Fumetto
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Autore: Guido Michelone
Il f. è un genere di comunicazione periodico-giornalistica o a mezzo stampa (libri, albi, riviste) che nasce in America alla fine dell’Ottocento in stretta correlazione sia con la cosiddetta letteratura popolare sia, soprattutto, con l’avvento di una vera e propria editoria di massa, a sua volta in collegamento a quotidiani e magazine a larga tiratura.
Tuttavia il f. rappresenta sul piano comunicativo un’innovazione nei confronti della tradizione europea: la ragione sta nella sua natura ‘mediologica’. Il f. esprime i mutamenti epocali della civiltà urbanizzata, mentre la ciclità temporale della vita agricola è sostituita dai ritmi fortemente codificati dell’espansione capitalistica: non è un caso infatti che gli storici indichino una data comune (1895-96) per le grandi invenzioni mediologiche, dal cinematografo alla radiofonia, e per il primo esempio di f. a mezzo stampa o giornalistico, il monello Yellow Kid pubblicato a colori su The New York Word di Joseph Pulitzer nel gennaio 1896. Il f., tuttavia, non si rivolge al pubblico indifferenziato dell’ascolto radiofonico o dello spettacolo cinematografico, ma a utenze più mirate, guardando in particolare a due target specifici: da un lato il pubblico infantile ormai legato alla scolarizzazione elementare obbligatoria; dall’altro quello adulto, operaio e piccolo-borghese, anch’esso più istruito d’una volta grazie, soprattutto, alle campagne di alfabetizzazione nelle grandi aree metropolitane.
Ma il f., dalle origini sino a oggi, giocherà sempre molto sull’ambiguità della sua proposta comunicativa, nel senso che crea un codice estremamente duttile in grado di coinvolgere lettori di età diverse e di formazione culturale altrettanto eterogenea: lo stesso f., insomma, capace di far divertire vecchi, giovani e uomini maturi, in cui la lettura delle parole non è così fondamentale rispetto al segno o allo stile delle immagini in sequenza.
Dagli anni Venti si afferma definitivamente la nuvoletta o, appunto, fumetto (in inglese balloon), ossia lo spazio bianco che, all’interno di ogni riquadro, imita il soffio labiale con cui ogni personaggio emette i suoni del parlato, mentre alcune didascalie entro i bordi hanno invece l’effetto della voce fuori campo o del narratore in terza persona. Persino il livello dei rumori viene futuristicamente visualizzato con nuove onomatopee, scritte col raddoppiamento di vocali o consonanti per rendere più incisive o realistiche le sonorità richiamate (gulpp!, sobb!, vrooom!, ecc.).
I formati standard tendono infine a essere aboliti o modificati nel secondo dopoguerra: non più riquadri regolari, ma vignette a grandezze variabili che non seguono nemmeno il tradizionale ordine di lettura da sinistra a destra, dall’alto in basso, ma cubisticamente si incastrano l’una nell’altra con effetti sorprendenti che talora ricordano la suddivisione di campi e piani del linguaggio cinematografico o l’avanguardia dell’arte contemporanea. In realtà sono molti i debiti stilistici (e linguistici) che il f. ha contratto nel corso degli anni, in particolare con i film e con la fotografia: tra i codici visivi quelli cosiddetti della fotograficità (scala di campi e piani, gradi d’angolazione e inclinazione, forme di illuminazione, bianco e nero o colore) sono praticamente identici; in fondo anche i codici sintattici o del montaggio del cinema vengono ripresi dal f., nonostante l’assenza del movimento in tempo reale: infatti le associazioni per identità, analogia/contrasto, prossimità, transitività, accostamento identificano, in entrambi i casi, un procedimento similare nello scandire la storia (o diegesi narrativa), nell’organizzazione e nell’economia del racconto medesimo ( fabula e intreccio nel f. e nel cinema si animano col montaggio).
