Violenza nei media
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Autore: M. Britto Berchmans
Nessun’altra area della ricerca sulla comunicazione ha suscitato controversie e dibattiti quanto la questione della v.n.m. e i suoi possibili effetti sui minori. Nessun settore è stato così intensamente studiato e in nessun altro settore le conclusioni raggiunte sono state così divergenti e ambigue.
In molti Paesi occidentali, e sempre più anche nei Paesi in via di sviluppo, i bambini trascorrono più tempo davanti alla televisione che davanti a un insegnante. È stato calcolato che, per la fine delle scuole superiori, i ragazzi statunitensi hanno guardato non meno di 22.000 ore di televisione e circa 300.000 spot pubblicitari. Dinanzi al continuo aumento del tasso di violenza nei programmi televisivi e nei film, e all’imporsi del crimine come fenomeno comune della vita urbana contemporanea, sia gli educatori sia i dirigenti politici si preoccupano del fatto che l’eccessiva esposizione delle nuove generazioni alla v.n.m. possa renderli aggressivi. Nel testo che segue si dà conto delle principali linee di ricerca centrate, data la loro preponderanza quantitativa e problematica, sull’approccio statunitense.
Sin dagli anni Cinquanta il governo USA si era interessato alla questione della v.n.m., promuovendo nel 1952 una prima discussione congressuale sull’argomento. Negli anni successivi, il Senato americano, a più riprese, affrontò la questione di un possibile aumento della delinquenza giovanile per effetto di una programmazione televisiva ad alto contenuto di violenza. Tra il 1968 e il 1972 furono istituite tre Commissioni federali con l’obiettivo di studiare il legame tra v.n.m. e comportamenti antisociali. La Commissione nazionale sulle cause e sulla prevenzione della violenza dichiarò, nel 1969, che la violenza in televisione era uno dei massimi fattori scatenanti della violenza nella società. Nel 1970 la seconda Commissione, quella sulla oscenità e sulla pornografia, concluse che la pornografia non portava a comportamenti antisociali. Infine, la Commissione scientifica del Ministero della Sanità sulla televisione e sul comportamento antisociale rese pubblico il suo verdetto nel 1972: la violenza in televisione aumenta i comportamenti aggressivi di un certo tipo di giovani spettatori.
Nel 1982 l’Istituto nazionale di igiene mentale (NIMH) pubblicò un rapporto che si spingeva anche più in là di quanto affermato dalla Commissione del Ministero della Sanità. Infatti, mentre quest’ultima sosteneva l’esistenza di un legame causale diretto tra esposizione alla violenza in televisione e comportamenti antisociali da parte degli spettatori giovani, il rapporto NIMH estendeva questa conclusione ai bambini in età prescolare e agli adolescenti, sia maschi che femmine. Inoltre, sottolineava come la violenza in televisione accresce nei più giovani la paura di rimanere vittima di qualche crimine.
Altri importanti studi, tra cui quelli del Centro per il controllo delle malattie (1991), dell’Accademia nazionale delle scienze (1993) e dell’Associazione americana di psicologia (1993), hanno raggiunto la medesima conclusione: la violenza in televisione induce il pubblico all’adozione di comportamenti aggressivi. In particolare, il rapporto dell’Associazione americana di psicologia risulta di grande interesse, in quanto sostiene che in quasi quarant’anni di ricerca è stata documentata in maniera più che sufficiente la quasi universale esposizione dei bambini a elevati livelli di v.n.m., e che i piccoli spettatori più assidui mostrano una maggiore propensione ad adottare comportamenti aggressivi.
Nella prima metà degli anni Novanta, spinta da una rinnovata ondata di indignazione pubblica, anche l’industria televisiva ha appoggiato la domanda di nuove leggi che ponessero un limite alla violenza nei programmi. Nel 1994, finanziato con i fondi dell’Associazione nazionale delle televisioni via cavo, è stato lanciato un progetto di ricerca su larga scala, della durata di tre anni, con lo scopo di determinare il livello di violenza nella programmazione televisiva, il cosiddetto National Television Violence Study (NTVS). Questo progetto ha visto la partecipazione di oltre 200 ricercatori di quattro università ed è stato salutato come la ricerca più vasta mai condotta sul contenuto dei messaggi mediali. Si compone di tre parti fondamentali: un’analisi del grado, della natura e del contesto della violenza nei programmi di intrattenimento; uno studio sull’efficacia dei diversi sistemi di monitoraggio e controllo; infine una ricognizione delle varie iniziative televisive anti-violenza. Conclusa la ricerca sono stati pubblicati tre volumi che ne riassumono i risultati.
