Diritto e comunicazione A. Diritto e comunicazione

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1. Diritto, informazione, comunicazione

L’attività di informazione rappresenta un fenomeno unitario, indipendentemente dai mezzi di diffusione, e si riferisce alla caratterizzazione democratica del sistema, in quanto afferente ai profili di partecipazione dei singoli alla organizzazione statale. Da un punto di vista strettamente normativo, la considerazione giuridica del fenomeno informazione, e in particolare la sua tutela quale contenuto di un diritto fondamentale, è riconducibile all’art. 21 della Costituzione, il quale, pur non menzionando il fenomeno informazione, include la libertà di manifestazione del pensiero, con qualsiasi mezzo, fra i diritti individuali di libertà.
Proprio la generalità dei destinatari della tutela ("tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero") e degli strumenti ("con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione") consente di far risalire la garanzia del fenomeno della comunicazione ‘sociale’, ossia dell’informazione nel suo complesso, alla stessa norma. Pertanto, nella disposizione dell’art. 21 sono distinguibili tre piani normativi: il primo reca il riconoscimento della natura di libertà fondamentale al diritto di tutti a manifestare il proprio pensiero e a diffonderlo, senza alcuna distinzione di garanzia costituzionale fra l’espressione del pensiero e la divulgazione attraverso qualsiasi mezzo (si veda al proposito la sentenza C. Cost. n. 48/1964). Il secondo piano normativo, rappresentato dai commi da 2 a 5, è indirizzato sostanzialmente a delimitare gli interventi della pubblica autorità, attribuendo una garanzia rafforzata ai provvedimenti di sequestro della stampa da parte dell’autorità di pubblica sicurezza (che devono essere motivati e confermati entro un breve termine – ventiquattro ore – dall’autorità giudiziaria) e prevedendo la possibilità che il legislatore ponga disposizioni intese a rendere trasparenti le fonti finanziarie della stampa (su cui Antitrust). Il terzo piano normativo, infine, conferma l’inderogabilità, anche nei confronti della libertà di manifestazione del pensiero, del limite generale del buon costume, il quale va inteso in senso di morale sessuale, e dunque come limite alla diffusione di pubblicazioni pornografiche od oscene (Diffamazione; Pornografia).
Tuttavia, l’attività di informazione si manifesta come rapporto, in cui tradizionalmente un soggetto attivo trasmette (un’informazione) e un soggetto passivo è qualificato come recettore della stessa informazione; viceversa, la configurazione che è fornita del fenomeno della comunicazione sociale nella Carta costituzionale italiana, che pone l’accento sulla libertà di espressione ma non menziona in alcun luogo esplicitamente l’informazione, sembra piuttosto direttamente rivolta alla garanzia del diritto di informare, proprio in quanto specificazione della libertà di espressione, riservando riconoscimento apparentemente soltanto indiretto alla protezione della situazione giuridica del destinatario della informazione, ossia al diritto alla informazione (o diritto a essere informati), derivante invece dalla stessa essenza relazionale del fenomeno informativo, che fa dipendere la sua stessa esistenza dal rapporto tra il polo passivo, recettore di quanto diffuso, e il polo attivo autore della diffusione stessa.
Ma lo stesso principio generale, in base al quale i mezzi di comunicazione possono essere utilizzati tanto per esprimere il proprio pensiero, quanto per comunicare e, dunque, informare, è suscettibile di due opposte interpretazioni: quella individualistica e quella funzionalistica. La prima è riconducibile alla nozione, tipica della concezione liberale, della libertà di stampa come libertà da ingiustificate limitazioni o censure, ossia come ambito rispetto al quale il ruolo dello Stato si configura esclusivamente come dovere di astensione; la seconda, invece, configura una libertà per portare a conoscenza della collettività quanto essa è interessata a conoscere, e dunque una libertà funzionalizzata, appunto, alla formazione dell’opinione pubblica. L’adesione all’una o all’altra delle teorie riportate, evidentemente, ha riflessi decisivi sulla configurazione della disciplina giuridica del fenomeno informativo; in particolare, dalla seconda discende un riconoscimento dell’aspettativa dei singoli alla corretta informazione (il diritto a essere informati), nonché la legittimazione a interventi normativi che contemperino il diritto di informare con quella aspettativa.
Peraltro, è ormai convinzione diffusa e accettata nella generalità della dottrina che la ricostruzione normativa della disciplina giuridica della comunicazione sociale non possa esser limitata alla disposizione direttamente regolante l’attività di informazione, esistendo nell’ordinamento giuridico altre norme di riferimento: anzitutto, nello stesso sistema costituzionale il diritto della informazione e il più generale diritto della comunicazione sociale sono riconducibili alle previsioni di tutela di tutte le libertà che si concretano in (ovvero presuppongono o preludono a) una scelta, essendo necessario conoscere per deliberare: dunque, la tutela costituzionale del rapporto di informazione è riconducibile, tra le altre, alle norme che garantiscono il pieno sviluppo della persona umana (artt. 2 e 3, co. 2), al principio di sovranità popolare (art. 1), alla effettività di partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale (art. 3, co. 2), in quanto la informazione dei singoli consente l’esplicazione di quel controllo sociale costituente l’essenza della democrazia. Come ha posto in luce la Corte costituzionale (sent. n. 105 del 1972), nell’ordinamento democratico il ruolo della stampa e dell’informazione è inteso al soddisfacimento di un interesse generale, individuabile nella formazione di una opinione pubblica avvertita e consapevole.
Ma altre norme introducono nell’ordinamento giuridico italiano principi di regolamentazione della informazione. L’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, firmata a New York il 10 dicembre 1948, attribuisce a ogni individuo il diritto alla libertà di opinione e di espressione, che comprende il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e indipendentemente dalle frontiere. L’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 858, sancisce per ogni persona il diritto alla libertà di espressione, che "comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere interferenza di pubbliche autorità e senza riguardo alla nazionalità".