Non è un caso, infine, che questo connubio fra la grammatica cinematografica e quella del f. abbia sviluppato di recente una sorta di feedback: se una volta erano i f. a guardare alla regia filmica, sono adesso i vecchi e nuovi linguaggi audiovisivi a utilizzare le tecniche dei primi, soprattutto nell’ideare o visualizzare la sceneggiatura: il cosiddetto story-board, frequentissimo nella preparazione di spot e di cortometraggi, ma impiegato anche per i kolossal, è in fondo una via di mezzo tra bozzetto e canovaccio, con una forma e un’estetica che citano direttamente la sintassi fumettistica, con un disegno appena schizzato che, procedendo per vignette allineate, concretizza assai meglio della parola scritta ciò che il regista intende girare.
Una storia completa del f. internazionale è praticamente impossibile, ma si possono individuare alcuni punti fermi della sua incessante evoluzione: l’industria culturale statunitense fin dal primo Novecento ha di fatto inventato da un lato le strisce sui quotidiani, giocando dapprima sulla cadenza a puntate giornaliere e, in seguito, su formule più sintetiche, fino ad arrivare alla singola vignetta per lo più satirica (adottata di recente anche da alcune testate italiane); e dall’altro lato ha creato gli albi per bambini e per ragazzi, a sostituire o affiancare il libro di favole più tradizionale e a svilupparsi parallelamente con sempre più complesse operazioni di merchandising. In tal senso i riferimenti storico-teorici sono da una parte il feuilletton e il volume illustrato, che costituiscono, nella cultura infantile e adolescenziale, il passaggio oralità-scrittura-f. in chiave modernista; e dall’altro il cinema d’animazione, o a disegni animati, che è il suo diretto pendant, grazie alla capacità simbiotica di far vivere su grande schermo le avventure dei cosiddetti eroi di carta (e viceversa). Non è un caso infatti che in tal senso l’ultima grande rivoluzione del linguaggio fumettistico sia coeva e, al contempo, intrinseca all’exploit della neotelevisione: i manga (i fumetti giapponesi), spartani libroni con poche immagini per ciascuna pagina, sono il corrispettivo della staticità degli anìme (i nippocartoons) per il piccolo schermo.
In Italia si possono comunque individuare alcuni momenti-chiave per l’affermazione di una cultura mediologica legata all’universo fumettistico.
Nel 1908 come supplemento al Corriere della Sera nasce il Corriere dei Piccoli o Corrierino dal tratto liberty un po’ manierato e incline ai gusti sofisticati della borghesia medio-alta, verso cui resterà quasi sempre associato, pur accentuando i toni surreali e fiabeschi.
La risposta popolare arriva nel 1923 a meno di un anno dalla marcia su Roma con Il balilla che fin dal titolo si pone come apertamente ideologizzato e propagandistico. Il f. di regime tuttavia, nelle preferenze di un pubblico che va dalle materne ai licei, viene superato negli anni Trenta dal massiccio ingresso dei comics americani: il settimanale Topolino, italianizzandone autarchicamente tutti i nomi, accoglie i celeberrimi protagonisti di Walt Disney, mentre L’avventuroso opta per i generi d’azione e di spionaggio (presto imitato da Intrepido e Monello). Nel dopoguerra, a parte qualche rarissimo tentativo neorealista (la rivista Il Politecnico pubblica Barnaby di Johnson considerandolo opera d’arte), in Italia viene creata una sorta di f. per adulti, dove ai disegni si sostituiscono le fotografie: è il fotoromanzo (Grand Hotel e Bolero Film) in auge fino all’avvento di telenovela e soap opera neotelevisive.
Negli anni Sessanta, il boom economico amplifica i consumi anche in questo settore: le edicole si riempiono di novità a livello di generi, testate, personaggi. Tra giovani e adulti meno culturalizzati prevalgono le serie condite di mistero e horror (nei decenni successivi rimpiazzate dalla pornografia sia comica sia macabra), mentre fra le Elites intellettuali un mensile come Linus rispecchia lo spirito del tempo un po’ contestatario e un po’ radical chic. Il merito di Linus non è solo di lanciare giovani autori nostrani o introdurre le strisce ‘impegnate’ di altri Paesi, ma anche di favorire un dibattito su valori e cultura del f., che trova in Umberto Eco il primo grande sostenitore.
