Interpretazione
- Testo
- Bibliografia6
- Voci correlate
Autore: Pier Cesare Rivoltella
È il momento del processo ermeneutico che consiste nella spiegazione del significato di un testo (interpretatio); più in generale è l’insieme delle procedure attraverso le quali il lettore giunge ad attualizzare il senso di un testo.
Come problema, la questione dell’i. attraversa l’intera storia del pensiero occidentale, declinandosi nei termini del rapporto dell’uomo con la verità. Esso viene affrontato e risolto in due modi molto diversi fra loro.
Da una parte, la tradizione del razionalismo da Platone e Aristotele fino all’informatica contemporanea, passando per la civiltà giuridica romana, il tomismo e la logica minor riconosce alla verità contorni netti: la conoscenza è corretta (orthòs) se rispecchia le cose come stanno.
Dall’altra parte troviamo invece una tradizione irrazionalistica, parallela alla precedente corre dall’ermetismo e dalla gnosi antichi, attraverso il sapere magico-alchemico dei moderni (Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, ma anche i padri della rivoluzione scientifica da Bacone a Newton) fino al pensiero contemporaneo (Schelling, Jung, Heidegger) per la quale la "verità è segreta e ogni interrogazione di simboli ed enigmi non rivelerà mai la verità ultima ma semplicemente sposterà il segreto altrove" (Eco, 1992): alla riconoscibilità incontrovertibile del vero che si esprime nel principio di non contraddizione (o è ‘P’ o è ‘non-P’) si sostituisce un nuovo tipo di esperienza della verità che si esprime nella capacità di cogliere i bagliori improvvisi e parziali che provengono a tratti dal nascondimento entro il quale comunque essa sempre riposa (alètheia).
Quando nel Novecento il problema dell’i. viene trasferito dalla filosofia alle scienze del testo (Semiotica), questa fondamentale dialettica prende corpo nella doppia questione della riconoscibilità del significato vero di un testo e, di conseguenza, del tipo di ruolo da attribuire al lettore.
La soluzione più tradizionale di questo problema è costituita dalla posizione dell’ermeneutica oggettivista (o essenzialista), convinta che in ogni testo sia sempre inequivocabilmente riconoscibile l’intentio auctoris, cioè che il significato di un’opera sia esattamente quello che l’autore ha inteso attribuirle. Questa posizione, propria tanto della critica author oriented che della semiotica strutturalista, conosce diverse sfumature: l’idea che il significato sia reso definitivo dalla comunione dell’interprete con l’intenzione dell’autore (intuizionismo); la convinzione che sia invece la perfetta conoscenza di regole e norme linguistiche a garantire questa definitività (positivismo); infine, la posizione di chi come Hirsch (1983) distingue il senso oggettivo e sempre riconoscibile di un testo (significato) dal valore che esso assume hic et nunc per l’interprete (significanza).
Opposta a questa prima soluzione è quella proposta dal prospettivismo, secondo il quale il fulcro di ogni processo interpretativo è l’intentio lectoris: il significato di un testo non coincide con le intenzioni di chi l’ha prodotto, ma va pensato come il risultato dell’attività di chi lo interpreta. Anche questa posizione resa nota in campo letterario dalla critica Reader oriented conosce delle varianti. Quelle oggi più accreditate sono quelle del pragmatismo di Richard Rorty e del decostruzionismo di Jonathan Culler. Per Rorty (1986) l’i. di un testo consiste negli usi che il lettore concretamente ne fa. Questo significa che non esistono i. corrette e scorrette, come non esiste un’ipotetica coerenza interna al testo che dovrebbe aiutare l’interprete a decidere appunto della correttezza o meno della sua lettura: la coerenza di un testo, sottolinea il filosofo americano, "non è altro che il fatto che qualcuno abbia trovato qualcosa di interessante da dire su un gruppo di segni o di rumori, un modo di descrivere quei segni e quei rumori che li pone in relazione ad alcune delle altre cose per cui proviamo interesse a parlare". Culler (1988), respingendo l’idea pragmatista secondo la quale interpretare un testo significa farne l’uso che si vuole (per Culler è come scambiare l’uso del software con la comprensione del suo funzionamento), intende piuttosto l’i. come un processo che trova i propri limiti nel contesto, ben sapendo però che questo contesto è illimitato: le i. di un testo sono infinite non perché sono infiniti gli usi che se ne possono fare, ma perché tali sono i contesti a partire dai quali è possibile interpretarlo.
Tra la chiusura rigida dell’oggettivismo e l’apertura indefinita del prospettivismo è possibile individuare una terza via, in cui è riconoscibile la posizione attuale, tra gli altri, di Eco: essa consiste nel cercare i limiti dell’i. all’interno del testo. Se l’intentio auctoris non è mai determinabile (non tutto ciò che un autore dice è intenzionale; il testo dice sempre più di quanto il suo autore intendesse fargli dire) e l’intentio lectoris rischia di vanificare il compito stesso dell’i., l’intentio operis fissa le coordinate entro le quali il lavoro dell’interprete dovrà mantenersi: tutto ciò che non rientra in queste coordinate non è previsto dalla strategia semiotica attiva all’interno del testo e perciò stesso diviene motivo di una sua sovrainterpretazione (cioè di una i. che non trova conferme in alcuna porzione del testo stesso).
Lungi dal riconoscere in una di queste tre posizioni il punto di vista sicuramente corretto sulla questione, il dibattito teorico sull’i. è oggi quanto mai vivace e ricco di articolazioni. (Ricezione)
Come problema, la questione dell’i. attraversa l’intera storia del pensiero occidentale, declinandosi nei termini del rapporto dell’uomo con la verità. Esso viene affrontato e risolto in due modi molto diversi fra loro.
