Teorie del cinema

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Theories of film di Andrew Tudor (1974)

1. Definizione

Si può definire teoria del cinema una formulazione di principi generali o una serie di ipotesi concernenti l’identità, la natura, l’essenza del mezzo cinematografico. Tradizionalmente essa è stata a lungo distinta dal campo delle teoriche del cinema, termine con cui si indica(va) piuttosto la formulazione dei principi generali e dei complessi di regole che sono alla base della prassi creativa degli autori (studiosi, artisti, tecnici), facendo bene attenzione a non confondere queste ultime né con le poetiche cinematografiche (cioè le ricostruzioni dei sistemi espressivi che hanno sostenuto la produzione di un regista o di una scuola, che sono a posteriori e non a priori come le teoriche), né con le estetiche (cioè lo studio delle condizioni generali di ogni sistema espressivo, che sono universali e non particolari come le teoriche).

2. Teorie e teoriche del cinema: specificità e differenze

Alla luce delle definizioni appena fornite sembrerebbe facile ricondurre la casistica delle teoriche allo studio degli autori cinematografici che hanno scritto di cinema, identificando il campo delle teorie esclusivamente con la riflessione di studiosi che, invece, non si sono mai confrontati con la prassi cinematografica (regia, sceneggiatura, ecc.). In realtà il problema dei rapporti fra teorie e teoriche è assai più complesso. È possibile cercare di inquadrarlo, semplificando, in tre affermazioni di principio:
1) anzitutto il discorso delle teoriche, a differenza di quello della teoria, si misura sempre con situazioni concrete, essendo un coacervo di insistenze, dialoghi, lotte, dibattiti, opinioni variamente assecondate e comunque palesate dai teorici in precise epoche storico-culturali;
2) inoltre, mentre le teoriche avanzano per definizioni essenziali e tentano di centrare i fenomeni analizzati in sé, grazie alla certezza che la loro natura ben si presti allo sguardo critico, anche per via dell’essere disponibili e sistematici, le teorie procedono, invece, per definizioni metodologiche, con la sicurezza che la visione è determinata da un punto di vista e che la scelta dello sguardo da adottare incide sulla realtà guardata;
3) infine, tra gli esponenti delle teoriche prevalgono studiosi di estetica, critici dalle esigenze più generali, registi che talvolta superano l’orizzonte della propria opera; fra i teorici propriamente detti sono da includere specialisti di diversa provenienza, dai metodologi agli sperimentatori.
Gli studi più recenti sembrano concordi, ormai, nel far rientrare le teoriche nell’alveo delle teorie, considerando queste ultime semplicemente come un sapere condiviso attraverso il quale chiunque può tentare di spiegare il mondo. Da questo punto di vista, il dibattitto sulla dialettica tra teoria e teoriche si può ritenere consegnato alla storia degli studi sul cinema.

3. Le teorie del cinema: caratteri

La specificità del discorso teorico (Casetti, 1993) – includendo dunque, in esso, tanto la teoria che la teorica – si esprime in tre punti-chiave: il discorso teorico parla direttamente di cinema e non dei film; mostra di non voler accontentarsi di descrivere, ma di voler soprattutto spiegare; non è al presente né al passato, ma in qualche modo al futuro.
1) Teorizzare il cinema significa che il film o l’insieme di film non è il cinema e che quindi è importante non guardare solo le immagini sullo schermo, ma anche ciò che sta dietro e intorno a esse o che ne consegue; non limitarsi al prodotto finale, ma vedere ciò che ne determina la fabbricazione (tanto il gioco di rappresentazioni, quanto i vari comportamenti indotti); interessarsi insomma di un fenomeno complesso e complessivo, che vive grazie all’interazione di momenti economici, psicologici, sociologici, linguistici, mediologici, antropologici. Teorizzare significa dunque affrontare realtà differenziate e al contempo correlate come strategie comunicative, apparati, rituali collettivi, fenomeni di moda e di costume sociale, coincidenze ideologico-politiche, nuove e vecchie tecnologie.
2) Il discorso teorico non vuole soltanto constatare i fenomeni immediati, ma soprattutto rispondere al perché e al come del cinema, per andare oltre le superfici e cercare al di là sia di mere percezioni ed evidenze palesi, sia dell’ordine interno di ciò che analizza. Quello teorico è un discorso esplicativo che non si ferma all’osservazione dei fatti, ma ne vuole cogliere il gioco complessivo e i rapporti che li determinano; volendo dunque interpretare le cose (e non fermarsi a compilare una lista più o meno nota a tutti) il discorso teorico arriva a enunciare le leggi che inquadrano i singoli accadimenti e dunque a definire delle regole.
3) Il discorso teorico è predittivo, nel senso che la previsione non è profezia o prognosi, bensì costruzione esemplare di un modello inglobante anche ciò che non è del tutto affermato, ma di per sé legittimo. L’insieme di questi caratteri contribuisce a tracciare una linea di demarcazione tra la teoria e la critica cinematografica.