2. Diritto a comunicare

Prima di esaminare nel dettaglio i profili più propriamente ‘sociali’ della disciplina della comunicazione, appare opportuno esaminarne l’aspetto più specificamente individuale, ricordando come essa anzitutto sia connessa con una delle esigenze fondamentali della persona umana, in quanto espressione della personalità: pertanto, essa costituisce il contenuto di un diritto fondamentale dell’uomo, in quanto presupposto di altri diritti propri della vita associata, come già la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 chiariva, affermando che "la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo". (Libertà e comunicazione)

2.1. Definizione del fenomeno comunicativo e suoi riscontri normativi.
Tale configurazione contribuisce, dunque, a definire il fenomeno comunicativo come contenuto di un diritto della personalità; e tuttavia, il fenomeno stesso non si presenta in maniera unitaria, soprattutto in considerazione delle finalità che ne caratterizzano, volta per volta, l’esercizio, e per i destinatari della stessa attività di comunicazione. Più in particolare, il diritto a comunicare può essere considerato sia in sé, nel suo profilo finalistico di relazione tra individui, sia con riguardo al suo contenuto, venendo in tal caso in rilievo l’aspetto strumentale di mezzo di trasmissione di una opinione. In effetti, il diritto a comunicare come categoria generale presuppone, oltre all’atto della comunicazione, anche un oggetto comunicato.
La distinzione è meno teorica di quanto appaia, in quanto la libertà delle comunicazioni si affianca, generalmente, alla libertà di opinione e di espressione: e infatti, la Costituzione italiana distingue fra il diritto alla libertà e alla sicurezza della corrispondenza e delle comunicazioni (art. 15) e il diritto a esprimere liberamente il proprio pensiero (art. 21), nell’un caso ponendo a oggetto della tutela giuridica la comunicazione in sé, ossia il flusso da un individuo a un altro, senza occuparsi del contenuto; nel secondo caso, garantendo nel contempo la libertà di pensiero e la relativa esternazione. In tale diversificazione risiede la duplicità della disciplina giuridica del fenomeno comunicativo: nella prima ipotesi, si tutela una comunicazione interindividuale (point to point); la seconda fattispecie definisce tipicamente la comunicazione sociale, in quanto caratterizzata generalmente dalla indistinzione o dalla molteplicità dei destinatari della comunicazione (point to multipoint).
Le due situazioni sono normalmente ricondotte a unità, proprio perché costituenti aspetti diversi di un medesimo fenomeno: come si è visto, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo di New York del 1948 stabilisce infatti (art. 19) il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo; la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma, 1950), all’art. 10, nel sancire il diritto alla libertà di espressione, riconduce a tale situazione giuridica "la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee".
La discriminante fra le due ipotesi di tutela, tuttavia, è chiara: mentre nell’ipotesi della comunicazione interindividuale, in quanto afferente a una sfera assolutamente individuale e privata, scopo della tutela è un intervento in senso negativo, mirato cioè a vietare e reprimere interferenze indebite o illecite che producano turbativa, nel caso della comunicazione sociale si richiede un intervento positivo, inteso a incentivarne l’esercizio in quanto finalizzato alla formazione della pubblica opinione come elemento fondante della vita associata ed espressione tipica della democrazia politica.
Infatti, oltre a richiedere di per sé interventi di conciliazione con altre situazioni giuridiche qualificabili come diritto di libertà, la comunicazione sociale pone una serie di questioni: in tema di disciplina dei mezzi con cui viene esercitata, di disponibilità degli stessi e dunque in termini organizzativi per quanto concerne l’accesso; con riguardo alla forma, alla sostanza e al contenuto espressivo; con riferimento a situazioni di dovere di comunicazione e, simmetricamente, di dovere di astensione dalla comunicazione, di interesse del soggetto attivo del rapporto di comunicazione (il comunicatore), del soggetto passivo (il recettore) e di valutazione dei diritti dei soggetti costituenti oggetto della comunicazione.
Si potrebbe, dunque, affermare che il diritto a comunicare, come situazione costituzionalmente sancita anche a livello di ordinamento internazionale e sovranazionale (Rapporto MacBride), costituisca la categoria generale entro cui ricondurre ogni aspetto della attività relazionale di trasmissione di informazioni, idee, opinioni; e che, dunque, nel suo universale riconoscimento confluiscano tanto il diritto alla libera comunicazione interindividuale, quanto il diritto di informare (o di informazione) e il diritto a essere informati (o alla informazione) come aspetti simmetrici del diritto della comunicazione sociale.