Da una parte, la tradizione del razionalismo da Platone e Aristotele fino all’informatica contemporanea, passando per la civiltà giuridica romana, il tomismo e la logica minor riconosce alla verità contorni netti: la conoscenza è corretta (orthòs) se rispecchia le cose come stanno.
Dall’altra parte troviamo invece una tradizione irrazionalistica, parallela alla precedente corre dall’ermetismo e dalla gnosi antichi, attraverso il sapere magico-alchemico dei moderni (Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, ma anche i padri della rivoluzione scientifica da Bacone a Newton) fino al pensiero contemporaneo (Schelling, Jung, Heidegger) per la quale la "verità è segreta e ogni interrogazione di simboli ed enigmi non rivelerà mai la verità ultima ma semplicemente sposterà il segreto altrove" (Eco, 1992): alla riconoscibilità incontrovertibile del vero che si esprime nel principio di non contraddizione (o è ‘P’ o è ‘non-P’) si sostituisce un nuovo tipo di esperienza della verità che si esprime nella capacità di cogliere i bagliori improvvisi e parziali che provengono a tratti dal nascondimento entro il quale comunque essa sempre riposa (alètheia).
Quando nel Novecento il problema dell’i. viene trasferito dalla filosofia alle scienze del testo (Semiotica), questa fondamentale dialettica prende corpo nella doppia questione della riconoscibilità del significato vero di un testo e, di conseguenza, del tipo di ruolo da attribuire al lettore.
La soluzione più tradizionale di questo problema è costituita dalla posizione dell’ermeneutica oggettivista (o essenzialista), convinta che in ogni testo sia sempre inequivocabilmente riconoscibile l’intentio auctoris, cioè che il significato di un’opera sia esattamente quello che l’autore ha inteso attribuirle. Questa posizione, propria tanto della critica author oriented che della semiotica strutturalista, conosce diverse sfumature: l’idea che il significato sia reso definitivo dalla comunione dell’interprete con l’intenzione dell’autore (intuizionismo); la convinzione che sia invece la perfetta conoscenza di regole e norme linguistiche a garantire questa definitività (positivismo); infine, la posizione di chi come Hirsch (1983) distingue il senso oggettivo e sempre riconoscibile di un testo (significato) dal valore che esso assume hic et nunc per l’interprete (significanza).
Opposta a questa prima soluzione è quella proposta dal prospettivismo, secondo il quale il fulcro di ogni processo interpretativo è l’intentio lectoris: il significato di un testo non coincide con le intenzioni di chi l’ha prodotto, ma va pensato come il risultato dell’attività di chi lo interpreta. Anche questa posizione resa nota in campo letterario dalla critica Reader oriented conosce delle varianti. Quelle oggi più accreditate sono quelle del pragmatismo di Richard Rorty e del decostruzionismo di Jonathan Culler. Per Rorty (1986) l’i. di un testo consiste negli usi che il lettore concretamente ne fa. Questo significa che non esistono i. corrette e scorrette, come non esiste un’ipotetica coerenza interna al testo che dovrebbe aiutare l’interprete a decidere appunto della correttezza o meno della sua lettura: la coerenza di un testo, sottolinea il filosofo americano, "non è altro che il fatto che qualcuno abbia trovato qualcosa di interessante da dire su un gruppo di segni o di rumori, un modo di descrivere quei segni e quei rumori che li pone in relazione ad alcune delle altre cose per cui proviamo interesse a parlare". Culler (1988), respingendo l’idea pragmatista secondo la quale interpretare un testo significa farne l’uso che si vuole (per Culler è come scambiare l’uso del software con la comprensione del suo funzionamento), intende piuttosto l’i. come un processo che trova i propri limiti nel contesto, ben sapendo però che questo contesto è illimitato: le i. di un testo sono infinite non perché sono infiniti gli usi che se ne possono fare, ma perché tali sono i contesti a partire dai quali è possibile interpretarlo.
Tra la chiusura rigida dell’oggettivismo e l’apertura indefinita del prospettivismo è possibile individuare una terza via, in cui è riconoscibile la posizione attuale, tra gli altri, di Eco: essa consiste nel cercare i limiti dell’i. all’interno del testo. Se l’intentio auctoris non è mai determinabile (non tutto ciò che un autore dice è intenzionale; il testo dice sempre più di quanto il suo autore intendesse fargli dire) e l’intentio lectoris rischia di vanificare il compito stesso dell’i., l’intentio operis fissa le coordinate entro le quali il lavoro dell’interprete dovrà mantenersi: tutto ciò che non rientra in queste coordinate non è previsto dalla strategia semiotica attiva all’interno del testo e perciò stesso diviene motivo di una sua sovrainterpretazione (cioè di una i. che non trova conferme in alcuna porzione del testo stesso).
Lungi dal riconoscere in una di queste tre posizioni il punto di vista sicuramente corretto sulla questione, il dibattito teorico sull’i. è oggi quanto mai vivace e ricco di articolazioni. (Ricezione)
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Bibliografia
- COLLINI Stephan (ed.), Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, Milano 1995.
- CULLER Jonathan, Sulla decostruzione, Bompiani, Milano 1988.
- ECO Umberto, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1992.
- HIRSH Eric D., Teoria dell'interpretazione e critica letteraria, Il Mulino, Bologna 1983.
- LIEBES Tamar - KATZ Elihu, Watching Dallas. The export of meaning, Oxford University Press, New York 1990.
- RORTY Richard, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986.
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Note
Come citare questa voce
Rivoltella Pier Cesare , Interpretazione, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (21/11/2024).
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