4. Un profilo storico

La ricostruzione del dibattito teorico si può organizzare secondo due tipi di approccio. Nel primo caso prevale l’impostazione cronologica, come in Storia delle teoriche del film di Guido Aristarco (1951), uno dei testi più completi sul dibattito teorico dalle origini alla fine degli anni Quaranta. Il vantaggio di questa impostazione va cercato nella possibilità che essa offre di allestire una galleria unitaria in cui far rientrare gli autori e i movimenti, anche se poi proprio questo fatto rischia di tradursi in un modello storicistico, i cui criteri di lettura sono quelli di crescita e decadenza.
Nel secondo caso prevale, invece, un’impostazione strutturata per grandi problemi come in Theories of film di Andrew Tudor (1974) o Teorie del cinema. 1945-1990 di Francesco Casetti (1993). Si tratta di un’impostazione tematica, in cui l’attenzione va, più che alla ricostruzione cronologica, alla individuazione dei principali centri di ricerca, dalla dialettica tra reale e immaginario alla sottolineatura dei diversi approcci disciplinari (linguistico, mediologico, economico, ecc.).
Sarà questo secondo stile ricostruttivo a orientare l’esposizione nelle pagine che seguono, con l’attenzione, tuttavia, di inserire autori e temi principali nel solco della consueta suddivisione della storia del cinema in due grandi epoche, definibili come tradizione e modernità (con spartiacque cronologico la fine della seconda guerra mondiale), a loro volta ripartite da un lato fra origini, stagione del muto e cinema classico e dall’altro in dopoguerra, nuovo cinema e postmoderno; in tal senso è infatti possibile collocare le numerose teorie che vengono spesso evidenziate proprio da contatti e frequentazioni sia con il mondo registico e la relativa industria culturale sia con l’attività creativa e critica dei microcosmi accademici.

4.1. Il cinema delle origini.
Nel 1898, poco dopo la presentazione dei Lumière, a Parigi Boleslas Matuszewski parlava già dell’immenso potenziale del cinematografo quale strumento documentario, anticipando le recenti considerazioni degli storici circa l’uso dell’immagine filmica come testimonianza fondamentale ai fini della ricerca e dell’analisi. È ovvio che le limitate risorse dell’invenzione all’epoca dei Lumière non consentivano a Matuszewski di prevedere la successiva svolta in chiave affabulatoria e narrativa del cinema in assoluta conversione verso lo spettacolo e il divertimento. Ma è importante osservare come le prime traballanti proiezioni potessero svelare l’aspetto precipuamente documentario, in una connotazione senza dubbio più conservativa e archivistica del cinema quale grande macchina di memoria sociale e collettiva.
A parte questa eccezione, occorrerà aspettare almeno altri due decenni per il formarsi di una vera e propria scuola di pensiero teorico sul cinema. Infatti, il tratto comune alle prime grandi riflessioni sul cinematografo riguarda proprio il ritardo con cui esse si sono affermate rispetto all’evoluzione tecnica, espressiva, comunicazionale del mezzo stesso: i migliori saggi teorici vengono scritti solo dalla seconda metà degli anni Dieci, in un’epoca in cui il linguaggio cinematografico è stato già abbondantemente codificato dalle regie di Griffith e della scuola italiana e dall’apporto degli attori della slapstick comedy (le farse di inattendibile comicità alla maniera di Mark Sennet o dei Fratelli Marx).
Il carattere comune delle prime teorie sta nel rivendicare una completa autonomia del cinema rispetto agli altri sistemi artistici e comunicativi. Questo intendimento poi si esprime, da un lato, nella individuazione dei tratti peculiari e dei processi formali caratteristici del cinematografo (si pensi a Hugo Munstenberg e alla sua riflessione sui temi del pubblico e dell’immaginazione); dall’altro, nella comparazione del linguaggio cinematografico con quello delle altre discipline artistiche – il teatro (Canudo, Luciani) e il romanzo (Lukacs) – per rilevarne il grado di indipendenza e specificità.
Gli atteggiamenti teorici dei personaggi più direttamente collegati agli ambienti dell’avanguardia riflettono, invece, la coscienza che il cinema rifugga le tradizioni dell’estetica e, insieme, abbisogni piuttosto di qualcosa di consono alla sua novità. Sia il futurismo sia Delluc, pur in maniere tra loro abbastanza diverse, hanno il presentimento che il cinema, cambiando profondamente l’assetto dell’ordinario equilibrio dei sistemi artistici e comunicativi, abbia determinato anche una certa ambivalenza delle precedenti teorie.