Greenberg e i suoi collaboratori (1980) hanno allargato il concetto di violenza identificandola con il comportamento antisociale in genere. Secondo Greenberg, la violenza comprende tutti i comportamenti che producono, volontariamente o meno, dolore fisico e psicologico agli altri.
Il NTVS definisce come violenza "qualsiasi chiara rappresentazione dell’uso della forza fisica o la verosimile minaccia di tale forza allo scopo di colpire un essere animato o un gruppo di esseri". Questa definizione comprende anche "certe rappresentazioni di effetti fisicamente negativi su un essere animato, o gruppo di esseri, originati da cause violente non visibili".
Già nel 1953 Dallas Smythe contò, nella tipica programmazione televisiva settimanale USA, 3.421 atti di violenza. Gerbner e i suoi collaboratori (1979), studiando la violenza in televisione per dodici anni (1967-1978), hanno scoperto che l’80% dei programmi conteneva atti violenti. In particolare, sono stati contati otto episodi di violenza per ogni ora di programmazione. Il team di Gerbner è inoltre giunto alla conclusione che i programmi più violenti sono quelli rivolti ai bambini. Alcuni tipi di personaggi sono di solito più vittime di atti violenti rispetto ad altri: le donne (soprattutto le più giovani e le più anziane), gli stranieri e i membri delle classi sociali più ricche o più povere. Secondo Greenberg, in televisione la violenza verbale è più frequente di quella fisica, del furto e della truffa. In effetti, la violenza verbale appare più vicina alla realtà quotidiana di quanto non lo sia la violenza fisica.
Nel corso del NTVS, i ricercatori dell’Università di California, Santa Barbara, hanno monitorato la presenza di violenza in programmi di intrattenimento come le sitcom, i film, i programmi per bambini e i video musicali; quelli dell’Università del Texas, Austin, hanno invece esaminato programmi pseudo-realistici come i rotocalchi, i talk shows, i polizieschi, e i documentari. Le conclusioni raggiunte da questi studiosi sono:
oltre la metà dei programmi della televisione americana (57%) contiene violenza e circa un terzo di questi programmi mostra almeno nove atti di violenza;
raramente gli atti di violenza sono commessi una sola volta: oltre la metà di tutti gli scontri violenti (58%) sono ripetuti più volte;
nel caso di programmi violenti raramente viene segnalata al pubblico la presenza di atti di violenza: la maggior parte di questi avvisi riguarda i film;
nel 25% dei casi di atti violenti è usata un’arma;
chi compie atti violenti rimane impunito in tre quarti di tutte le scene violente;
in meno della metà delle scene di violenza le vittime mostrano di soffrire per gli atti di violenza subiti;
la gravità della violenza è ridimensionata dal fatto che più di un terzo di tutte le scene violente situano la violenza in un contesto umoristico.
Dopo aver accuratamente monitorato il livello di violenza contenuto nei programmi televisivi trasmessi nel biennio 1994-1996, gli studiosi hanno concluso che:
l’alta presenza di violenza in televisione non è diminuita né aumentata in maniera significativa dal primo al secondo anno;
i personaggi più popolari continuano a essere quelli che compiono atti di violenza e ciò rende la violenza sempre più attraente;
la maggior parte della violenza televisiva appare priva di conseguenze: il dolore o le sofferenze provate dalle vittime sono raramente rappresentate;
alcune rappresentazioni di violenza, che possono innescare forme di emulazione da parte dei bambini al di sotto dei sette anni, sono contenute proprio nei programmi rivolti a questa fascia di pubblico.
I dati sulla violenza in televisione raccolti in altri Paesi sono scarsi. Il Dutch Violence Profile, ad esempio, dopo aver esaminato quattro settimane di programmazione televisiva trasmessa prima e durante la prima serata da dieci emittenti olandesi, ha concluso che nel complesso la televisione olandese è meno violenta di quella americana. Risultati simili sono stati raggiunti in Svezia.
1) aumento dell’aggressività attraverso un processo di apprendimento e imitazione;
2) aumento dell’insensibilità alla violenza in genere (effetto desensibilizzante);
3) aumento della paura di rimanere vittima di atti di violenza.