2.2. Comunicazione interindividuale, comunicazione sociale: una distinzione in via di esaurimento.
A proposito della distinzione fra comunicazione point to point e point to multipoint, che il Costituente ha tenuto ferma anche per sottolineare la funzione sociale della comunicazione informativa rispetto alla valenza strettamente privatistica di quella individuale, occorre però dar conto di come essa, di fronte al nuovo contesto tecnologico multimediale, si stia stemperando. All’epoca della Costituzione, infatti, la comunicazione individuale era esclusivamente corrispondenza, telegrafo, telefono, mentre la comunicazione sociale era dominata dalla stampa e dalla radio, essendo ancora in fase di sperimentazione la diffusione televisiva: il rapporto di comunicazione sociale era, indubbiamente, caratterizzato dalla unilateralità del messaggio (point) e dalla indistinzione dei destinatari (multipoint).
Le nuove frontiere tecnologiche, invece, puntano sempre più a integrare le tecnologie delle telecomunicazioni con i media tipici della comunicazione sociale: la tendenza è a individualizzare il rapporto di comunicazione, finalizzandolo a una interattività che consenta a quello che fino a poco tempo fa era considerato il polo passivo del rapporto di informazione di svolgere un ruolo attivo. La configurazione del medium radiotelevisivo futuro, transitato dall’etere al cavo e integrante funzioni informative con attività di comunicazione individuale, attraverso il passaggio intermedio della pay-per-view television e del video on demand (l’utente può costruire il palinsesto secondo le sue esigenze) sembra destinata sempre più a individualizzare il rapporto di comunicazione elettronica.
Ma a questo proposito, è lecito rimarcare come tale individualizzazione svolga effetti positivi solo se e nella misura in cui al fruitore della informazione sia attribuito un ruolo realmente attivo e consapevole, e la tanto decantata interattività comprenda l’effettiva possibilità di scelta e determinazione dei contenuti della comunicazione; ché, in caso contrario, si avrebbe soltanto una nuova, surrettizia limitazione del diritto a comunicare universalmente riconosciuto.