4.2. La stagione del muto.
Negli anni Venti le avanguardie cinematografiche tentano di costruire un’estetica in rapporto dialettico con la produzione creativa che, a sua volta, poco prima dell’avvento del sonoro, giunge ad altezze quasi assolute di espressività e sperimentazione.
Per l’avanguardia cinematografica si tratta insomma di nobilitare il cinema, arte giovane e moderna, senza tradizioni culturali alle spalle, spingendolo su basi di radicale esteticità in contrapposizione sia al ruolo di evento fieristico e popolaresco, sia al perdurante misconoscimento di quasi tutto il mondo accademico. Tra le molteplici esperienze emergono almeno due sostanziali nozioni teoriche di avanguardia cinematografica.
La prima concerne il riscatto e il recupero in senso artistico e culturale del cinema medesimo: si pensi alla ricerca di Jean Epstein sulla fotogenia e la sua teorizzazione del cinema puro o alla polemica di Fernand Léger contro gli apparati produttivi in favore di un cinema d’arte.
La seconda, più eversiva, intende invece, attraverso il cinema, oltrepassare o demolire il concetto tradizionale dell’arte e della cultura, come avviene nel caso del movimento dada (che adopera il cinema sia per valicare i confini tra le svariate tecniche, sia per irridere e negare i valori borghesi del dominio artistico) o del surrealismo (che lo ritiene materia onirica per poter annullare la conformistica separazione arte/vita verso esperienze sempre più totali).
Un’esperienza unica e originale è costituita infine, in questi anni, dalla teoria del cinema di registi e letterati sovietici in cui, per alcuni anni, prima della dittatura staliniana, si stabiliscono dialettiche determinazioni fra impegno teorico e realizzazioni filmiche in un clima di grande lucidità intellettuale, spesso in anticipo sui dogmi marxisti, come dimostrano soprattutto certi scritti di S. M. Ejzenstejn e in parte di L. Kulesov, di V. Pudovkin, di D. Vertov, i testi della Feks (Fabrika EKScentriceskogo aktera, Fabbrica dell’attore eccentrico, gruppo teatrale d’avanguardia russo attivo dal 1921 al 1924), nonché la lungimiranza della scuola formalista.
Saranno proprio i sovietici, accanto a un gruppo di studiosi mitteleuropei, a trasformare l’estetica cinematografica nelle prime compiute t.d.c., non a caso nel periodo di maggior fulgore (e poco prima del declino) dell’arte muta. Valga, per tutti, il riferimento all’ungherese Bela Balasz cui si deve la fissazione dei criteri formativi dell’arte cinematografica: inquadratura; primo piano; montaggio.

4.3. Il cinema classico.
Il definitivo avvento del sonoro agli inizi degli anni Trenta non solo muta gli indirizzi della comunicazione di massa e dell’industria dello spettacolo, ma condiziona enormemente anche la riflessione critica e il dibattito teorico dell’intero decennio e di quello successivo, il cosiddetto periodo classico della storia del cinema, per via dell’importanza che il mezzo assume su tutti i fronti.
L’importanza del sonoro, infatti, va oltre la novità tecnica e linguistica per inserirsi nei processi produttivi dell’attività commerciale che, attraverso il primato del modello hollywoodiano (Hollywood), si sviluppa a sua volta nella direzione del lavoro standardizzato a ciclo continuo come la catena di montaggio in fabbrica. In tal senso il maggior contributo teorico sul cinema negli anni Trenta concerne il nascente dibattito, a livello filosofico e sociologico, sull’industria culturale: tanto Benjamin quanto Horkheimer e Adorno, esponenti di spicco della Scuola di Francoforte, annunciano – sia pur su fronti diametralmente opposti tra loro – il punto di vista sul cinematografo in una contestualizzazione massmediologica, intendendo il film come principale strumento delle comunicazioni sociali, assai più rivelante della radio o della stampa che erano allora giunte in parallelo ad altissimi livelli di penetrazione.

