Codice
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Autore: Pier Cesare Rivoltella
Si può definire un c. come un’unità di marche semantiche che stabilisce equivalenze tra un sistema di significanti e un sistema di significati, cioè quella regola o quell’insieme di regole che determina una relazione tra un sistema di significanti (piano dell’espressione) e un sistema di significati (piano del contenuto).
In concreto, al concetto di c. si possono attribuire due significati sotto altrettante differenti prospettive. In un primo senso il c. è un mezzo linguistico per cui ne va della possibilità stessa che si verifichi una comunicazione. C. in tal senso sono detti ad esempio i c. verbali o iconici, poiché senza una grammatica e una sintassi, tanto nel caso della parola che dell’immagine, la materia espressiva di cui ci si può servire per produrre senso rimane muta.
Pensato in questo modo il c., secondo un’attenzione comparativa che legge i diversi tipi di c. nelle loro relazioni reciproche, presenta nel suo specifico possibilità e registri diversi da quelli di altri c.; ciascuno di essi rende possibile la comunicazione secondo il suo specifico. Cosicché la codifica verbale si rivela assolutamente originale rispetto a quella iconica, prossemica, ecc.
Approfondendo proprio questa caratteristica del c. di rendere possibile la comunicazione nel suo specifico, si giunge a metterne a fuoco una seconda accezione che lo configura come una particolare modalità di utilizzo di un mezzo linguistico. È così che, ad esempio in teatro, si può fare un uso convenzionale o naturale dei moduli recitativi; nel primo caso si ottiene come risultato una recitazione sopra le righe, artificiosa, spesso anche volutamente tale, nel secondo, invece, si annulla lo spazio della convenzione e si tende a modulare la parola sulla scorta del suo uso nella vita. Muovendo da una prospettiva dinamica, questa seconda sottolineatura non evidenzia tanto la specificità della codifica nei diversi specifici, ma l’esistenza di c., anche all’interno dello stesso specifico (le convenzioni), che sono diversi secondo le epoche, le scuole, gli autori, ecc. Intesa in questi termini la nozione di c. si approssima a quella di stile, una categoria che occupa uno spazio importante all’interno della storia dei generi e questo in letteratura come nel cinema, nel teatro come nella musica, ecc.
Comunque lo si intenda, il c. non è mai sperimentabile fuori da un contesto: esso cioè non opera mai isolatamente, ma sempre contemporaneamente e in maniera organica rispetto alla varietà di tutti gli altri.
Il secondo rilevante problema che, quindi, si pone allo studioso, subito dopo averne fornita definizione, è di stilarne una tipologia, dotandosi così di uno strumento utilissimo ai fini dell’analisi di un qualsivoglia messaggio.
Tra le tante tipologie possibili, ci sembra di poterne indicare due che rispondono ad altrettanti criteri di articolazione.
Un primo criterio ci pare essere di tipo verticale. In base a esso, procedendo dal tipo dotato di maggior ampiezza applicativa a quello meno ampio, si possono individuare:
c. generali, che qualificano un modo di comunicare, sono cioè propri di un determinato specifico significativo (è in base a questi c. che possiamo dire che il cinema è cinema o il teatro è il teatro);
c. particolari, che qualificano i prodotti di un certo strumento comunicativo in una certa epoca o secondo un determinato stile (essi qualificano, quindi, un certo modo di pensare il cinema, la televisione);
c. singolari (specifici), che appartengono al singolo testo (in quanto da esso sono istituiti ex novo) ma non al sistema di cui esso fa parte.