3. Diritto di informare

Passando, invece, ai profili più prettamente ‘sociali’ del fenomeno comunicativo, in cui si distingue un polo ‘emittente’ (attivo) e un polo ‘ricevente’, si rileva che la posizione del soggetto attivo del rapporto di informazione non solleva problemi di definizione: egli, infatti, è – come si accennava – titolare di un diritto soggettivo tutelato dalla Costituzione, il cui esercizio è, ovviamente, sottoposto ad alcune limitazioni in funzione di interessi superiori.
Più specificamente, l’art. 21 della Costituzione, che costituisce la disposizione di base del diritto delle comunicazioni sociali, riconosce il diritto di informazione come specificazione del diritto alla libera espressione finalizzata alla comunicazione e alla formazione di una pubblica opinione; ma la Corte costituzionale, riconoscendo la utilità sociale dell’informazione, al contempo inserisce tale diritto nell’intero contesto costituzionale, individuandone i limiti in altri valori costituzionali essenziali.
In alcuni casi, il contemperamento comporta la compressione di entrambi i diritti; in altri casi, denuncia prevalenza il diritto di informazione; in altri casi ancora, invece, è quest’ultimo che deve cedere. Nello specifico, il diritto di informazione può essere limitato da disposizioni di legge a tutela del buon costume, della morale, dell’ordine pubblico; da interventi intesi a tutelare l’onore e la riservatezza degli individui; dalla protezione di ambiti di attività statale che, per la loro particolare delicatezza, sono assistiti dal segreto (d’ufficio o di Stato).
Ma la libertà di informazione è considerata, più che un semplice diritto, un ‘diritto-dovere’ in quanto presuppone un duplice oggetto: da un lato il diritto soggettivo alla manifestazione del proprio pensiero o alla comunicazione di determinati fatti; dall’altro, un dovere verso la collettività alla esatta informazione su fatti rilevanti. In sostanza, è necessario che il diritto di informazione sancito in Costituzione, perché sia effettivo, sia disciplinato da un diritto della informazione, ossia da un complesso organico di norme che ne forniscano una configurazione elastica, in considerazione della elevata variabilità del contesto dei media.
La visione funzionalistica della libertà di informazione, configurata come diritto-dovere di informare, trova peraltro una conferma nella legge n. 69/1963, istitutiva dell’Ordine dei giornalisti, e in particolare all’art. 2, rubricato significativamente Diritti e doveri. In base a tale norma, si può affermare che la funzione del giornalista – ma può ritenersi applicabile, più in generale, all’operatore delle comunicazioni sociali – è sostanzialmente quella di fornire un’informazione il più possibile obiettiva, ossia imparziale e completa, e rispettosa della personalità altrui, come del resto viene confermato dalla giurisprudenza sia dell’Ordine nazionale sia degli Ordini regionali dei giornalisti (Obiettività dell’informazione).
I limiti che si oppongono al diritto di informare, pertanto, non sono soltanto quelli più sopra richiamati, attinenti a interessi di rilevanza pubblicistica, ma anche quelli, specificamente privatistici, afferenti alla tutela della personalità dei singoli individui. Vengono, dunque, in rilievo in primo luogo il diritto al nome (artt. 22 Cost. e 6 ss. cod. civ.) e il diritto alla immagine (artt. 10 cod. civ. e 96 ss. l.d.A.), il quale ultimo assume rilievo del tutto particolare nell’epoca attuale, in cui la comunicazione elettronica ha attribuito significativa valenza alle immagini, in considerazione della loro potenzialità evocativa e suggestiva. Il diritto alla riservatezza, o privacy, afferisce a un generale rispetto della vita privata come ambito assolutamente non caratterizzato da un interesse pubblico, mentre il diritto alla identità personale, di derivazione giurisprudenziale, è configurabile come diritto del singolo a essere rappresentato in una maniera che sia rispettosa della propria identità politica, culturale e sociale. Ancora, il diritto all’onore e alla reputazione si concreta nel divieto, penalmente sanzionato, di diffamare per il tramite dei media; mentre si annoverano tra i diritti della personalità costituenti limiti al diritto di informazione il diritto a veder rispettata la propria eguaglianza, sancita dall’art. 3 Cost., il diritto alla presunzione di innocenza, di cui all’art. 27 Cost., e infine il diritto dei minori, ricavabile dal complesso normativo posto a loro tutela.
Con specifico riferimento al richiamato diritto alla privacy, una recente legge, la n. 675 del 31 dicembre 1996, costituente attuazione della Direttiva dell’Unione Europea n. 95/46, nel porre norme a tutela della riservatezza dei singoli individui a fronte del trattamento, della elaborazione e della diffusione di informazioni contenute in banche dati informatiche, ha esplicitato entro quali termini tale diritto si ponga come limite al diritto di informazione. Infatti, nel concetto di trattamento di dati personali vengono ricomprese anche la comunicazione e la diffusione, il che comporta una conciliazione dell’interesse individuale alla riservatezza con l’interesse collettivo alla informazione.
Dato che la stessa normativa europea prevede la facoltà di deroga dei principi generali, che privilegiano il diritto individuale, nelle ipotesi di comunicazione e diffusione dei dati a scopi giornalistici, il legislatore nazionale – posta la regola che i dati tratti da archivi automatizzati debbano essere trattati con il consenso dell’interessato e la relativa utilizzazione sia notificata a un’autorità appositamente istituita (il Garante per la protezione dei dati personali) – prevede per il trattamento giornalistico di tali dati un regime particolare, quando sussista il requisito della essenzialità dell’informazione su fatti di interesse pubblico.
In sostanza, il diritto alla riservatezza può essere invocato sempre e comunque, e in tale ipotesi il diritto di informazione è subordinato all’esplicito consenso del soggetto interessato soltanto con riguardo alle informazioni concernenti lo stato di salute e la vita sessuale dello stesso; negli altri casi – che la legge individua nei cosiddetti dati sensibili: informazioni relative a origine razziale o etnica; opinioni religiose e politiche; adesione a partiti, sindacati, organizzazioni; dati relativi a procedimenti penali in corso – le informazioni tratte da archivi automatizzati possono essere assoggettate a trattamento per fini di informazione giornalistica senza tale consenso, purché siano rispettate le norme deontologiche contenute in un apposito codice, che la legge prevede sia elaborato dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti su iniziativa ‘promozionale’ del Garante.