4.4. Il dopoguerra.
La discussione teorica nel secondo dopoguerra nasce all’insegna di due sostanziali cambiamenti: il primo è l’ulteriore rafforzamento del potere hollywoodiano, con l’ammodernamento dei generi ormai codificati e con la vittoria del suo modello cosmopolita alla conquista di sempre nuovi mercati; il secondo riguarda, invece, una reazione inconscia a tale americanizzazione attraverso un riqualificato sviluppo di modelli nazionali e artigianali del prodotto filmico, da connettere ai tentativi di decentrare e rinnovare le cinematografie locali.
In questo secondo contesto va inserita l’esperienza del neorealismo italiano degli anni Quaranta, la cui fortuna critica e teorica ispirerà nei due decenni successivi la politique des auters, la Nouvelle Vague e i vari movimenti di rinascita delle cinematografie nazionali (New american cinema; Free cinema). Il cambiamento preteso e ostentato dai cineasti, che si articola, un po’ genericamente, nella richiesta e nell’offerta di maggior realismo, si accompagna spesso ad appassionati contributi di rielaborazione teorica che intende discutere a fondo le acquisizioni delle teoriche classiche per poter quindi ridefinire i valori del macrocosmo cinematografico. L’intervento più deciso e stimolante, nonché quello maggiormente strutturato dal punto di vista intellettuale e dialettico, resta in quegli anni e anche per i futuri sviluppi quello di André Bazin, il cui pensiero riesce a cogliere alla perfezione il significato di cruciali rivolgimenti nella storia del cinema, proprio nel saper individuare gli aspetti salienti di tutto il processo comunicativo (il cinema dal punto vista linguistico, produttivo, massmediale, ecc.). La novità del pensiero di Bazin consiste anzitutto nell’escludere gli atteggiamenti prescrittivi e totalizzanti di molte precedenti teorie: convinto che l’esistenza del cinema preceda la sua essenza, Bazin rifiuta l’estetica normativa che deduceva da un sistema astratto le leggi del cinema da farsi, e propone invece una teoria in grado di leggere e giudicare quello che è il cinema in se stesso, attraverso certi generi minori, verso i quali proprio le teorie sistematiche esprimevano ostilità o indifferenza. Il discorso di Bazin rappresenta una importante novità pure in senso concettuale, adottando la nozione di ontologia del realismo e anticipando i discorsi sulle tematiche della realtà tipici degli anni Cinquanta e Sessanta: Bazin insomma rivendica, oltre l’illusoria specificità formale, un cinema impuro, che azzeri la nozione di montaggio (secondo la prassi e la teoria d’anteguerra) a favore di quella del pianosequenza e della profondità di campo, in una situazione estetica più o meno consapevolmente fatta propria dal miglior cinema d’autore della modernità.
In Francia la lezione di Bazin e dei suoi allievi (molti dei quali, come Godard, Truffaut, Rivette, Chabrol, Rohmer, Doniol-Valcroze, futuri registi) attorno alla rivista Cahiers du Cinéma, stimola, per tutti gli anni Cinquanta, un dibattito teorico tra i più fecondi di idee e di proposte. Ad esempio, uno scrittore e cineasta come Alexandre Astruc, nel teorizzare sia l’intervento della caméra-stylo sia l’opposizione tra cinema-linguaggio e cinema-spettacolo, precorre la cosiddetta politica degli autori che proprio sui Cahiers e poi con la Nouvelle Vague avrà la sua più completa e brillante messa in atto.
In Italia, invece, la riflessione teorica dagli anni Quaranta fino alle soglie dei Sessanta inizia con Umberto Barbaro, critico e saggista, che opta per la fantasia e l’immaginazione del regista quali elementi fondanti, nonché sul montaggio come specifico filmico e sull’attore come fattore creativo.
Il dibattito italiano di quegli anni, fortemente segnato dall’esperienza neorealista e in particolare dai contributi di Cesare Zavattini, sceneggiatore e ideologo del gruppo, si rivela comunque vivace e fitto di posizioni composite: dal marxismo ortodosso di Guido Aristarco, che tenta anche una prima rilettura storica di tutte le teorie cinematografiche, alla fenomenologia anticrociana di Galvano Della Volpe, che si orienta verso la scoperta dei fondamenti del linguaggio cinematografico attraverso la razionalità dell’immagine e la coerenza dell’opera per definire il verosimile filmico, ancora alla documentazione professorale di Luigi Chiarini, il quale, per documentare l’autonomia dei valori espressivi del cinema, ne descrive minutamente gli elementi tecnici e su questa solida base informativa coglie appieno la specificità dell’arte del film.
Ma l’autore che più d’ogni altro, soprattutto nei Paesi anglosassoni, ha segnato l’evoluzione della teoria cinematografica degli anni Cinquanta e Sessanta è Siegfrid Kracauer, che ritiene la storia della fotografia e del cinematografo la risultante di due tendenze, creativa e realistica, parallele o addirittura contrapposte, optando ovviamente per la linea del realismo in virtù di un atteggiamento autenticamente cinematografico che si basa sul rispetto delle naturali inclinazioni riproduttive della macchina da presa.