Sono state avanzate tre diverse teorie per spiegare, in corrispondenza dei suddetti effetti, come si verifica il processo di induzione e imitazione.
a) La teoria dell’apprendimento sociale, elaborata da Bandura (1963), sostiene che i modelli dei mass media indicano al pubblico quali comportamenti adottare e quali non adottare. In altre parole, questi modelli suggeriscono quali comportamenti saranno ricompensati e quali puniti. Molti studi sperimentali condotti su bambini e adulti hanno dimostrato che la visione di un modello di comportamento aggressivo incoraggia l’adozione di un comportamento aggressivo. Eron e Huesmann (1986) affermano che i bambini imparano che l’aggressione è il modo di risolvere i problemi tipico dei giovani e questa idea è difficile che cambi con il passare degli anni. In uno studio longitudinale condotto per ventidue anni, alcuni ricercatori hanno scoperto che esiste una relazione tra l’esposizione abituale dei bambini alla violenza televisiva e il crimine adulto. Questi studiosi suggeriscono che approssimativamente il 10% di variazione riscontrata nei comportamenti criminali più recenti è dovuto a una precedente esposizione alla violenza televisiva.
b) Altre ricerche hanno dimostrato che la visione prolungata della violenza può indurre nel pubblico un aumento dell’insensibilità alla violenza nella vita reale e nei confronti delle vittime. Anche se in un primo momento gli spettatori possono sentirsi toccati dalla v.n.m., gradualmente vi si abituano sino a perdere ogni sensibilità nei suoi riguardi. Di conseguenza, possono sentirsi meno infastiditi dalla violenza ed essere meno disposti a prendere le parti delle vittime.
c) La terza teoria, proposta da Gerbner, Gross, Signorielli e Morgan (1976), sostiene che gli spettatori più assidui diventano più diffidenti e paurosi. Essi cominciano a modellare la loro percezione della realtà sociale secondo quanto vedono in televisione. Pertanto, tendono a vedere il mondo come un luogo pericoloso e dominato dal crimine e a vivere con la costante paura di rimanere vittime di una qualche violenza. A questo timore si aggiunge anche una profonda diffidenza negli altri (Cultivation Theory).
Nel tentativo di identificare gli effetti della v.n.m., non bisogna però tralasciare il fatto che non tutte le rappresentazioni della violenza comportano gli stessi rischi. Vi sono infatti delle circostanze contestuali che accrescono la probabilità che le scene violente possano produrre uno dei tre tipi di effetti citati.
Secondo Comstock e Paik (1991) ci sono tre aspetti della rappresentazione che rendono possibile prevedere se vi saranno effetti negativi o meno: 1) il grado di efficacia e successo della violenza rappresentata; 2) il livello di giustificazione della violenza; 3) il grado di pertinenza della violenza agli occhi del pubblico.
Il NTVS, dal canto suo, ha individuato nove fattori contestuali: 1) la natura di chi compie gli atti di violenza; 2) la natura della vittima; 3) le ragioni della violenza; 4) la presenza di armi; 5) il grado di efferatezza nel rappresentare la violenza; 6) il grado di realismo; 7) se la violenza viene punita o meno; 8) le conseguenze della violenza; 9) se la violenza è legata a elementi di umorismo.
In molti Paesi occidentali, e sempre più anche nei Paesi in via di sviluppo, i bambini trascorrono più tempo davanti alla televisione che davanti a un insegnante. È stato calcolato che, per la fine delle scuole superiori, i ragazzi statunitensi hanno guardato non meno di 22.000 ore di televisione e circa 300.000 spot pubblicitari. Dinanzi al continuo aumento del tasso di violenza nei programmi televisivi e nei film, e all’imporsi del crimine come fenomeno comune della vita urbana contemporanea, sia gli educatori sia i dirigenti politici si preoccupano del fatto che l’eccessiva esposizione delle nuove generazioni alla v.n.m. possa renderli aggressivi. Nel testo che segue si dà conto delle principali linee di ricerca centrate, data la loro preponderanza quantitativa e problematica, sull’approccio statunitense.