Il Sessantotto spinge il f. a ribellarsi all’editoria tradizionale, passando a realizzazioni semiartigianali o autogestite col ricorso a mezzi e supporti alternativi (volantino, murale, tazebao). D’altro canto, dopo le alterne fortune in epoca giolittiana (L’asino) e postbellica (Candido), si afferma stabilmente una satira estremista che nella sintesi delle vignette fotografa, assai meglio di tanti commenti giornalistici, la realtà del Paese: gli anni Settanta-Ottanta giungono così a produrre testate di effimera durata, ma di successi accorati e di feroci polemiche (Il male, Frigidaire, Cuore). Ormai negli anni Novanta anche la stampa quotidiana e settimanale, dopo parecchie ritrosie, accetta, spesso in prima pagina, la sferzante ironia di una generazione di vignettisti (Forattini, Altan, Vincino, Elle Kappa, Giannelli, Staino, Chiappori) ben consapevoli delle potenzialità informative del linguaggio fumettistico.
Sia pure in maniera discreta, quasi sommessa, il f. dunque è entrato a far parte delle abitudini comunicative quotidiane dal mondo cattolico, che già dai tempi de Il Vittorioso o dell’attuale rinnovato Giornalino ne fa un problema formativo-didattico, ai partiti della sinistra (o dell’estrema destra) favorevoli a un suo uso strumentale: il f. in pieghevoli, dépliant, manuali, libretti d’istruzione, volumi scolastici, dizionari, corsi di lingua, magari inserito accanto a scritti o fotografie, capace di diventare il passe-partout che facilita ogni tipo di spiegazione pratica o burocratica.
I f., che in Italia hanno fatto la gioia di svariate generazioni, appartengono comunque a tre distinte tipologie, soprattutto d’impostazione straniera: i supereroi invincibili come Batman, Nembo Kid (ora Superman), Mandrake, Dick Tracy, l’Uomo Ragno; la saga antropomorfa degli animaletti disneyani fra Topolinia e Paperopoli; i più sofisticati Charlie Brown o B.C. che attraverso l’infanzia o la preistoria rispecchiano le nevrosi della società americana.
In Italia per i f. locali (talvolta apprezzatissimi nel resto d’Europa) il discorso si fa più complesso a causa di una produzione artisticamente variegatissima, che globalmente si evidenzia per buona qualità in direzione di un’estetica per così dire autoriale. Fin dagli inizi, infatti, uno dei f. di maggior successo, il signor Bonaventura, è opera surreale di un commediografo di talento quale Sergio Tofano. Nel dopoguerra Cocco Bill appartiene alla vena grottesca di Jacovitti (nome d’arte di Iacovitti Benito Franco, il cui pseudonimo - verbale e grafico - era lisca di pesce), mentre negli anni Sessanta Valentina di Guido Crepax e Corto Maltese di Ugo Pratt inaugurano un filone colto che intreccia il richiamo ai linguaggi filmici (dal western alla nouvelle vague) all’eleganza e al virtuosismo del tratto grafico (controbattuto dall’americanismo spicciolo di Diabolik delle sorelle Giussani). Talvolta gli autori, come Andrea Pazienza, Bonvi (Franco Bonvicini), Milo Manara sono più noti dei loro personaggi, anche per via dell’abbondanza di questi ultimi, o viceversa, alcuni f. come Tex Willer e Dylan Dog, passati in mano a differenti ritrattisti, conservano un forte impatto visivo-narrativo grazie ai rispettivi ideatori di trame e racconti (Gianluigi Bonelli, Tiziano Sclavi).
