Western

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Il western L’Uomo che uccise Liberty Walance realizzato da John Ford nel 1962
"Qui siamo nel West, dove, se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda": questa frase contenuta nel penultimo film w. di John Ford – L’uomo che uccise Liberty Valance (1961) – racchiude in sé tutto il senso di un’epopea con la quale per decenni si è identificato il cinema americano tout court. André Bazin diceva che "il western è il cinema americano per eccellenza"; di fatto, si può affermare che la cinematografia d’oltreoceano è nata con il w.: il primo film, costruito in senso narrativo e caratterizzato della presenza di un tentativo di articolazione compiuto del linguaggio cinematografico, é The Great Train Robbery (1903) di Edwin S. Porter. D’altra parte, si può anche affermare che il w. è l’unico genere – dapprima letterario e poi cinematografico – autenticamente americano. Basti pensare ai romanzi di Fenimore Cooper (L’ultimo dei Mohicani, 1826; La prateria, 1827; I pellirosse, 1846).
Nell’epoca del muto, il w. si connota per una sua struttura di racconto, poggiato su pochi, semplici elementi costitutivi, perfettamente identificabili da un pubblico entusiasta e continuamente reiterati. Gli eroi di queste cosiddette Horse Opera – senza macchia e senza paura, sempre in sella al loro cavallo bianco – si chiamavano Broncho Bylly Anderson, Tom Mix, Rio Jim, Ken Maynard, Buck Jones; le loro avventure si chiudevano con l’immancabile e puntuale happy end finale; le loro gesta costituivano un elemento unificante di un popolo giovane, con appena cento anni di storia alle spalle, per il quale ‘la conquista del West’ rappresentava la propria mitologia: una sorta di Odissea dove il viaggio verso l’ignoto, l’avventura, la lotta vittoriosa contro il nemico o la natura ostile, erano gli elementi portanti; gli eroi di questo Olimpo si chiamavano Wyatt Earp, Doc Holliday, Wild Bili Hickock, Buffalo Bill, il generale Custer.
Con l’avvento dei sonoro, il w. conosce il periodo dei suo massimo splendore, soprattutto dagli anni Trenta agli anni Cinquanta: l’epoca di quello che potremmo definire il w. classico, che ha dato alla storia dei cinema una lunga serie di autentici capolavori. Basterebbe, per tutti, citare Ombre rosse (1930) o Sfida infernale (1940) di John Ford, oppure Fiume rosso (1948) di Howard Hawks.
Genere tra i più consolidati e canonici del cinema, accompagnato sempre da un vasto successo popolare, il w. classico basa la sua ossatura comunicativa e strutturale essenzialmente su dei topoi, che raramente conoscono delle eccezioni nella loro scansione narrativa: l’amicizia virile, che mette in bella evidenza un sostanziale maschilismo di fondo; l’individualismo eroico del pionieri; lo spirito di una comunità che sta costruendo con ottimismo il proprio futuro; la rappresentazione di una realtà manicheamente divisa tra buoni e cattivi, sempre in eterno conflitto tra loro; una soluzione finale e favore del bene e della giustizia; bene e giustizia sempre identificati con la civiltà dei coloni bianchi. Per questo, l’epopea della conquista dell’Ovest degli Stati Uniti raccontata dal cinema ha avuto anche una sua valenza ideologica, è stata anche un modo per fornire al pubblico di tutto il mondo un’ottica di lettura parziale della storia di una colonizzazione, in cui l’uomo bianco è quasi sempre portatore di valori positivi contro gli indiani barbari e selvaggi, che si oppongono con ferocia al progresso e alla civiltà; questi ultimi poi, sono, in genere, sempre rappresentati come massa, come gruppo indistinto, che ha nella tribù il solo elemento di unità e di identificazione.
Gli anni Cinquanta sono caratterizzati invece da un tentativo di guardare più attentamente a quanto effettivamente accaduto nelle vicende della Frontiera: vedi film come Il grande cielo (1962) di Howard Hawks, La carovana dei mormoni (1950) di John Ford, L’amante indiana (1950) di Delmer Daves; oppure da un approfondimento della psicologia dei personaggi, che porta inevitabilmente e incrinare le loro certezze, aprendo la strada al dubbio e alla crisi. Gli eroi, così diventano più vulnerabili, le loro parole non assomigliano più a delle sentenze, la pistola non è più l’unica legge a cui obbedire: vedi film come Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinnemann, Dove la terra scotta (1958) di Anthony Mann, Il cavaliere della valle solitaria (1953) di George Stevens.