Con questo criterio verticale è possibile farne interagire un secondo orizzontale, che distingue i c., sia generali, che particolari, che specifici, in generi secondo la materia espressiva cui essi danno ordine. Questa seconda scansione tipologica individua sostanzialmente tre categorie di c.:
c. narrativi. Raccolgono le strutture narrative del testo, le regole linguistiche e le modalità di discorso impiegate nella sua costruzione. Senza distinguere tra i diversi specifici (cinema, teatro, ecc.) fanno parte di tali strutture: i raccordi all’interno di una scena ottenuti attraverso stacchi, sguardi e posizione reciproca dei personaggi, l’eventuale uso di piani-sequenza; i raccordi all’interno di una sequenza, mediante il ricorso al montaggio alternato o alle condensazioni temporali; i raccordi tra unità narrative, che rispondono solitamente a criteri stilistici; i raccordi tra immagine e suono, come sono i casi della voce fuoricampo o dell’asincronismo;
c. percettivo-figurativi (o della sfera visiva). Si possono sottoarticolare in una lunga serie di c. tra cui evidenziamo: i c. iconici, cioè il colore, l’uso della luce, l’organizzazione tecnico-linguistica del visibile (tipo di quadro, composizione, profondità di campo); i c. scenografici, con le soluzioni architettoniche, l’arredo, gli effetti speciali; i c. prossemici, cioè la disposizione degli attori nello spazio e i loro principali spostamenti, implicanti una diversa modalità di relazione tra gli attori, ma anche tra gli attori e il pubblico (nel caso del teatro soprattutto) e tra gli attori e lo spazio; se nei c. prossemici lo spostamento assume rilievo per la sua valenza strutturale, per la variazione delle geometrie scenico-spaziali che comporta, nei c. cinesico-gestuali, che comprendono i movimenti-macchina (per il cinema e l’ audiovisivo in genere), la mimica, la gestualità e i movimenti dei personaggi, assume rilievo per la sua valenza espressiva;
c. linguistici e sonori (c. della sfera auditiva). Comprendono anzitutto i c. verbali, cioè le battute dei personaggi, le parole da essi pronunciate. Oltre a questi i c. paralinguistici, cioè le modalità di emissione della voce umana, come il tono, il timbro, l’altezza e il ritmo. Infine i c. auditivi (i suoni, le voci e i rumori che non sono né parole né musica come lamenti, grida, tonfi, rumori naturali, ecc.) e i c. musicali.
In concreto, al concetto di c. si possono attribuire due significati sotto altrettante differenti prospettive. In un primo senso il c. è un mezzo linguistico per cui ne va della possibilità stessa che si verifichi una comunicazione. C. in tal senso sono detti ad esempio i c. verbali o iconici, poiché senza una grammatica e una sintassi, tanto nel caso della parola che dell’immagine, la materia espressiva di cui ci si può servire per produrre senso rimane muta.
Pensato in questo modo il c., secondo un’attenzione comparativa che legge i diversi tipi di c. nelle loro relazioni reciproche, presenta nel suo specifico possibilità e registri diversi da quelli di altri c.; ciascuno di essi rende possibile la comunicazione secondo il suo specifico. Cosicché la codifica verbale si rivela assolutamente originale rispetto a quella iconica, prossemica, ecc.
Approfondendo proprio questa caratteristica del c. di rendere possibile la comunicazione nel suo specifico, si giunge a metterne a fuoco una seconda accezione che lo configura come una particolare modalità di utilizzo di un mezzo linguistico. È così che, ad esempio in teatro, si può fare un uso convenzionale o naturale dei moduli recitativi; nel primo caso si ottiene come risultato una recitazione sopra le righe, artificiosa, spesso anche volutamente tale, nel secondo, invece, si annulla lo spazio della convenzione e si tende a modulare la parola sulla scorta del suo uso nella vita. Muovendo da una prospettiva dinamica, questa seconda sottolineatura non evidenzia tanto la specificità della codifica nei diversi specifici, ma l’esistenza di c., anche all’interno dello stesso specifico (le convenzioni), che sono diversi secondo le epoche, le scuole, gli autori, ecc. Intesa in questi termini la nozione di c. si approssima a quella di stile, una categoria che occupa uno spazio importante all’interno della storia dei generi e questo in letteratura come nel cinema, nel teatro come nella musica, ecc.