1. Una panoramica storica
L’interesse degli studiosi di comunicazione per gli effetti negativi dei media sui minori non è certo recente. Già negli anni Trenta furono condotte le ricerche che, sotto il nome di Payne Fund Studies, ebbero lo scopo di investigare i possibili effetti negativi esercitati dal cinema sui bambini e sui ragazzi. Ma è con l’avvento della televisione che questo genere di studi è balzato in primo piano. Nel 1961 la pubblicazione del libro poi rimasto famoso Television in the lives of our children di Schramm, Lyle e Parker mise in grande evidenza il ruolo determinante che la televisione esercitava nella vita delle giovani generazioni.Sin dagli anni Cinquanta il governo USA si era interessato alla questione della v.n.m., promuovendo nel 1952 una prima discussione congressuale sull’argomento. Negli anni successivi, il Senato americano, a più riprese, affrontò la questione di un possibile aumento della delinquenza giovanile per effetto di una programmazione televisiva ad alto contenuto di violenza. Tra il 1968 e il 1972 furono istituite tre Commissioni federali con l’obiettivo di studiare il legame tra v.n.m. e comportamenti antisociali. La Commissione nazionale sulle cause e sulla prevenzione della violenza dichiarò, nel 1969, che la violenza in televisione era uno dei massimi fattori scatenanti della violenza nella società. Nel 1970 la seconda Commissione, quella sulla oscenità e sulla pornografia, concluse che la pornografia non portava a comportamenti antisociali. Infine, la Commissione scientifica del Ministero della Sanità sulla televisione e sul comportamento antisociale rese pubblico il suo verdetto nel 1972: la violenza in televisione aumenta i comportamenti aggressivi di un certo tipo di giovani spettatori.
Nel 1982 l’Istituto nazionale di igiene mentale (NIMH) pubblicò un rapporto che si spingeva anche più in là di quanto affermato dalla Commissione del Ministero della Sanità. Infatti, mentre quest’ultima sosteneva l’esistenza di un legame causale diretto tra esposizione alla violenza in televisione e comportamenti antisociali da parte degli spettatori giovani, il rapporto NIMH estendeva questa conclusione ai bambini in età prescolare e agli adolescenti, sia maschi che femmine. Inoltre, sottolineava come la violenza in televisione accresce nei più giovani la paura di rimanere vittima di qualche crimine.
Altri importanti studi, tra cui quelli del Centro per il controllo delle malattie (1991), dell’Accademia nazionale delle scienze (1993) e dell’Associazione americana di psicologia (1993), hanno raggiunto la medesima conclusione: la violenza in televisione induce il pubblico all’adozione di comportamenti aggressivi. In particolare, il rapporto dell’Associazione americana di psicologia risulta di grande interesse, in quanto sostiene che in quasi quarant’anni di ricerca è stata documentata in maniera più che sufficiente la quasi universale esposizione dei bambini a elevati livelli di v.n.m., e che i piccoli spettatori più assidui mostrano una maggiore propensione ad adottare comportamenti aggressivi.
Nella prima metà degli anni Novanta, spinta da una rinnovata ondata di indignazione pubblica, anche l’industria televisiva ha appoggiato la domanda di nuove leggi che ponessero un limite alla violenza nei programmi. Nel 1994, finanziato con i fondi dell’Associazione nazionale delle televisioni via cavo, è stato lanciato un progetto di ricerca su larga scala, della durata di tre anni, con lo scopo di determinare il livello di violenza nella programmazione televisiva, il cosiddetto National Television Violence Study (NTVS). Questo progetto ha visto la partecipazione di oltre 200 ricercatori di quattro università ed è stato salutato come la ricerca più vasta mai condotta sul contenuto dei messaggi mediali. Si compone di tre parti fondamentali: un’analisi del grado, della natura e del contesto della violenza nei programmi di intrattenimento; uno studio sull’efficacia dei diversi sistemi di monitoraggio e controllo; infine una ricognizione delle varie iniziative televisive anti-violenza. Conclusa la ricerca sono stati pubblicati tre volumi che ne riassumono i risultati.
2. Quanta violenza c’è in televisione?
Sebbene anche film popolari come Arma Letale II e Terminator contengano un alto livello di violenza, la maggior parte degli studi si concentra sulla televisione. La prima cosa da determinare è la quantità di violenza effettivamente trasmessa in televisione. Essa può variare a seconda della definizione di violenza che si decide di adottare e del modo in cui la si misura empiricamente. George Gerbner, uno dei pionieri nello studio della v.n.m., ha definito la violenza come "un’evidente espressione di forza fisica (con o senza uso di armi) contro se stessi o altri che costringe all’azione contro il proprio volere per paura di essere feriti o uccisi, o di ferire o uccidere".Greenberg e i suoi collaboratori (1980) hanno allargato il concetto di violenza identificandola con il comportamento antisociale in genere. Secondo Greenberg, la violenza comprende tutti i comportamenti che producono, volontariamente o meno, dolore fisico e psicologico agli altri.