4. Diritto di cronaca

Una specifica articolazione del diritto di informazione, e in particolare la concreta regolamentazione della espressione tipica dell’attività di informazione, vale a dire la cronaca, è costituita dal diritto, appunto, di cronaca. In termini pratici, tale regolamentazione si concreta nella determinazione dei confini propri del diritto di informazione nell’esercizio della cronaca, adeguandosi al principio generale, ribadito costantemente dalla Corte costituzionale, secondo cui la nozione di limite è immanente nel concetto di diritto.
La Costituzione indica esplicitamente un solo limite alla libertà di espressione, rappresentato dal buon costume e costituito dai principi – penalmente garantiti attraverso la repressione dell’osceno (art. 528 c.p.) – di protezione della morale sessuale. Più specificamente, nella norma costituzionale viene salvaguardato il "comune sentimento del pudore", considerato valore equivalente, anche per il fatto di appartenere alla generalità dei cittadini (comune), alla libertà di informazione, il che ne preclude l’offesa pubblica.
Altri limiti espliciti sono desumibili dalle fonti internazionali, direttamente vigenti nell’ordinamento italiano; in particolare, il più volte citato art. 10 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevede una serie ulteriore di potenziali limiti al diritto di informazione, connessi con i doveri e le responsabilità afferenti all’esercizio della libertà di espressione attraverso i mezzi di comunicazione sociale, a stampa ed elettronici: tali limiti si ricollegano alle esigenze, valutate dai legislatori nazionali, di sicurezza nazionale e pubblica, integrità territoriale, difesa dell’ordine e prevenzione dei delitti; di tutela della salute e della morale, nonché della reputazione e dei diritti altrui, e di garanzia dell’autorità e della imparzialità del potere giudiziario.
Sussistono, poi, dei limiti impliciti, individuati come tali dalla attività interpretativa della Corte costituzionale. In linea generale, tali limiti sono riconducibili alla pari tutela di valori consimili, ossia di valori costituzionali: e, in primo luogo, viene in rilievo il rispetto del principio di eguaglianza, su cui la Costituzione italiana è basata, e il riconoscimento della pari dignità sociale di tutti i soggetti e della personalità individuale. Specificazioni di tali principi generali sono costituite dai limiti afferenti al diritto alla onorabilità, il diritto di autore nei suoi risvolti ‘morali’ (B. La disciplina del diritto d’autore), il diritto alla riservatezza (il quale, si è visto più sopra, è stato esplicitato dal legislatore come limite alla attività di informazione: l. 675/1996). Sul piano pubblicistico, poi, limiti all’esercizio del diritto di informazione derivano da tutte le disposizioni penali poste a tutela dell’ordine pubblico, dell’amministrazione della giustizia, del prestigio degli organi costituzionali, degli appartenenti all’ordine giudiziario e delle forze armate (si tratta, in tali specifiche ipotesi, di tutti gli ambiti in cui il diritto di informazione non deve sconfinare nella fattispecie del reato di vilipendio).
Ma il diritto di cronaca, proprio in quanto articolazione di un diritto costituzionalmente garantito, nonché concreta esplicitazione dei confini del diritto di informazione, comporta che altri interessi, pur godendo di tutela costituzionale, possano regredire di fronte a esso, se esercitato nel rispetto di una serie di principi, in alcune ipotesi codificati, in altri casi di elaborazione giurisprudenziale.
Se dunque il referente normativo principale del diritto di cronaca risulta essere l’art. 21 della Costituzione, con il riconoscimento della libertà di espressione, essenziale alla determinazione del contenuto di tale diritto è l’art. 2 della legge istitutiva dell’ordinamento professionale dei giornalisti (l. 3 febbraio 1963, n. 69), rubricato, come si è visto, diritti e doveri: vi è enunciato, infatti, il riconoscimento della natura insopprimibile del diritto di informazione e di critica propria degli operatori della comunicazione sociale; e nel contempo, vi sono indicati i relativi limiti: l’osservanza delle norme di legge poste a tutela della personalità altrui; l’obbligo di riferire la verità sostanziale dei fatti, di rettificare le notizie inesatte e riparare gli eventuali errori, osservare