1. La natura ‘mediologica’
Gli antecedenti culturali del linguaggio fumettistico possono rintracciarsi in tutta la storia della pittura in Oriente e in Occidente: dai geroglifici egizi alla decorazione vascolare greca, dalle miniature persiane ai cicli d’affreschi nel tardo Medio Evo o nel Rinascimento, sono frequentissimi gli esempi di integrazione fra disegno e scrittura, fra immagine e parola, dove insomma un racconto è sviluppato attraverso una serie di ‘quadri’ in successione con il corredo di didascalie o di frasi e parole che fuoriescono dalla bocca di figure e personaggi.Tuttavia il f. rappresenta sul piano comunicativo un’innovazione nei confronti della tradizione europea: la ragione sta nella sua natura ‘mediologica’. Il f. esprime i mutamenti epocali della civiltà urbanizzata, mentre la ciclità temporale della vita agricola è sostituita dai ritmi fortemente codificati dell’espansione capitalistica: non è un caso infatti che gli storici indichino una data comune (1895-96) per le grandi invenzioni mediologiche, dal cinematografo alla radiofonia, e per il primo esempio di f. a mezzo stampa o giornalistico, il monello Yellow Kid pubblicato a colori su The New York Word di Joseph Pulitzer nel gennaio 1896. Il f., tuttavia, non si rivolge al pubblico indifferenziato dell’ascolto radiofonico o dello spettacolo cinematografico, ma a utenze più mirate, guardando in particolare a due target specifici: da un lato il pubblico infantile ormai legato alla scolarizzazione elementare obbligatoria; dall’altro quello adulto, operaio e piccolo-borghese, anch’esso più istruito d’una volta grazie, soprattutto, alle campagne di alfabetizzazione nelle grandi aree metropolitane.
Ma il f., dalle origini sino a oggi, giocherà sempre molto sull’ambiguità della sua proposta comunicativa, nel senso che crea un codice estremamente duttile in grado di coinvolgere lettori di età diverse e di formazione culturale altrettanto eterogenea: lo stesso f., insomma, capace di far divertire vecchi, giovani e uomini maturi, in cui la lettura delle parole non è così fondamentale rispetto al segno o allo stile delle immagini in sequenza.
2. L’evoluzione stilistica
In tal senso l’organizzazione retorico-discorsiva del f. si struttura entro parametri rigorosissimi: fin dai primi del Novecento, in chiave epico-narrativa, le storie vengono presentate su pagine rettangolari di grosso formato con la base lunga circa la metà dell’altezza (più o meno gli standard di quotidiani e riviste); ogni pagina, con lettura sequenziale-orizzontale, è divisa in parti eguali in quadrati o rettangolini, sotto i quali vengono disposte le didascalie (per lo più dialoghi o commenti in rime baciate).Dagli anni Venti si afferma definitivamente la nuvoletta o, appunto, fumetto (in inglese balloon), ossia lo spazio bianco che, all’interno di ogni riquadro, imita il soffio labiale con cui ogni personaggio emette i suoni del parlato, mentre alcune didascalie entro i bordi hanno invece l’effetto della voce fuori campo o del narratore in terza persona. Persino il livello dei rumori viene futuristicamente visualizzato con nuove onomatopee, scritte col raddoppiamento di vocali o consonanti per rendere più incisive o realistiche le sonorità richiamate (gulpp!, sobb!, vrooom!, ecc.).
I formati standard tendono infine a essere aboliti o modificati nel secondo dopoguerra: non più riquadri regolari, ma vignette a grandezze variabili che non seguono nemmeno il tradizionale ordine di lettura da sinistra a destra, dall’alto in basso, ma cubisticamente si incastrano l’una nell’altra con effetti sorprendenti che talora ricordano la suddivisione di campi e piani del linguaggio cinematografico o l’avanguardia dell’arte contemporanea. In realtà sono molti i debiti stilistici (e linguistici) che il f. ha contratto nel corso degli anni, in particolare con i film e con la fotografia: tra i codici visivi quelli cosiddetti della fotograficità (scala di campi e piani, gradi d’angolazione e inclinazione, forme di illuminazione, bianco e nero o colore) sono praticamente identici; in fondo anche i codici sintattici o del montaggio del cinema vengono ripresi dal f., nonostante l’assenza del movimento in tempo reale: infatti le associazioni per identità, analogia/contrasto, prossimità, transitività, accostamento identificano, in entrambi i casi, un procedimento similare nello scandire la storia (o diegesi narrativa), nell’organizzazione e nell’economia del racconto medesimo ( fabula e intreccio nel f. e nel cinema si animano col montaggio).