Il NTVS definisce come violenza "qualsiasi chiara rappresentazione dell’uso della forza fisica o la verosimile minaccia di tale forza allo scopo di colpire un essere animato o un gruppo di esseri". Questa definizione comprende anche "certe rappresentazioni di effetti fisicamente negativi su un essere animato, o gruppo di esseri, originati da cause violente non visibili".
Già nel 1953 Dallas Smythe contò, nella tipica programmazione televisiva settimanale USA, 3.421 atti di violenza. Gerbner e i suoi collaboratori (1979), studiando la violenza in televisione per dodici anni (1967-1978), hanno scoperto che l’80% dei programmi conteneva atti violenti. In particolare, sono stati contati otto episodi di violenza per ogni ora di programmazione. Il team di Gerbner è inoltre giunto alla conclusione che i programmi più violenti sono quelli rivolti ai bambini. Alcuni tipi di personaggi sono di solito più vittime di atti violenti rispetto ad altri: le donne (soprattutto le più giovani e le più anziane), gli stranieri e i membri delle classi sociali più ricche o più povere. Secondo Greenberg, in televisione la violenza verbale è più frequente di quella fisica, del furto e della truffa. In effetti, la violenza verbale appare più vicina alla realtà quotidiana di quanto non lo sia la violenza fisica.
Nel corso del NTVS, i ricercatori dell’Università di California, Santa Barbara, hanno monitorato la presenza di violenza in programmi di intrattenimento come le sitcom, i film, i programmi per bambini e i video musicali; quelli dell’Università del Texas, Austin, hanno invece esaminato programmi pseudo-realistici come i rotocalchi, i talk shows, i polizieschi, e i documentari. Le conclusioni raggiunte da questi studiosi sono:
oltre la metà dei programmi della televisione americana (57%) contiene violenza e circa un terzo di questi programmi mostra almeno nove atti di violenza;
raramente gli atti di violenza sono commessi una sola volta: oltre la metà di tutti gli scontri violenti (58%) sono ripetuti più volte;
nel caso di programmi violenti raramente viene segnalata al pubblico la presenza di atti di violenza: la maggior parte di questi avvisi riguarda i film;
nel 25% dei casi di atti violenti è usata un’arma;
chi compie atti violenti rimane impunito in tre quarti di tutte le scene violente;
in meno della metà delle scene di violenza le vittime mostrano di soffrire per gli atti di violenza subiti;
la gravità della violenza è ridimensionata dal fatto che più di un terzo di tutte le scene violente situano la violenza in un contesto umoristico.
Dopo aver accuratamente monitorato il livello di violenza contenuto nei programmi televisivi trasmessi nel biennio 1994-1996, gli studiosi hanno concluso che:
l’alta presenza di violenza in televisione non è diminuita né aumentata in maniera significativa dal primo al secondo anno;
i personaggi più popolari continuano a essere quelli che compiono atti di violenza e ciò rende la violenza sempre più attraente;
la maggior parte della violenza televisiva appare priva di conseguenze: il dolore o le sofferenze provate dalle vittime sono raramente rappresentate;
alcune rappresentazioni di violenza, che possono innescare forme di emulazione da parte dei bambini al di sotto dei sette anni, sono contenute proprio nei programmi rivolti a questa fascia di pubblico.
I dati sulla violenza in televisione raccolti in altri Paesi sono scarsi. Il Dutch Violence Profile, ad esempio, dopo aver esaminato quattro settimane di programmazione televisiva trasmessa prima e durante la prima serata da dieci emittenti olandesi, ha concluso che nel complesso la televisione olandese è meno violenta di quella americana. Risultati simili sono stati raggiunti in Svezia.
3. Gli effetti sui telespettatori: i risultati della ricerca
Nonostante le critiche, gli oltre 3000 studi condotti solo negli USA in questo settore hanno dimostrato che la v.n.m., soprattutto quella in televisione, provoca effetti negativi sul pubblico più giovane. Esaminando più di tre decadi di ricerche, possiamo concludere che la violenza in televisione produce fondamentalmente tre tipi di effetti:1) aumento dell’aggressività attraverso un processo di apprendimento e imitazione;
2) aumento dell’insensibilità alla violenza in genere (effetto desensibilizzante);
3) aumento della paura di rimanere vittima di atti di violenza.