4.5. Il nuovo cinema.
Gli anni Sessanta vedono la temporanea crisi del sistema hollywoodiano a causa sia del diffondersi delle cinematografie nazionali, delle soluzioni indipendenti e autoemarginate, sia della concorrenza del medium televisivo, il quale di fatto diventa lo strumento dominante dell’industria culturale e della comunicazione di massa.
Sul piano creativo questo alimenta, tra gli anni Sessanta e Settanta, l’idea che si potesse procedere alla fondazione di un nuovo modello di cinema: un cinema che, sottoposto a una trasformazione mediologica radicale attraverso le più diverse chances di sperimentazione (cinéma vérité; l’underground, l’animazione, la video-art, gli esperimenti multimediali), potesse produrre significative conseguenze estetiche e comunicative fino ad approdare al superamento del concetto di cinema medesimo. Questo sogno di palingenesi mediologica è stato ovviamente accompagnato da una riflessione teorica lucida e incisiva. Le nuove teorie ritengono superata, da un lato, la definizione del cinema come arte, senza tener conto delle intrinseche determinazioni a livello tecnologico e massmediologico e, dall’altro, quella di realismo poiché, rivelando le determinazioni tecnologiche del medium, viene esplicitata la metafisica del cinema quale rivelazione e ripetizione magica del mondo.
Si possono facilmente individuare due importanti tendenze: una mediologica, l’altra semiologica.
Sul fronte mediologico s’impone la figura del canadese Marshall McLuhan, il quale considera il cinema come medium meccanico-elettrico, ancora inserito in una dimensione tipografica della cultura universale: in ciò consiste la divergenza dal mezzo televisivo, che invece prefigura la cosiddetta galassia elettronica.
Le prime teorie di stampo semiologico, invece, tentano una disamina del carattere segnico del cinema, ossia di un linguaggio fortemente strutturato su codici e convenzioni, che a loro volta riaffermano la non naturalezza dei processi creativi di restituzione della realtà. Occupa, qui, una posizione di rilievo il progetto di Christian Metz che si propone un chiarimento metodologico per individuare i fondamenti di una vera e propria semiologia del cinema, intesa quale complessiva ridefinizione di termini e metodi d’approccio teorico al cinema stesso, con un iter evolutivo che spinge Metz a studiare la significazione, il confronto psicanalitico, l’enunciazione impersonale, sino a farne, suo malgrado, il maggior teorico del dopoguerra. Insieme a lui, Roland Barthes. Attratto tanto dalla semiologia quanto dalla psicanalisi, egli si rivolge piuttosto a quest’ultima nel delineare il trapasso verso una teoria, sia pur embrionale, del cinema quale istituzione significante e dispositivo sociale atto a produrre la fascinazione dello spettatore, con la ripresa delle tematiche su spettacolo, sala, fruizione, che sono poi quelle che più interessano i teorici del mondo anglosassone, come il sociologo Michael Wood, propensi a rivalutare il cinematografo quale istituzione collettiva e narrazione finzionale.
In ambito sociologico va ricordato il valido contributo di I. C. Jarvie con il suo schema concettuale e metodologico per l’analisi comparata sul cinema, e di Pierre Sorlin che appronta schemi teorici per mettere il film in rapporto col sistema entro cui viene prodotto, al fine di stabilire come il cinema serva a far meglio capire la storia contemporanea.
Singolare compendio di indagini a metà fra storia, antropologia, psicanalisi e sociologia è, infine, lo sforzo di Edgar Morin che associa la costruzione del film a quella dello psichismo umano nel duplice tentativo di spiegare l’uomo attraverso il cinema (e viceversa); colto nella dialettica tra la vita pratica e quella immaginaria, il cinema diventa una macchina per rivelare le anime e rendere visibili i sogni (ormai collettivamente condivisi in quanto fabbricati in serie) e soprattutto per il soddisfacimento dei bisogni immaginari al centro della civiltà contemporanea.