Comunque lo si intenda, il c. non è mai sperimentabile fuori da un contesto: esso cioè non opera mai isolatamente, ma sempre contemporaneamente e in maniera organica rispetto alla varietà di tutti gli altri.
Il secondo rilevante problema che, quindi, si pone allo studioso, subito dopo averne fornita definizione, è di stilarne una tipologia, dotandosi così di uno strumento utilissimo ai fini dell’analisi di un qualsivoglia messaggio.
Tra le tante tipologie possibili, ci sembra di poterne indicare due che rispondono ad altrettanti criteri di articolazione.
Un primo criterio ci pare essere di tipo verticale. In base a esso, procedendo dal tipo dotato di maggior ampiezza applicativa a quello meno ampio, si possono individuare:
c. generali, che qualificano un modo di comunicare, sono cioè propri di un determinato specifico significativo (è in base a questi c. che possiamo dire che il cinema è cinema o il teatro è il teatro);
c. particolari, che qualificano i prodotti di un certo strumento comunicativo in una certa epoca o secondo un determinato stile (essi qualificano, quindi, un certo modo di pensare il cinema, la televisione);
c. singolari (specifici), che appartengono al singolo testo (in quanto da esso sono istituiti ex novo) ma non al sistema di cui esso fa parte.
Con questo criterio verticale è possibile farne interagire un secondo orizzontale, che distingue i c., sia generali, che particolari, che specifici, in generi secondo la materia espressiva cui essi danno ordine. Questa seconda scansione tipologica individua sostanzialmente tre categorie di c.:
c. narrativi. Raccolgono le strutture narrative del testo, le regole linguistiche e le modalità di discorso impiegate nella sua costruzione. Senza distinguere tra i diversi specifici (cinema, teatro, ecc.) fanno parte di tali strutture: i raccordi all’interno di una scena ottenuti attraverso stacchi, sguardi e posizione reciproca dei personaggi, l’eventuale uso di piani-sequenza; i raccordi all’interno di una sequenza, mediante il ricorso al montaggio alternato o alle condensazioni temporali; i raccordi tra unità narrative, che rispondono solitamente a criteri stilistici; i raccordi tra immagine e suono, come sono i casi della voce fuoricampo o dell’asincronismo;
c. percettivo-figurativi (o della sfera visiva). Si possono sottoarticolare in una lunga serie di c. tra cui evidenziamo: i c. iconici, cioè il colore, l’uso della luce, l’organizzazione tecnico-linguistica del visibile (tipo di quadro, composizione, profondità di campo); i c. scenografici, con le soluzioni architettoniche, l’arredo, gli effetti speciali; i c. prossemici, cioè la disposizione degli attori nello spazio e i loro principali spostamenti, implicanti una diversa modalità di relazione tra gli attori, ma anche tra gli attori e il pubblico (nel caso del teatro soprattutto) e tra gli attori e lo spazio; se nei c. prossemici lo spostamento assume rilievo per la sua valenza strutturale, per la variazione delle geometrie scenico-spaziali che comporta, nei c. cinesico-gestuali, che comprendono i movimenti-macchina (per il cinema e l’ audiovisivo in genere), la mimica, la gestualità e i movimenti dei personaggi, assume rilievo per la sua valenza espressiva;
c. linguistici e sonori (c. della sfera auditiva). Comprendono anzitutto i c. verbali, cioè le battute dei personaggi, le parole da essi pronunciate. Oltre a questi i c. paralinguistici, cioè le modalità di emissione della voce umana, come il tono, il timbro, l’altezza e il ritmo. Infine i c. auditivi (i suoni, le voci e i rumori che non sono né parole né musica come lamenti, grida, tonfi, rumori naturali, ecc.) e i c. musicali.
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Bibliografia
- ECO Umberto, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975.
- ECO Umberto, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, Roma 2006.
- FISKE John, Introduction to communication studies, Routledge, London 2010 (3.a ed.).
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Note
Come citare questa voce
Rivoltella Pier Cesare , Codice, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (21/11/2024).
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