il segreto professionale sulle fonti fiduciarie delle notizie, tenere un comportamento leale. Nel rispetto di tali principi, dunque, e di ulteriori condizioni specificate in via di interpretazione, pur se le notizie e le critiche abbiano contenuto obiettivamente diffamatorio o lesivo dell’onore o della riservatezza delle persone che ne sono oggetto, si ha una prevalenza del diritto di cronaca e di critica rispetto ai diritti dei singoli individui. Le ulteriori condizioni sono rappresentate dalla verità della notizia, dall’obiettività espositiva, dall’esistenza di un interesse pubblico alla sua diffusione e dal rispetto dei limiti entro cui sussiste tale pubblico interesse.
Tali indicazioni sono state esplicitate dalla giurisprudenza, e in particolare dalla Corte di Cassazione in due sentenze del 1984, di cui una fu significativamente definita decalogo del giornalista.
In base a tale decalogo (sent. Cass. n. 5259 del 17 aprile 1984), la libertà di diffondere attraverso i mezzi di comunicazione sociale è tutelata quando ricorrano le condizioni della utilità sociale dell’informazione, della verità anche putativa dei fatti esposti e della forma civile dell’esposizione e della loro valutazione.
Anzitutto, la verità deve essere oggettiva, o anche soltanto putativa: il che equivale a dire che le circostanze riferite devono essere seriamente accertate, ovvero – nel caso di discordanza fra l’evento e la relativa notizia – l’operatore della comunicazione sociale deve dimostrare di aver ritenuto veridico, oltre ogni ragionevole dubbio, quanto riferito, a causa di una percezione difettosa ed erronea della realtà. In tale ultima ipotesi, l’esercizio del diritto di cronaca è invocabile soltanto ove sia dimostrato l’uso legittimo delle fonti informative. Viceversa, la verità non è tale, secondo la Cassazione, se è "mezza verità".
Con una sentenza di poco successiva (n. 14 del 30 giugno 1984), la stessa Corte ha ribadito che dal rispetto della verità oggettiva dipende la stessa sussistenza del diritto di cronaca, il quale, peraltro, rende leciti comportamenti che altrimenti integrerebbero fattispecie di reato, in particolare di diffamazione a mezzo stampa. In tale decisione, viene specificato che il rispetto della verità oggettiva comporta una particolare diligenza nella scelta e nella valutazione delle fonti informative e della loro attendibilità, nonché nel controllo da esercitare sulle notizie (Obiettività dell’informazione).
Per quanto riguarda il secondo requisito, quello dell’utilità sociale o del pubblico interesse della notizia, esso rappresenta un requisito essenziale perché la tutela dei diritti individuali della persona (onore, reputazione, ma anche immagine e riservatezza) cedano e la libertà di espressione prevalga in relazione alla preminente rilevanza giuridico-sociale a essa attribuita dall’ordinamento: in sostanza, la cronaca assume i connotati del contenuto di un diritto quando soddisfi l’interesse della collettività a una conoscenza obiettiva, imparziale e completa dei fatti.
Infine, quanto alla forma dell’esposizione, essa deve essere improntata a criteri di "civiltà e continenza", che vengono violati ogni qualvolta la stessa esposizione ecceda lo scopo informativo da conseguire, manchi di serenità e obiettività, sia lesiva del minimo irrinunciabile di dignità personale e difetti di leale chiarezza. Il ‘decalogo’, in particolare, esplicita le ipotesi di "sleale difetto di chiarezza": il "sottinteso indiretto", con uso subdolo delle virgolette nel caso della stampa; l’accostamento suggestionante; il "tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato (specie nei titoli) o comunque l’artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre"; le "insinuazioni".
Tale decalogo, pur avendo suscitato critiche per il dettaglio delle prescrizioni in ambiti in cui dovrebbe prevalere una impostazione più deontologica che giuridica, giova comunque a ribadire come la particolare priorità accordata al diritto di cronaca debba essere ricondotta non a un privilegio della categoria professionale degli operatori dell’informazione, ma alle esigenze della pubblica opinione, che deve essere posta in grado di trarre dall’attività di informazione gli elementi di valutazione di ogni circostanza rilevante sotto il profilo collettivo. (Deontologia della comunicazione. B. Deontologia dell’informazione)