4.6. Il postmoderno.
Gli anni Ottanta e Novanta, pur nella crisi del cinematografo quale istituzione spettatoriale (la sala), utopia sociopolitica (la neovanguardia) e tecnologia mediologica (l’immagine su pellicola), rappresentano – postmodernamente – da un lato il grande ritorno dell’industria hollywoodiana con una nuova generazione di autori, registi, attori, produttori e dall’altro il ruolo sempre più invadente del mezzo televisivo, non solo nella sfera sociocomunicativa ma soprattutto in quella esistenziale e quotidiana. (Postmoderno)
Il cinema, però, è rivissuto attualmente mediante un vivace fermento di attività per così dire collaterali: infatti mai come oggi, attraverso il videoregistratore, il DVD (CD) e le reti telematiche, è possibile fruire di una così massiccia quantità di opere filmiche; mai come oggi, inoltre, con istituzioni sempre più numerose (scuole, università, fondazioni), il cinema è seriamente studiato quale disciplina fondamentale della vita del nostro secolo. Di conseguenza anche la speculazione teorica ha positivamente subito un moltiplicarsi di iniziative in quasi tutte le direzioni.
Nell’impossibilità di fornire un’adeguata visione, al di là dei dovuti aggiornamenti, sull’enorme dispiegamento del lavoro teorico contemporaneo, basterà limitarsi a tre inedite tipologie di riflessione che emergono in mezzo a sempre più consolidati contributi offerti dalle scienze umane (semiologia, psicanalisi, sociologia, ecc.): la filosofia in ambito francese, la narratologia delle scuole anglosassoni, il confronto tra il mezzo cinematografico e quello televisivo del sociologismo britannico.
Gilles Deleuze cerca tanto di rifondare il pensiero sul cinematografo quanto di ridefinire il cinema stesso: secondo lui la teoria, infatti, non si basa su quest’ultimo, bensì sui concetti che esso suscita. Quindi sono i concetti e non le t.d.c. a creare l’unicità della Settima Arte, ragion per cui occorre chiedersi non cosa sia il cinema, ma che cos’è la filosofia; nasce quindi, da questa pratica delle immagini e dei segni che è appunto il cinema, una sindrome personale che prende corpo come visione del mondo.
Seymour Chatman (1981) ripensa al film in termini di storia e discorso: la storia (quanto viene narrato) deriva dalla combinazione di eventi (azioni e avvenimenti) ed esistenti (personaggi e ambienti); il discorso concerne il modo in cui la storia è narrata, con la distinzione interna al racconto tra chi narra e colui a cui si narra, per poi, complessivamente, far spazio a una teoria del testo filmico e delle sue dinamiche interne.
John Ellis (1982) sostiene la tesi secondo cui cinema e televisione non sono strumenti scambiabili né in competizione, ma linguaggi con forme distinte e interdipendenti, in grado di assumere ruoli sociali definiti: tanto il cinema è esperienza intensa, complessa e finanche critica, quanto la televisione è estesa e penetrante, il fondamento del senso della quotidianità contemporanea. Pur nella comune matrice finzionale, ciascun mezzo possiede propri sistemi organizzativi con conseguenti differenziazioni mediologiche a livello di produzione e prodotto.

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Rivoltella Pier Cesare , Michelone Guido , Teorie del cinema, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (28/03/2024).
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