Non è un caso, infine, che questo connubio fra la grammatica cinematografica e quella del f. abbia sviluppato di recente una sorta di feedback: se una volta erano i f. a guardare alla regia filmica, sono adesso i vecchi e nuovi linguaggi audiovisivi a utilizzare le tecniche dei primi, soprattutto nell’ideare o visualizzare la sceneggiatura: il cosiddetto story-board, frequentissimo nella preparazione di spot e di cortometraggi, ma impiegato anche per i kolossal, è in fondo una via di mezzo tra bozzetto e canovaccio, con una forma e un’estetica che citano direttamente la sintassi fumettistica, con un disegno appena schizzato che, procedendo per vignette allineate, concretizza assai meglio della parola scritta ciò che il regista intende girare.
3. Per una storia del f. in Italia
La storia del f. in oltre cent’anni di attività è ricca di avvenimenti che si legano ai nomi dei personaggi, delle testate giornalistiche, delle edizioni, degli autori spesso divisi tra gli addetti al disegno, al testo scritto, alla messinscena di tipo drammaturgico. Come quasi tutti i prodotti mediatici, anche il f. da un lato vive una dimensione fortemente localistica con alcuni grossi successi limitati ai patrii confini, dall’altro invece possiede una circuitazione internazionale con alcune nazioni produttrici in grado di esportare non solo figure o giornalini, ma soprattutto gusti, modelli, valori, persino ideologie.Una storia completa del f. internazionale è praticamente impossibile, ma si possono individuare alcuni punti fermi della sua incessante evoluzione: l’industria culturale statunitense fin dal primo Novecento ha di fatto inventato da un lato le strisce sui quotidiani, giocando dapprima sulla cadenza a puntate giornaliere e, in seguito, su formule più sintetiche, fino ad arrivare alla singola vignetta per lo più satirica (adottata di recente anche da alcune testate italiane); e dall’altro lato ha creato gli albi per bambini e per ragazzi, a sostituire o affiancare il libro di favole più tradizionale e a svilupparsi parallelamente con sempre più complesse operazioni di merchandising. In tal senso i riferimenti storico-teorici sono da una parte il feuilletton e il volume illustrato, che costituiscono, nella cultura infantile e adolescenziale, il passaggio oralità-scrittura-f. in chiave modernista; e dall’altro il cinema d’animazione, o a disegni animati, che è il suo diretto pendant, grazie alla capacità simbiotica di far vivere su grande schermo le avventure dei cosiddetti eroi di carta (e viceversa). Non è un caso infatti che in tal senso l’ultima grande rivoluzione del linguaggio fumettistico sia coeva e, al contempo, intrinseca all’exploit della neotelevisione: i manga (i fumetti giapponesi), spartani libroni con poche immagini per ciascuna pagina, sono il corrispettivo della staticità degli anìme (i nippocartoons) per il piccolo schermo.
In Italia si possono comunque individuare alcuni momenti-chiave per l’affermazione di una cultura mediologica legata all’universo fumettistico.
Nel 1908 come supplemento al Corriere della Sera nasce il Corriere dei Piccoli o Corrierino dal tratto liberty un po’ manierato e incline ai gusti sofisticati della borghesia medio-alta, verso cui resterà quasi sempre associato, pur accentuando i toni surreali e fiabeschi.
La risposta popolare arriva nel 1923 a meno di un anno dalla marcia su Roma con Il balilla che fin dal titolo si pone come apertamente ideologizzato e propagandistico. Il f. di regime tuttavia, nelle preferenze di un pubblico che va dalle materne ai licei, viene superato negli anni Trenta dal massiccio ingresso dei comics americani: il settimanale Topolino, italianizzandone autarchicamente tutti i nomi, accoglie i celeberrimi protagonisti di Walt Disney, mentre L’avventuroso opta per i generi d’azione e di spionaggio (presto imitato da Intrepido e Monello). Nel dopoguerra, a parte qualche rarissimo tentativo neorealista (la rivista Il Politecnico pubblica Barnaby di Johnson considerandolo opera d’arte), in Italia viene creata una sorta di f. per adulti, dove ai disegni si sostituiscono le fotografie: è il fotoromanzo (Grand Hotel e Bolero Film) in auge fino all’avvento di telenovela e soap opera neotelevisive.