Negli anni Sessanta inizia quel processo che è stato chiamato di rivisitazione dei w.: una più accurata e obiettiva lettura della storia che riabilita la figura degli indiani, visti ora come vittime indifese dei coloni bianchi e della loro forza militare: Soldato blu (1970) di Ralph Nelson e Piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn.
Gli anni Settanta sono anche quelli in cui il mito si infrange sempre più e il w. diventa crepuscolare. Registi come Sam Peckinpah o Don Siegel sono i cantori, assieme e tanti altri, di questa stagione: il primo con un film come La ballata di Cable Hogue (1970), dove il cow boy protagonista muore schiacciato dalle ruote di un’automobile; il secondo con un film come Il pistolero (1976), interpretato da due attori – anch’essi al loro crepuscolo professionale – da sempre legati a questo genere: James Stewart, nella parte di un anziano medico disilluso e cosciente del tramonto di un’epoca, e John Wayne, il vecchio bounty killer (cacciatore di taglie) malato di cancro, che si reca alla classica sfida finale non più a cavallo, ma su di un tram.
Gli anni Settanta costituiscono inoltre un periodo travagliato della storia americana: la guerra del Vietnam, il rapporto tra gli Usa e i Paesi del terzo mondo, la crisi di immagine di una superpotenza a livello internazionale. In questo contesto, il w. – genere sul quale si era costruito, per buona parte, il mito americano – diventa metafora del presente; la crisi di identità di un’America, che accusa i sintomi della fine della propria egemonia sul mondo, si riflette anche sugli eroi della Frontiera. Gli uomini forti e duri della mitologia del West diventano, così, degli antieroi stanchi e spenti nella loro carica ottimistica di conquista; degli individui perdenti, svuotati della loro identità, in preda a un mondo caratterizzato da una cieca violenza che non riescono più a controllare o che non hanno più la forza di combattere. È la Storia che si prende la sua rivincita sulla leggenda; la realtà che scardina un immaginario epico durato per molti decenni e che ora viene svelato in tutto il suo demitizzante e non certo esaltante scorrere quotidiano. Il cammino inesorabile della revisione storica completa questo processo di demolizione: Billy the Kid risulta, così, essere stato un giovane non tanto a posto con la testa; Custer un pazzo esaltato, nominato generale per sbaglio.
Probabilmente, quest’era crepuscolare del w. si è chiusa con I cancelli del cielo (1980) di Michael Cimino, un film-simbolo della fine di un’epopea ormai lontana nel tempo e senza più prospettive vitali. Di fatto, con questo film, Cimino, ispirandosi a un evento realmente accaduto, tenta di rovesciare gli schemi canonici del w.; il risultato è quello di un clamoroso insuccesso commerciale: segno inequivocabile della crisi irreversibile di un genere, che ormai dimostra una scarsa presa sul pubblico e che sembra quasi essere diventato il reperto di un’archeologia culturale da custodire nel silenzio di un museo. Lo dimostrano i sempre più rari film w. prodotti negli ultimi anni, dove la mitologia e l’epopea di un tempo sembrano divenuti solo lo spunto per un mero esercizio formale.
C’è da dire, comunque, che con il w. si sono confrontati tutti i maggiori registi hollywoodiani: segno, questo, di quanto fosse profondamente radicato nella cultura di quel paese il mito sorto attorno all’epopea della conquista dell’Ovest. Oltre e John Ford (il quale, quando si presentava a qualcuno, diceva: "Mi chiamo John Ford. Faccio western"), ricordiamo Cecil B. De Mille, Howard Hawks, Raoul Walsh, King Vidor, Delmer Daves, Anthony Mann, John Sturges, Howard Hughes, Fred Zinnemann, Budd Boetticher, John Huston, Nicholas Ray, Richard Brooks, Sam Peckinpah, Arthur Penn, Abraham Polonski, Robert Altman, Don Siegel, Monte Hellman e molti, molti altri.
Il w. non ha mancato di influenzare anche autori di altri Paesi. Ricordiamo il tedesco Karl May, che all’inizio degli anni Sessanta è stato regista di numerosi film che si ispiravano e questo genere; ricordiamo, infine, Sergio Leone, il padre dei cosiddetto w. spaghetti, che, con i suoi film Per un pugno di dollari (1964), Per qualche dollaro in più (1965), Il buono, brutto e il cattivo (1966) e C’era una volta il West (1968), Giù la testa (1971) è stato poi seguito da una lunga serie di epigoni nostrani per tutti gli anni Sessanta.


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Tagliabue Carlo , Western, in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (19/03/2024).
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