe avere oggi la vocazione cristiana nel modo di condurre la professione giornalistica. Oggi, cioè, nei media commerciali: dove le condizioni di esercizio della professione sono date e non modificabili per sollecitazione soggettive e dove la qualifica di ‘cristiano’ rischia di essere avvertita, d’istinto, come un intralcio a un uso libero delle potenzialità fornite dai media.
Credo invece che la vocazione cristiana possa fornire – in questa, come in ogni altra professione legata alla comunicazione – un arricchimento decisivo, nel senso della sollecitazione a cogliere la pienezza dell’umano o quel tanto di umano rinvenibile in ogni persona. La vocazione cristiana implica – per il giornalista – la chiamata a ‘farsi prossimo’, almeno momentaneamente, rispetto a ogni uomo o donna di cui debba occuparsi nell’esercizio della professione. In particolare implica un preciso richiamo a rispettare il mistero dell’uomo, che i media commerciali tendono a violare e a negare. Il ‘farsi prossimo’ del giornalista è potenzialmente aperto a tutta l’umanità. Ciò si può dire di ogni cristiano che incontri sulla propria strada un qualsiasi estraneo in situazione di bisogno. Ma vale due volte per il giornalista, perché è proprio della sua professione che venga chiamato a occuparsi di ogni vicenda che gli sia assegnata, senza che vi sia stato alcun incontro personale.
Ma nella stessa modalità di farsi prossimo del giornalista c’è un aspetto potenzialmente più esigente, rispetto a quella che potrebbe proporsi nel normale incontro con il bisognoso. Posso prendermi cura del bisognoso a me estraneo rispondendo alla sua necessità materiale, come avviene appunto nella parabola evangelica da parte del samaritano. Ma nel caso del giornalista non è chiesto e non basta il soccorso materiale: egli dovrebbe trovare il modo di farsi prossimo dell’uomo e della donna di cui racconta la storia avvicinandoglisi sul piano conoscitivo, della comprensione umana e della comunicazione. Deve tendere a mettersi – almeno per un’ora, o un giorno – dal punto di vista del terrorista che intervista, dell’omicida di cui racconta l’esecuzione.
La vocazione cristiana dovrebbe portare il giornalista a farsi ‘tutto a tutti’ (se è lecito parafrasare l’apostolo Paolo: 1 Corinti 9, 20-22) per comunicare l’uomo all’uomo.
La prima implicazione di tale atteggiamento è il superamento, almeno sul piano del metodo, di ogni catalogazione discriminante e di ogni riduzione dell’uomo alle categorie dell’utile, dell’erotico, del deviante, del mostro, del malvivente: tipiche tentazioni dei mass media.
La seconda è la negazione della categoria del nemico: impegnato a cercare l’uomo, il giornalista non dovrebbe mai giudicare per schieramento politico o ideologico o culturale.
La terza è la sospensione del giudizio e l’atteggiamento di attesa, che implica rispetto radicale per il mistero personale, fiducia, comune speranza nel comune destino.
La quarta è la scelta di campo a favore del più debole, specie se colpevole, perché può capitare che proprio il colpevole sia due volte debole quando tutti gli danno addosso.
Il giornalista cristiano dovrebbe sempre cercare l’uomo nel soggetto di cui si occupa, preparandosi ad accoglierlo in qualsiasi forma egli si presenti. A tale scopo cercherà di restare aperto alla novità storica, alla modificabilità dell’umano, alla possibile conversione di ognuno, ai cieli nuovi e alla terra nuova.

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Note

Come citare questa voce
Accattoli Luigi , Giornalismo come testimonianza, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (29/03/2024).
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