5. Diritto di critica

I limiti posti al diritto di cronaca si estendono, e secondo alcune opinioni in maniera ancora più incisiva, al diritto di critica, come facoltà di esprimere valutazioni su fatti e persone, tipica specificazione della libertà di espressione di cui all’art. 21 della Costituzione. La critica, in effetti, proprio in quanto articolazione di una facoltà valutativa e rielaborativa meno vincolata all’incisivo canone della verità, denuncia maggiore potenzialità di infrazione alle norme penali: limitata dall’esigenza sociale e giuridica di evitare la lesione dei diritti altrui, per interpretazione giurisprudenziale consolidata essa cessa di essere diritto pubblico soggettivo, afferente alla libertà di pensiero, e diventa un fatto punibile quando si manifesti con modalità tali da violare norme penali.
Dovendo la critica assumere la forma di un dissenso motivato, espresso in termini corretti, obiettivi e misurati e senza toni gravemente lesivi dell’altrui dignità morale e professionale, non è invocabile il relativo diritto quando l’espressione assuma forma di attacco personale, privo di finalità di pubblico interesse e diretto a colpire la sfera morale del soggetto interessato.
Anche nel caso del diritto di critica, dunque, risulta imprescindibile la sussistenza di un interesse pubblico, ossia l’assolvimento da parte dell’autore di una funzione informativa sulle più importanti circostanze della vita individuale e sociale: in tal caso, quando il linguaggio risulti corretto e rispettoso della vita privata della persona, la critica non può esser considerata lesiva dell’onore, della reputazione e della dignità, "non vulnerati quando le espressioni adoperate investono la scelta politica" del titolare (Cass. sent. n. 5071/1987).