Negli anni Sessanta, il boom economico amplifica i consumi anche in questo settore: le edicole si riempiono di novità a livello di generi, testate, personaggi. Tra giovani e adulti meno culturalizzati prevalgono le serie condite di mistero e horror (nei decenni successivi rimpiazzate dalla pornografia sia comica sia macabra), mentre fra le Elites intellettuali un mensile come Linus rispecchia lo spirito del tempo un po’ contestatario e un po’ radical chic. Il merito di Linus non è solo di lanciare giovani autori nostrani o introdurre le strisce ‘impegnate’ di altri Paesi, ma anche di favorire un dibattito su valori e cultura del f., che trova in Umberto Eco il primo grande sostenitore.
Il Sessantotto spinge il f. a ribellarsi all’editoria tradizionale, passando a realizzazioni semiartigianali o autogestite col ricorso a mezzi e supporti alternativi (volantino, murale, tazebao). D’altro canto, dopo le alterne fortune in epoca giolittiana (L’asino) e postbellica (Candido), si afferma stabilmente una satira estremista che nella sintesi delle vignette fotografa, assai meglio di tanti commenti giornalistici, la realtà del Paese: gli anni Settanta-Ottanta giungono così a produrre testate di effimera durata, ma di successi accorati e di feroci polemiche (Il male, Frigidaire, Cuore). Ormai negli anni Novanta anche la stampa quotidiana e settimanale, dopo parecchie ritrosie, accetta, spesso in prima pagina, la sferzante ironia di una generazione di vignettisti (Forattini, Altan, Vincino, Elle Kappa, Giannelli, Staino, Chiappori) ben consapevoli delle potenzialità informative del linguaggio fumettistico.
Sia pure in maniera discreta, quasi sommessa, il f. dunque è entrato a far parte delle abitudini comunicative quotidiane dal mondo cattolico, che già dai tempi de Il Vittorioso o dell’attuale rinnovato Giornalino ne fa un problema formativo-didattico, ai partiti della sinistra (o dell’estrema destra) favorevoli a un suo uso strumentale: il f. in pieghevoli, dépliant, manuali, libretti d’istruzione, volumi scolastici, dizionari, corsi di lingua, magari inserito accanto a scritti o fotografie, capace di diventare il passe-partout che facilita ogni tipo di spiegazione pratica o burocratica.
I f., che in Italia hanno fatto la gioia di svariate generazioni, appartengono comunque a tre distinte tipologie, soprattutto d’impostazione straniera: i supereroi invincibili come Batman, Nembo Kid (ora Superman), Mandrake, Dick Tracy, l’Uomo Ragno; la saga antropomorfa degli animaletti disneyani fra Topolinia e Paperopoli; i più sofisticati Charlie Brown o B.C. che attraverso l’infanzia o la preistoria rispecchiano le nevrosi della società americana.
In Italia per i f. locali (talvolta apprezzatissimi nel resto d’Europa) il discorso si fa più complesso a causa di una produzione artisticamente variegatissima, che globalmente si evidenzia per buona qualità in direzione di un’estetica per così dire autoriale. Fin dagli inizi, infatti, uno dei f. di maggior successo, il signor Bonaventura, è opera surreale di un commediografo di talento quale Sergio Tofano. Nel dopoguerra Cocco Bill appartiene alla vena grottesca di Jacovitti (nome d’arte di Iacovitti Benito Franco, il cui pseudonimo - verbale e grafico - era lisca di pesce), mentre negli anni Sessanta Valentina di Guido Crepax e Corto Maltese di Ugo Pratt inaugurano un filone colto che intreccia il richiamo ai linguaggi filmici (dal western alla nouvelle vague) all’eleganza e al virtuosismo del tratto grafico (controbattuto dall’americanismo spicciolo di Diabolik delle sorelle Giussani). Talvolta gli autori, come Andrea Pazienza, Bonvi (Franco Bonvicini), Milo Manara sono più noti dei loro personaggi, anche per via dell’abbondanza di questi ultimi, o viceversa, alcuni f. come Tex Willer e Dylan Dog, passati in mano a differenti ritrattisti, conservano un forte impatto visivo-narrativo grazie ai rispettivi ideatori di trame e racconti (Gianluigi Bonelli, Tiziano Sclavi).
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Bibliografia
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- STRAZZULLA Gaetano, I fumetti. Dalle origini a oggi, Sansoni, Firenze 1970.
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Michelone Guido , Fumetto, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (21/11/2024).
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