Sono state avanzate tre diverse teorie per spiegare, in corrispondenza dei suddetti effetti, come si verifica il processo di induzione e imitazione.
a) La teoria dell’apprendimento sociale, elaborata da Bandura (1963), sostiene che i modelli dei mass media indicano al pubblico quali comportamenti adottare e quali non adottare. In altre parole, questi modelli suggeriscono quali comportamenti saranno ricompensati e quali puniti. Molti studi sperimentali condotti su bambini e adulti hanno dimostrato che la visione di un modello di comportamento aggressivo incoraggia l’adozione di un comportamento aggressivo. Eron e Huesmann (1986) affermano che i bambini imparano che l’aggressione è il modo di risolvere i problemi tipico dei giovani e questa idea è difficile che cambi con il passare degli anni. In uno studio longitudinale condotto per ventidue anni, alcuni ricercatori hanno scoperto che esiste una relazione tra l’esposizione abituale dei bambini alla violenza televisiva e il crimine adulto. Questi studiosi suggeriscono che approssimativamente il 10% di variazione riscontrata nei comportamenti criminali più recenti è dovuto a una precedente esposizione alla violenza televisiva.
b) Altre ricerche hanno dimostrato che la visione prolungata della violenza può indurre nel pubblico un aumento dell’insensibilità alla violenza nella vita reale e nei confronti delle vittime. Anche se in un primo momento gli spettatori possono sentirsi toccati dalla v.n.m., gradualmente vi si abituano sino a perdere ogni sensibilità nei suoi riguardi. Di conseguenza, possono sentirsi meno infastiditi dalla violenza ed essere meno disposti a prendere le parti delle vittime.
c) La terza teoria, proposta da Gerbner, Gross, Signorielli e Morgan (1976), sostiene che gli spettatori più assidui diventano più diffidenti e paurosi. Essi cominciano a modellare la loro percezione della realtà sociale secondo quanto vedono in televisione. Pertanto, tendono a vedere il mondo come un luogo pericoloso e dominato dal crimine e a vivere con la costante paura di rimanere vittime di una qualche violenza. A questo timore si aggiunge anche una profonda diffidenza negli altri (Cultivation Theory).
Nel tentativo di identificare gli effetti della v.n.m., non bisogna però tralasciare il fatto che non tutte le rappresentazioni della violenza comportano gli stessi rischi. Vi sono infatti delle circostanze contestuali che accrescono la probabilità che le scene violente possano produrre uno dei tre tipi di effetti citati.
Secondo Comstock e Paik (1991) ci sono tre aspetti della rappresentazione che rendono possibile prevedere se vi saranno effetti negativi o meno: 1) il grado di efficacia e successo della violenza rappresentata; 2) il livello di giustificazione della violenza; 3) il grado di pertinenza della violenza agli occhi del pubblico.
Il NTVS, dal canto suo, ha individuato nove fattori contestuali: 1) la natura di chi compie gli atti di violenza; 2) la natura della vittima; 3) le ragioni della violenza; 4) la presenza di armi; 5) il grado di efferatezza nel rappresentare la violenza; 6) il grado di realismo; 7) se la violenza viene punita o meno; 8) le conseguenze della violenza; 9) se la violenza è legata a elementi di umorismo.
4. La v.n.m. e l’intervento delle autorità pubbliche
La v.n.m., con la conseguente constestazione da parte dei cittadini, è una tematica che sarà sempre oggetto di discussione. Per quanto genitori ed educatori siano preoccupati dai possibili effetti negativi dell’eccessiva v.n.m., non è facile affrontare questo problema senza subire l’accusa che si interferisce con alcuni diritti fondamentali come la libertà di espressione e l’integrità delle opere d’arte o i principi di onestà e realismo. I tre principali protagonisti di questo dibattito, e cioè il governo, i media e il pubblico, dovrebbero collaborare per trovare una soluzione accettabile per tutti. In molti Paesi, i media hanno adottato codici di autoregolamentazione che non sempre funzionano. Infatti la grande competizione esistente tra i media commerciali di oggi li costringe a sfidare continuamente le regole autoimposte per poter attirare un pubblico sempre più vasto. In alcuni Paesi, come gli USA, associazioni di cittadini si sono impegnate a monitorare la violenza in televisione e a costringere le emittenti a essere più attente alle istanze dei genitori e degli educatori. Grazie ai loro sforzi, le stazioni televisive sono oggi più impegnate a fornire una programmazione per ragazzi di alta qualità educativa, se non altro, per non incorrere nelle ammonizione della FCC (Federal Communications Commission).Foto
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Berchmans M. Britto , Violenza nei media, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (22/12/2024).
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