6. Diritto alla informazione

Come più sopra rilevato, l’informazione, nella configurazione di rapporto tra chi trasmette e chi recepisce, viene in considerazione giuridicamente rilevante sia con riferimento al diritto di informare, proprio del soggetto ‘trasmittente’, sia anche con riguardo al cosiddetto polo passivo, ossia il recettore della informazione stessa. Una parte della dottrina, tuttavia, ha sottolineato al proposito la impossibilità di attribuire la qualificazione di diritto soggettivo alla aspettativa alla informazione propria dei destinatari, in quanto l’art. 21 Cost. predispone una tutela della libertà di stampa quale specie della categoria generale della "manifestazione del pensiero", mentre non fa riferimento al diritto alla informazione come situazione, giuridicamente tutelata, consistente nella ricerca e nella acquisizione di notizie.
Inoltre, viene fatto rilevare come la norma italiana si differenzi dalla corrispondente norma della Costituzione tedesca (art. 5), in cui è esplicitamente sancito il diritto di trarre informazioni da "fonti accessibili a tutti".
Tuttavia, va ribadito che nell’ordinamento giuridico italiano è direttamente vigente la disposizione di cui all’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che ricomprende nel diritto individuale alla libera espressione anche il diritto di cercare e ricevere informazioni; e ancor più specificamente, in quanto la fonte internazionale è stata ratificata dalla legge ordinaria interna, l’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il quale, pur se non riconosce direttamente il diritto di cercare informazioni, esplicitamente sancisce la protezione, accanto alla libertà di opinione e di comunicazione delle informazioni, anche di quella di ricezione delle stesse.
A ulteriore conferma del riconoscimento del diritto dei singoli alla informazione, si è poi rilevato come l’intero impianto normativo costituzionale consenta di affermare l’esistenza di un simile diritto, argomentando dalla garanzia di tutte quelle libertà che si concretano o si esplicitano sulla base dell’esercizio di una scelta di consapevolezza: il riconoscimento dei diritti dei cittadini alla partecipazione sociale e politica e la garanzia dello sviluppo della propria personalità – situazioni che, per poter essere effettive, richiedono e presuppongono conoscenza – consentono di affermare l’esistenza di una tutela e di una incentivazione degli strumenti che permettano al cittadino e all’operatore di comunicazione di entrare in relazione, informare e informarsi, poiché sussiste un interesse generale alla informazione, che esige, in quanto corollario della forma democratica, "pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legati alla circolazione delle notizie e delle idee" (C. Cost., sent. n. 105/1972).
Il diritto alla informazione, nella sua forma più completa, può essere funzionale alla democrazia solo quando viene riconosciuto come diritto soggettivo perfetto, in attuazione, del resto, del precetto contenuto all’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Tuttavia, l’assenza di un riconoscimento esplicito nella Carta costituzionale, a differenza di quanto avviene in altre Costituzioni (si veda, per tutte, la già citata Costituzione di Bonn), del diritto del singolo individuo di essere tenuto aggiornato e a conoscenza degli eventi della realtà circostante ha decisamente condizionato il processo evolutivo che ha condotto ad attribuire rilevanza giuridica alla pretesa dei singoli individui di ottenere da soggetti sia pubblici, sia privati, le informazioni rese necessarie dalla vita di relazione nei suoi risvolti sociali, politici ed economici, in attuazione di principi costituzionali di socialità e di partecipazione.
Il percorso della giurisprudenza costituzionale, tuttavia, mostra come in effetti sussista un diritto degli utenti dei mezzi di informazione alla informazione corretta e pluralistica. In base a tale evoluzione, i tratti caratterizzanti il cosiddetto diritto alla informazione prescinderebbero dalla specifica configurazione dei singoli mezzi di comunicazione, rapportandosi piuttosto ai valori costitutivi dell’ordinamento democratico.
Con riguardo specifico ai media audiovisivi, poi, il destino del diritto alla informazione risulta nella giurisprudenza costituzionale intimamente connesso al pluralismo informativo, rendendosi necessaria la garanzia che quest’ultimo non sia sottoposto a una compressione in conseguenza del sorgere di posizioni dominanti nel mercato della informazione ovvero a seguito della costituzione di rapporti di collegamento o controllo tra imprese titolari di emittenti o di media, da cui derivino situazioni di oligopolio informativo (Antitrust; Concentrazione).
Più in generale, però, il diritto alla informazione, pur se riconducibile – in quanto reciproco del diritto di informazione – all’art. 21 della Costituzione, come norma di tutela della libera espressione, risulta piuttosto un valore costituzionale, afferente alla stessa forma democratica, in quanto basata su una libera opinione pubblica e sulla partecipazione di ogni singolo cittadino alla formazione della volontà generale.
È evidente che il riconoscimento del diritto alla informazione comporta l’adesione alla concezione cosiddetta funzionalistica del diritto di informazione, come situazione giuridica sì tutelata costituzionalmente, ma nella sua finalizzazione (ossia, in quanto funzionalizzata) alla formazione e alla crescita di una pubblica opinione.
Del resto, che possa individuarsi la garanzia di un diritto del singolo a essere informato, pur in assenza di un esplicito riferimento costituzionale, è affermazione suffragata da una serie di testi di legge ordinaria che tale diritto necessariamente presuppongono: a titolo meramente esemplificativo, è possibile citare quelle disposizioni che impongono a pubbliche amministrazioni di destinare una quota dei propri stanziamenti pubblicitari per "pubblicità di pubblica utilità", ovvero finalizzata a informare i cittadini sull’attività, le strutture, l’organizzazione amministrativa (si vedano le leggi sull’editoria, n. 416 del 1981 e n. 67 del 1987, nonché le varie normative in materia di emittenza); più nello specifico, occorre ricordare la legge sulla trasparenza dei procedimenti amministrativi (n. 241 del 1990), tutta incentrata sul principio del riconoscimento dei diritti di accesso ai procedimenti e alla informazione e partecipazione degli interessati.
Tornando alla generale attività di comunicazione sociale, peraltro, il diritto alla informazione si configura in misura pressoché esclusiva come diritto alla informazione corretta e obiettiva, e dunque si riconduce da un lato alla configurazione dei diritti e dei doveri dei giornalisti, e, mutatis mutandis, degli operatori della comunicazione sociale; e, d’altro lato, alla regolamentazione del ‘mercato’ della informazione, con il suo strumentario di regole tese alla conciliazione degli interessi economici del settore con le peculiarità del ‘bene-informazione’, prima fra tutte il suo essere prodotto finale non di un procedimento aziendale, regolato esclusivamente da principi economico-commerciali, ma dalla esplicazione di un diritto-dovere costituzionalmente regolato, a fronte del quale la libertà di iniziativa economica, secondo la più accreditata dottrina confortata dalla giurisprudenza costituzionale, regredisce. (Rapporto MacBride)

G. Votano

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Come citare questa voce
Votano Giulio , Diritto e comunicazione - A. Diritto e comunicazione, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (23/11/2024).
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